DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Conciliabolo sul celibato dei preti. Se ne dibatte da decenni, ma al Vaticano II non era in agenda. Questioni di identità, la trappola della pedofilia

Di Paolo Rodari

Se non fosse stato per l’obbligo del
celibato, casi di preti che abusano
su minori non si sarebbero verificati. O
comunque ce ne sarebbero stati molto
pochi. Non lo dice soltanto il teologo
sulla carta più antiratzingeriano di tutti,
lo svizzero ribelle Hans Küng: per
lui la regola del celibato è la “radice di
ogni male”. L’hanno sottinteso a volte
anche alcuni esponenti delle gerarchie
della chiesa cattolica, quando in questi
giorni hanno voluto ricordare che il
celibato non è un dogma. Prima lo hanno
detto. Poi hanno smentito le proprie
dichiarazioni perché le reazioni – l’ultima
è di ieri della Conferenza episcopale
italiana che nel comunicato di
chiusura del Consiglio permanente ha
ribadito che il celibato “non costituisce
affatto un impedimento o una menomazione
della sessualità” – si erano
fatte veementi. E’ successo due giorni
fa al cardinale emerito di Milano Carlo
Maria Martini: “Occorrerebbe ripensare
alla forma di vita del prete”, ha
scritto in una lettera ai giovani austriaci
ripresa dal settimanale austriaco
Die Presse am Sonntag. “Intendevo sottolineare
l’importanza di promuovere
forme di maggiore comunione di vita e
di fraternità tra i preti affinché siano
evitate il più possibile situazioni di solitudine
anche interiore” ha però precisato
poco dopo Martini. In scia, anche
l’arcivescovo di Salisburgo, Alois
Kothgasser, ha detto la sua. Spiegando,
senza tuttavia ritrattare, che “nella situazione
attuale della chiesa, la domanda
da porsi è se il celibato sia un
modo appropriato di vivere per preti e
credenti”. E ancora: “I tempi sono
cambiati e la società è cambiata. La
chiesa deve chiedersi in che modo può
continuare a coltivare il suo particolare
stile di vita, o cosa deve cambiare”.
“E’ normale che in un momento come
questo dove c’è chi attacca la chiesa
per gli scandali legati alla pedofilia
dei preti vi sia chi mette in dubbio il
celibato” commenta il vaticanista Sandro
Magister. “Ma non credo che oggi
chi guida la chiesa voglia mettere in discussione
il celibato. Per Ratzinger è
ancora questo il tempo di un ‘corpo
scelto’ che stia nella battaglia abbracciando
liberamente il celibato. Tra l’altro
occorre dire una cosa: coloro che
nella chiesa sono favorevoli all’abolizione
non vengono mai fuori nei momenti
che contano”. Cioè? “Nei recenti
sinodi dei vescovi si è toccato il tema
del celibato. Qualcuno ne ha parlato.
Ma, paradossalmente, sono stati i rappresentanti
di chiese che hanno esperienza
di preti sposati, come gli orientali,
a dire che l’abolizione del celibato
non risolve nessun problema, anzi a
guardare la vita di tutti i giorni dei preti
sposati, stretti tra famiglia e vita di
chiesa, li amplifica”.
Una riflessione diversa la fa un martiniano
doc, don Giovanni Nicolini.
Mantovano, fu a Bologna che conobbe
e frequentò Giuseppe Dossetti. Quindi
la lunga amicizia con il cardinale Martini
che l’ha sostenuto nel progetto di
fondazione della comunità le Famiglie
della Visitazione. Dice che “la prospettiva
non è quella dell’abolizione del celibato
sacerdotale, ma quella dell’ordinazione
presbiterale di uomini sposati”.
“In questo” spiega “ci è di guida la
tradizione dell’oriente cristiano. C’è
anche un cristianesimo ortodosso, e
quindi di rito orientale, legato alla
chiesa cattolica romana, che come tale
prevede il ministero di uomini sposati
che vengono ordinati preti. E questo a
fianco di uomini consacrati alla verginità
che tali restano. Non si tratterebbe
dunque di abolire qualcosa, ma di
aggiungere qualcosa”. Certo, “occorrerebbe
una grande riflessione dentro la
chiesa: sulla condizione della donna,
sul volto profondo della sua personalità,
su domande delicate che si imporrebbero
a donne che non potrebbero
essere semplicemente ‘la moglie del
prete’, ma che dal ministero dei loro
mariti verrebbero necessariamente
molto coinvolte”.
