Roma. Andy Warhol: che senza farlo sapere
in giro andava tutte le domeniche a
messa in una chiesa che seguiva il rito cattolico
bizantino dei suoi avi slovacchi, e la
cui arte è in realtà fortemente influenzata
dalla tradizione delle icone, anche se magari
non tutti se ne accorgono. Flannery
O’Connor: scrittrice cattolica del Sud, una
specie di Chesterton in gonnella nella terra
di Faulkner, che non si addormentava
mai senza prima leggere qualche pagina
della “Summa Theologiae” di san Tommaso,
e che proponeva appunto il cattolicesimo
come rimedio a una religione del Sud
da lei percepita come “cupamente comica,
non avendo nulla che corregga le proprie
eresie, la gente le elabora drammaticamente”;
pur essendo al contempo orgogliosa
di come il protestantesimo popolare
aveva trasmesso all’inglese sudista il linguaggio
biblico. Walter Miller Junior: il
mitragliere di uno degli aerei che rasero
al suolo l’Abbazia di Cassino, che per il rimorso
non solo si fece poi cattolico, ma
scrisse “Un cantico per Leibowitz”; straordinaria
epopea fantascientifica su un ordine
monastico che dopo una guerra nucleare
si sforza di salvare il ricordo della civiltà,
in modo analogo a quanto monasteri
come quello di Cassino avevano appunto
fatto nel Medioevo. Tennesse Williams: il
drammaturgo di “Un tram chiamato desiderio”
e “Lo zoo di vetro”, passato al cattolicesimo
come unica soluzione a una
drammatica crisi creativa.
E poi Dorothy Day: l’attivista anarchica
che dopo essersi convertita fondò durante
la Grande depressione il Movimento operaio
cattolico ed è stata dichiarata da Giovanni
Paolo II serva di Dio. Thomas Merton:
il trappista leader del movimento dei
diritti civili, anche lui convertitosi, sembra
mosso dalla bellezza dell’architettura religiosa
conosciuta durante un viaggio romano.
Rosa Maria Segale “Suor Blandina”: la
religiose di origine ligure che aveva curato
il terribile Billy the Kid dopo che i medici
si erano rifiutati di assisterlo per una
ferita alla gamba e lo aveva poi visitato in
carcere; riuscendo così a salvare da una
rapina la diligenza in cui viaggiava e che
era stata assalita dallo stesso Billy, e a diventare
l’archetipo di tante suorine intrepide
poi inflazionate in tanti film western.
E, a proposito di Far West, anche un’icona
dell’americanità come il trapper Kit Karson,
proprio il “pard” finito nei fumetti di
Tex Willer: convertitosi a 34 anni, sia pure
per sposare una messicana; ma pure per
matrimonio divenne cattolico Ernest Hemingway.
Mentre si convertì dal protestantesimo
al cattolicesimo per genuina convinzione
poco prima della morte un’altra
icona dell’americanità come John Wayne.
Insomma, dopo essere stato per tutto il
periodo coloniale e fino a metà dell’800
una fede minoritaria; dopo essere stata
per il mezzo secolo successivo una religione
sì più diffusa, ma di impianto e immagine
fortemente etnica, tra italiani, irlandesi,
franco-canadesi, creoli della Louisiana,
ispanici, polacchi, ucraini o libanesi; è
almeno dall’inizio del XX secolo che il cattolicesimo
americano è diventato una religione
perfettamente accettata nella buona
società, e praticata da intellettuali e riformatori.
Anzi, proprio perché la presenza
di immigrati cattolici era massiccia nel
Partito democratico o nel sindacato per un
certo periodo il cattolicesimo negli States
ha avuto un’immagine perfino di sinistra.
Viceversa, l’“antipapismo” era un sentimento
viscerale delle masse più conservatrici:
espresso peraltro non solo in movimenti
xenofobi come i nativists o il Ku
klux klan, ma ad esempio nel colpo di mano
con cui il Congresso nel 1867 aveva vietato
l’ulteriore finanziamento del console
a Roma, interrompendo le relazioni stabilite
tra Stati Uniti e Santa Sede settant’anni
prima. Si sarebbe dovuto aspettare Reagan
e il 1984 per riaprirle, dal momento
che lo stesso cattolico Kennedy non se l’era
sentita di sfidare il pregiudizio. Anzi,
aveva accampato addirittura la scusa del
mal di schiena, per non inchinarsi di fronte
a Giovanni XXIII. Come l’altro candidato
presidenziale cattolico John Kerry, cui
gran parte dell’episcopato chiese di negare
i sacramenti per le sue posizioni in
campo etico; un eloquente esempio di
quello che è stato a volte in Vaticano bollato
come “americanismo”: quel modo disinvolto
dei cattolici statunitensi di rapportarsi
al melting pot in cui erano immersi,
che aveva portato nel 1870 il vescovo di
Little Rock a essere l’unico oppositore dichiarato
alla proclamazione del dogma
dell’infallibilità pontificia nel corso del
Concilio Vaticano I. E che sarebbe stato
ancora espresso in tempi recentissimi da
una famosa “confidenza” del cardinale
Francis George, arcivescovo di Chicago, al
fondatore della Comunità di Sant’Egidio
Andrea Riccardi: “In fondo, noi cattolici
americani siamo culturalmente, psicologicamente
segnati dal protestantesimo”. Tra
“Il Codice Da Vinci” e le campagne sui
preti anti pedofili, però, nel 2003 lo storico
di fede episcopale Philip Jenkins, docente
alla Pennsylvania state University, scrisse
il saggio “The New Anti-Catholicism:
The Last Acceptable Prejudice”, spiegando
come oggi c’è gente che non si azzarderebbe
mai a fare osservazioni contro negri
o ebrei, che invece non ha nessuna remora
a parlare di cattolicesimo in termini
razzisti. James Martin, editorialista della
rivista gesuita America, osserva un “doppio
standard” nei registi e autori di Hollywood:
che da un lato trovano irresistibile
il look della chiesa dal punto di vista
scenografico, ma poi sembrano cumulare
il vecchio pregiudizio cattolico conservatore
con il nuovo pregiudizio liberal. Peter
Viereck, Premio Pulitzer deceduto nel
2006, disse addirittura che oggi negli Stati
Uniti “l’anticattolicesimo è l’antisemitismo
dei liberal”. D’altra parte, il cattolicesimo
non è più una minoranza in America,
ma un’influente maggioranza relativa. Sono
cattolici un americano su quattro, un
senatore su quattro, un Rappresentante su
tre, il Vicepresidente Biden, e addirittura
sei giudici della Corte suprema su nove.
Maurizio Stefanini
© Copyright Il Foglio 31 marzo 2010