Non chiedetevi perché la festa per i novant’anni
di un santo e operoso sacerdote
debba somigliare più a una convention di
Big Pharma che a un umile e devoto rendimento
di grazie a Dio. Magari è soltanto
perché, se hai una baracca costosa da
mandare avanti, tocca tenere su lo show
fin quando gli ospiti importanti e (se tutto
va bene) generosi hanno voglia di ballare.
E se poi tra gli amici più cari e commendevoli
ci sono certi arzilli vecchietti come te,
di quelli che non mollano mai, due come
Silvio Berlusconi e Carlo Maria Martini,
diventa quasi d’obbligo brindare con propositi
così: “Mi sento ancora un bambino.
Ho il capriccio di guarire tutti come Gesù.
Ho il capriccio di far vivere tutte le persone,
uomini e donne, almeno fino a centovent’anni”.
La vita eterna e anche l’immortalità,
quasi fossero la stessa identica cosa.
Chiedetevi piuttosto da dove venga, e
quale quota abbia oramai assunto nella
ragione sociale del San Raffaele di don
Luigi Verzé, questa nuova forma di millenarismo
biomedico e teologico (teosofico?)
che è divenuta il marchio di fabbrica e l’orizzonte
ultimo della sua ricerca: campare
fino a centovent’anni. Almeno. Con la benedizione
della scienza (anche lo staff di
Umberto Veronesi sarebbe arrivato alla
stessa formula magica di centoventi anni,
informa il Corriere della Sera) e in più con
la prospettiva religiosa dell’eternità. Magari
è soltanto perché questo vuole il mercato
e questo vuole la scienza laica, e questo
tocca offrire. In fondo è un far sognare:
la durata della vita è il punto in cui anche
i laicissimi come Veronesi (anni 85), l’autore
di “Il diritto di morire”, preferiscono
non mettere limiti alla provvidenza. Ma allo
stesso tempo c’è anche qualcosa di stridente,
di faustiano, nella celebrazione dei
novant’anni di don Verzé e dei centoventi
per tutti svoltasi domenica, con gran tripudio
di autorità laiche e religiose, in estasi
di fronte alla promessa dell’elisir (genetico)
di lunga vita. C’è una visione quantomeno
innovativa, per dir così, della fede,
che viene da lontano per don Verzé: “Sembra
una mera teoria inapplicabile. Tutt’altro
per chi prende sul serio l’essere cristiano.
A quando l’uomo perfetto a misura
di Cristo? L’ho già detto: il Dna già esiste
in ogni individuo e si sviluppa nell’età.
L’età di Dio è l’eternità”. E’ una delle intime
riflessioni del suo libro “Io e Cristo”.
Che un’idea così affascini l’antico amico
Berlusconi, che di suo pugno aveva scritto
per KOS l’elogio della profezia della vita
fino a centovent’anni grazie alla “medicina
preventiva, con il controllo a distanza,
con l’esame del Dna, con l’utilizzazione
delle cellule staminali”, va bene. Più curioso
che un’idea così religiosamente bordeline
come quella dell’immortalità iscritta
nel Dna (siamo figli di Dio…) sia benedetta
da un amico più recente, ma ormai
inseparabile compagno di meditazioni
profonde e sparate mediatiche superficiali,
come il cardinal Martini. Quello che su
KOS aveva distinto la “vita vera” dalla vita
biologica, allungando pericolosamente
l’ombra della “zona grigia” sul fine della
vita. Verzé è un sacerdote di Santa romana
chiesa la cui fede, più che verso il cielo,
è sempre stata inclinata verso il desiderio
della guarigione. Una ricerca “sempre
intimamente cullata”. Tanto che il più recente
e ambizioso progetto, varato tre anni
fa, è il centro Quo Vadis sulle colline di
Lavagno, nel veronese, il suo paese natale,
il luogo dove si punta alla vita di centoventi
anni: “Sarà la città del ben-essere per
l’uomo… Siamo in grado ormai di accompagnare
tutte le fasi di crescita con attenzione
preventiva-scientifico-sanitaria, prolungando
la vita, sana ed esuberante, fino
a una età sempre più longeva. Più sano è
il corpo, migliore contributo conferisce all’uomo
come da Dio modellato”. Nulla di
strano che questa combriccola di gagliardi
vegliardi affascini tanto Armando Torno,
che sul Corriere ha accomunato don
Verzé a Veronesi: “I due grandi vecchi e il
sogno dell’immortalità”. Una “immortalità
fisica, più che spirituale”, come di “un sogno
che giunge da oriente”. E’ un piacere
che tutti campino centovent’anni. Ma per
favore, don Luigi, si contenga: pensi a come
sarebbe tremendo, in un futuro faticosamente
remoto, ritrovarsi ancora a discutere
di clima d’odio e magistrati rossi. Pensi
che crudeltà per il cardinal Martini, ancora
decenni costretto a fare l’alter Papa,
a discettare sulla vita vera che è solo dello
spirito, ma intanto confidando nella genetica.
Quo vadis, don Luigi?
Maurizio Crippa
© Copyright Il Foglio 16 marzo 2010