Non ci sono soltanto le chiese orientali
ad ammettere preti sposati. Con la
Costituzione apostolica Anglicanorum
coetibus dello scorso novembre, di fatto
Benedetto XVI ha lasciato aperto un
ulteriore spiraglio in questo senso. Dice
infatti Luke Coppen, direttore del
britannico Catholic Herald: “In Gran
Bretagna nessuno lega il celibato alla
pedofilia. Piuttosto il dibattito è focalizzato
su quei preti anglicani ammessi
dal Papa nella chiesa cattolica nonostante
siano sposati. I critici verso il celibato
dicono che è un’ingiustizia verso
i preti cattolici non sposati. Mentre i
sostenitori del celibato dicono che gli
anglicani avevano ricevuto una dispensa
temporanea”. E dunque il valore del
celibato dei preti cattolici rimane immutato.
Che sia o non sia in discussione, del
celibato nella chiesa cattolica se ne
parla, soprattutto da dopo il Concilio
Vaticano II. Complice un generalizzato
calo delle vocazioni, si è fatta più pressante
e insistente la richiesta di risolvere
la crisi accettando i preti sposati.
Si dice: se c’è carenza di clero non si
potrebbe e non si dovrebbe fare spazio
ai laici e, tra questi, a coloro che pur
sposati desiderano accedere all’ordinazione?
E ancora: non è arrivato il
momento di democraticizzare il sacerdozio
e consentirne l’accesso ai laici?
Al fondo di queste domande pare
però esserci il problema dell’identità.
Qual è l’identità sacerdotale? Chi è il
prete? Il cardinale tedesco Paul Josef
Cordes, presidente del Pontificio consiglio
“Cor Unum” ha dedicato all’argomento
un recentissimo libro: “Perché
sacerdote?” (San Paolo). O il sacerdote,
dice, è definito in base alla “funzione”
che ricopre nella chiesa, in base
ai “servizi” che svolge, per cui ovviamente
chiunque può sostituirlo nell’esercizio
di tali funzioni (anche una
donna o un uomo sposato), oppure la figura
sacerdotale ha un’altra radice, il
riferimento ontologico a Cristo: “La castità
di Gesù include tutta una cristologia”,
ha detto monsignor Angelo Amato,
prefetto delle Cause dei santi, in un
intervento che ha svolto il 4 marzo alla
Pontificia Università della Santa Croce.
E cioè: la fonte del celibato, ciò che
lo giustifica e lo chiarisce, è la verginità
di Cristo. In sostanza, come diceva
il teologo belga Jean Galot, il sacerdote
è “per mezzo del celibato che può
appartenere più completamente a tutti
gli uomini. Se non è entrato nella via
del matrimonio e se si è rifiutato di
fondare una famiglia, è perché ha voluto,
per la sua vita e per il suo cuore,
un’apertura più universale”.
Il contrario, insomma, di una visione
funzionalistica del sacerdozio. Visione
che, come ha detto ancora Cordes presentando
il suo libro a Roma lo scorso
24 marzo, “corrisponde senz’altro indiscutibilmente
a una sensibilità moderna”.
Alfiere di questa visione è, più di
altri, Küng. Il quale, dice Cordes, “propone
argomenti popolari perché facilmente
convincenti”. E ancora: è “molto
abile nel mettere il dito nelle piaghe
della chiesa, certo spesso e volentieri
senza curarle”.
Dire che il celibato è stato messo in
discussione, nei temi moderni, principalmente
dopo il Concilio significa affermare
una verità: non è del celibato
dei preti che il Concilio ha voluto parlare.
Non così avvenne precedentemente.
Il celibato è una legge della
chiesa latina che risale al 1139 ed è stata
poi fissata dal Concilio di Trento.
Venne fissata nonostante tanti preti vivessero
in stato di concubinato. Anzi,
probabilmente i padri conciliari la stabilirono
proprio a motivo di questo stato
di cose. Non così invece andò il Vaticano
II. Del celibato non vollero parlare,
ovviamente perché non lo ritenevano
discutibile, né colui che aprì il
Concilio, Giovanni XXIII, e nemmeno
chi lo chiuse, Paolo VI. Certo, nel decreto
“Presbyterorum ordinis” del dicembre
1965 del celibato si parla. Ma
lo si fa per ribadirne l’importanza:
“Con la verginità o il celibato osservato
per il regno dei cieli”, recita il testo
conciliare, “i presbiteri aderiscono più
facilmente a Dio con un cuore non diviso,
si dedicano più liberamente in lui
e per lui al servizio di Dio e degli uomini”.
Un concetto poi ripreso da Paolo
VI nella “Sacerdotalis caelibatus” del
1967, un’enciclica che in anni turbolenti
e difficili per la chiesa cattolica, ripropone
tutte le “ragioni” del celibato,
“fulgida gemma che conserva tutto il
suo valore anche nel nostro tempo”.
Sul tema torna più volte Joseph Ratzinger.
Se già nel 1985 in “Rapporto
sulla fede” dice allo scrittore Vittorio
Messori che la crisi del sacerdozio è
dovuta anche a uno smarrimento della
sua identità – il sacerdote è un “alter
Christus” – in favore di un ruolo basato
principalmente sul consenso della
maggioranza, è nel 1996, all’interno del
“Il sale della terra” (un colloquio con
Peter Seewald), che Ratzinger dice con
disarmante semplicità un concetto che
oggi molti teologi faticano a fare proprio:
“Il celibato è legato a una frase di
Cristo. Ci sono coloro, si legge nel vangelo,
che per amore del regno dei cieli
rinunciano al matrimonio e, con tutta
la loro esistenza, rendono testimonianza
al regno dei cieli. La chiesa è arrivata
molto presto alla convinzione che essere
sacerdoti significa dare questa testimonianza
per il regno dei cieli”. E
poi l’affondo: “La rinuncia al matrimonio
e alla famiglia è da intendersi in
questa prospettiva: rinuncio a ciò che
per gli uomini non solo è l’aspetto più
normale, ma il più importante. Rinuncio
a generare io stesso vita dall’albero
della vita, ad avere una terra in cui vivere
e vivo con la fiducia che Dio è la
mia terra. Così rendo credibile anche
agli altri che c’è un regno dei cieli. Non
solo con le parole, ma con questo tipo
di esistenza sono testimone di Gesù
Cristo e del Vangelo e gli metto così a
disposizione la mia vita”.
Chi contesta Ratzinger dice che il
Concilio offre una visione dell’identità
del prete in discontinuità col passato.
E che dunque questa discontinuità,
questa nuova visione, vada valorizzata.
Tra gli interventi più ascoltati del recente
convegno teologico sul sacerdozio
svoltosi alla Lateranense e organizzato
dalla Congregazione per il clero
c’è stato quello di Willem Eijk, arcivescovo
di Utrecht. Il quale ha detto: “Il
Concilio non ha introdotto una discontinuità
nell’identità del prete”. Anzi,
“grazie al Concilio la continuità dell’identità
intrinseca non è affatto stata
minata, ma al contrario salvaguardata
in tempo. Il Concilio, conficcando i picchetti
giusto in tempo, ha prevenuto
che la crisi minasse in modo ancora
più grave la consapevolezza dell’identità
intrinseca del prete”. (1. continua)


Dalle facezie di Dowd alla teologa che dice: “Ordination is not the solution”


Tre giorni fa sul New York Times è
stata Maureen Dowd a dire che
“Benedetto XVI è determinato a proibire
che i preti prendano moglie”. E,
insieme, ad auspicare una sorta di liberazione
della chiesa cattolica dal
Papa. Come? Attraverso l’elezione di
una donna, magari di una suora, al
suo posto. Un tema, quest’ultimo, già
affrontato da diversi teologi seppure
in forma più nobile. Ovvero non toccando
direttamente la figura del Papa
come ha fatto Dowd, bensì andando a
cercare motivazioni teologiche a quel
sacerdozio femminile mai varato nei
duemila anni di storia della chiesa
cattolica (anche se c’è chi sostiene che
nei primi secoli qualche donna venne
ammessa a “sacris altaribus ministrare”).
Più recentemente, è negli anni
successivi il Concilio Vaticano II che
l’argomento è tornato a essere dibattuto.
Viste le nuove conquiste delle
donne, l’emancipazione dagli uomini
fino alla parità dei sessi, c’è chi si è
domandato se non fosse arrivato il
tempo di ridiscutere l’intero impianto
dell’ordinazione sacerdotale. Una richiesta
che è riecheggiata anche in
queste settimane in cui i casi di abusi
su minori commessi da preti hanno
guadagnato le prime pagine dei giornali:
se sono gli uomini a commettere
simili abusi, perché non sostituirli
con delle donne?
Ratzinger ha parlato apertamente
della cosa. Era il 2 marzo del 2006.
Nell’aula della Benedizione il Papa
incontrò il clero romano. E a domanda
rispose a braccio così: “Il ministero
sacerdotale dal Signore è, come
sappiamo, riservato agli uomini, in
quanto il ministero sacerdotale è governo
nel senso profondo che, in definitiva,
è il sacramento che governa la
chiesa. Questo è il punto decisivo.
Non è l’uomo che fa qualcosa, ma il
sacerdote fedele alla sua missione governa,
nel senso che è il sacramento,
cioè mediante il sacramento è Cristo
stesso che governa, sia tramite l’eucaristia
che negli altri sacramenti, e così
sempre Cristo presiede. Tuttavia, è
giusto chiedersi se anche nel servizio
ministeriale, nonostante il fatto che
qui sacramento e carisma siano il binario
unico nel quale si realizza la
chiesa, non si possa offrire più spazio,
più posizioni di responsabilità alle
donne”.
La biblista Marinella Perroni (insegna
Nuovo Testamento presso il Pontificio
ateneo Sant’Anselmo di Roma)
conosce bene la posizione del Papa. E
pur non parlando di sacerdozio femminile
afferma che nella chiesa “una
certa effervescenza attorno al tema
c’è”. Dice: “Le polemiche intorno alla
legittimazione del servizio liturgico
del lettorato delle donne, voluta in un
recente sinodo dei vescovi, va considerata
uno dei tanti sintomi del disagio
serpeggiante nelle chiese rispetto
alla questione dei ministeri”. Racconta
Perroni: “Quando ero bambina, mi
è stato accuratamente spiegato che
non potevo avvicinarmi all’altare né,
tanto meno, prendere in mano i vasi
sacri. Oggi diverse donne, soprattutto
nelle chiese latinoamericane o africane,
ma silenziosamente anche in Italia,
sono ‘parroche’, svolgono cioè quasi
interamente il servizio pastorale in
vista dell’edificazione della comunità
parrocchiale alla quale il vescovo le
ha destinate. Da questo punto di vista,
la distanza con le chiese riformate
sembra ridursi: le parroche fanno ormai
quasi tutto. Su quel quasi, che investe
essenzialmente i ministeri liturgici,
si gioca però un intero impianto
ecclesiologico, dato che la liturgia è
certamente il luogo privilegiato in cui
la chiesa rivela appieno se stessa, afferma
e conferma la sua consapevolezza
identitaria, veicola modelli di
organizzazione comunitaria più eloquenti
di interi trattati teologici”.
Donne quasi prete, dunque. Un
concetto che, detto così, senz’altro non
piace a Benedetto XVI il quale ha sì
affermato che è opportuno che le donne
abbiano più responsabilità all’interno
della chiesa – tema recentemente
ripreso anche da Lucetta Scaraffia
in prima pagina sull’Osservatore Romano
– ma nel maggio del 1998, quando
ancora era prefetto dell’ex Sant’Uffizio,
ha pure sostenuto un’altra cosa.
Aiutando Giovanni Paolo II nella stesura
del motu proprio Ad teundam fidem,
Ratzinger ha voluto venisse messo
nero su bianco che la natura dell’assenso
della fede è identica sia per
le proposizioni definitorie sia che per
le proposizioni definitive. Pertanto
queste ultime, come è ad esempio la
dottrina intorno al sacerdozio e all’ordinazione
di preti, non hanno un grado
di certezza inferiore alle prime. In
sostanza Ratzinger voleva che tutti i
teologi si impegnassero ad accogliere
“fermamente” le verità proclamate
“in modo definitivo” dal magistero,
senza che sia necessaria una esplicita
“definizione dogmatica”. In tale categoria,
precisava il testo, rientra l’insegnamento
pontificio sull’ordinazione
sacerdotale da riservarsi soltanto agli
uomini.
Massimo Camisasca è stato per anni
portavoce di Comunione e liberazione
in Vaticano. Poi ha fondato un
gruppo di preti missionari, la Fraternità
San Carlo, di cui è superiore generale.
Camisasca parla della Madonna
come colei a cui occorre guardare
per capire chi è il cristiano, perché è
in lei che “troviamo la forma di vita
essenziale comune a ogni battezzato”.
E’ guardando a lei che si capisce come
non vi sia ragione “per cui una donna
debba desiderare di diventare sacerdote”.
Del resto, dice Camisasca, “Gesù
stesso lo ha escluso, non per togliere
qualcosa al posto delle donne nella
chiesa da lui fondata, bensì per riconoscere
la loro suprema dignità. La
donna nella chiesa, la donna che si
mette alla scuola di Maria, ha molto
da insegnare ai sacerdoti. La donna
infatti ha un posto di rilievo nella vita
del sacerdote. Per molti preti, la madre
rimane un punto di riferimento
importante. Sanno che prega sempre
per loro, che li ricorda, che li attende.
Nei consigli pastorali accanto al sacerdote
siedono spesso donne che
hanno grandi responsabilità. Nelle
parrocchie la presenza femminile è
statisticamente maggioranza”.
Il tema della valorizzazione del ruolo
della donna nella chiesa slegato
dall’ordinazione sacerdotale venne
toccato più volte anche da Giovanni
Paolo II. I giornali diedero grande rilievo
a un intervento che fece il 4 settembre
del 1995 a Castel Gandolfo prima
della preghiera dell’Angelus.
Wojtyla disse che era sua intenzione
valorizzare il genio femminile nella
chiesa, seppure all’interno degli “ampi
spazi che la legge della chiesa già
riconosce loro”. Per maggiore precisione
il Papa fece l’elenco delle cose
che le donne possono fare: “Penso”
disse “alla docenza teologica, alle forme
consentite di ministerialità liturgica,
compreso il servizio all’altare, ai
consigli pastorali e amministrativi, ai
sinodi diocesani e ai concili particolari,
alle varie istituzioni ecclesiali, alle
curie e ai tribunali ecclesiastici, a tante
attività pastorali, fino alle nuove
forme di partecipazione nella cura
delle parrocchie, in caso di penuria
del clero, salvo i compiti puramente
sacerdotali”.
E’ nel “Sale della terra” (un colloquio
con Peter Seewald) che Ratzinger
dice parole importanti intorno all’ipotesi
del sacerdozio femminile. Lo
fa citando una diagnosi fatta da Elisabeth
Schüssler Fiorenza, una delle
“femministe cattoliche più importanti”.
Tedesca, Schüssler Fiorenza ha
studiato esegesi a Monaco. In passato
ha partecipato in modo convinto alla
lotta in favore dell’ordinazione delle
donne. Ma poi cambiò idea e iniziò a
dire altro. Spiega Ratzinger: “L’esperienza
dei sacerdoti-donna nella chiesa
anglicana l’ha portata a concludere
che ‘ordination is not a solution’, che
l’ordinazione sacerdotale non è una
soluzione, non è quello che volevano.
Ella ne spiega anche il motivo: ‘ordination
is subordination’, l’ordinazione
significa subordinazione”, mentre “un
inserimento organico e dipendenza è
proprio ciò che non vogliamo”.
Dice Ratzinger: “Si tratta davvero
di una diagnosi perfetta. Entrare in
‘ordo’ significa sempre entrare in un
rapporto di inserimento organico e di
dipendenza”. Per Ratzinger il punto
cruciale è uno ed è dato dalla domanda:
che cosa è il sacerdote? Qual è la
sua identità?”. (2. fine)

© Copyright Il Foglio 31 marzo 2010