"La pedagogia di Gesù nell'educare alla fede" è il tema della riflessione che il priore di Bose terrà la sera del 17 marzo nel teatro comunale di Belluno nell'ambito del Convegno di Quaresima. Anticipiamo ampi stralci del suo intervento.
di Enzo Bianchi Gesù ci ha mostrato innanzitutto una necessità: chi inizia alla fede o a essa vuole generare, deve essere credibile, affidabile. Del resto - lo sappiamo per esperienza - anche i genitori che vogliono educare un figlio possono farlo solo se sono credibili, affidabili.
La credibilità di Gesù nasceva principalmente dal suo avere convinzioni e dalla sua coerenza tra ciò che pensava e diceva e ciò che viveva e operava. Non erano solo le sue parole che, raggiungendo l'altro, riuscivano a vincere le sue resistenze a credere; non era un metodo o una strategia pastorale a suscitare la fede: era la sua umanità contrassegnata da una pienezza di grazia e di verità (cfr. Giovanni, 1, 14). Grazia e verità che dicevano l'autenticità e la coerenza di Gesù, non lasciando alcuno spazio tra le sue convinzioni e ciò che egli diceva e viveva.
Incontrando Gesù, tutti percepivano che non c'era frattura tra le sue parole e i suoi gesti, i suoi sentimenti, il suo comportamento. Ed è proprio da questa sua integrità che nasceva la sua autorevolezza, che spingeva gli uomini a esclamare con stupore: "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorevolezza!" (Marco, 1, 27).
Nella pedagogia, nell'educazione alla fede, l'iniziatore deve dunque essere affidabile. Certo, per noi non è possibile raggiungere la coerenza vissuta da Gesù, quest'uomo in cui traspariva Dio; ma anche per noi l'essere affidabili dipende dalla nostra coerenza, e la nostra affidabilità è decisiva nell'educare alla fede e nel trasmetterla.
Un'altra caratteristica di Gesù, che emerge dai suoi incontri, è la sua capacità di accoglienza verso tutti. In primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto della buona notizia, del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo e Giuseppe di Arimatea; gli stranieri come il centurione e gli uomini giusti come Natanaele, o i peccatori pubblici e le prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola.
Com'era possibile questo? Perché Gesù sapeva non nutrire prevenzioni, sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l'altro potesse entrare senza provare paura e senza sentirsi giudicato. Sulle strade, lungo le spiagge, nelle case, nelle sinagoghe, Gesù creava uno spazio accogliente tra se stesso e l'altro che veniva a lui o che lui andava a cercare; si metteva sempre innanzitutto in ascolto dell'altro, cercando di percepire cosa gli stava a cuore, qual era il suo bisogno.
Mi si permetta di dire: Gesù non incontrava il povero in quanto povero, il peccatore in quanto peccatore, l'escluso in quanto escluso. Ciò avrebbe significato porsi in una condizione in cui l'altro veniva rinchiuso in una categoria, avrebbe significato ridurre l'altro a ciò che era solo un aspetto della sua persona. No, Gesù incontrava l'altro in quanto uomo come lui, membro dell'umanità, uguale in dignità a ogni altro uomo. E nell'incontrare e ascoltare un uomo Gesù sapeva coglierlo, questo sì, come una persona segnata da povertà, da malattia, da peccato. Solo avvicinandoci all'altro nel modo insegnatoci da Gesù, anche noi possiamo vivere un incontro ospitale, un incontro all'insegna della gratuità e teso alla comunione. E così possiamo giungere a fare spazio non solo all'altro che vediamo davanti a noi, ma all'Altro per eccellenza, Dio, che allora ci può veramente parlare.
Gesù era capace di compiere un terzo passo per iniziare, per educare alla fede. Nel rispondere a chi incontrava, Gesù cercava la fede presente nell'altro, come se volesse risvegliare e far emergere la sua fede. Egli sapeva infatti che la fede è un atto personale, che ciascuno deve compiere in libertà: nessuno può credere al posto di un altro! Gesù sapeva che a volte negli uomini c'è l'assenza di fede, atteggiamento che lo stupiva e lo rendeva impotente a operare in loro favore (cfr. Marco, 6, 6); era anche consapevole che ci può essere una fede non affidabile nel suo Nome, suscitata dal suo compiere segni, miracoli: "Molti, vedendo i segni che faceva, mettevano fede nel suo Nome; ma Gesù non metteva fede in loro" (Giovanni, 2, 23-24), perché l'uomo diventa rapidamente religioso, ma è lento a credere.
Gesù cercava invece in chi incontrava la fede autentica, e quando essa era presente poteva dire: "La tua fede ti ha salvato". Si noti che Gesù non ha mai detto: "Io ti ho salvato", bensì: "La tua fede ti ha salvato" (Marco, 5, 34); "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Matteo, 15, 28). Ecco come Gesù rendeva possibile la fede, ecco come faceva emergere la fede già presente nell'altro: attraverso la sua presenza di uomo affidabile e ospitale, che non dice di essere lui a guarire e a salvare, ma la fede di chi a lui si rivolge.
Ha scritto Benedetto XVI nel prologo dell'enciclica Deus caritas est: "All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro (...) con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva". Purtroppo noi dimentichiamo questa verità e rischiamo così di rendere sterile la nostra missione e il nostro sforzo per comunicare il Vangelo. Proprio perché il Vangelo è buona notizia, esso vuole raggiungere l'uomo nel suo cuore e suscitare in lui in primo luogo la fede nella bontà della vita umana, in modo che egli possa intraprendere l'avventura dell'esistenza credendo all'amore. È in questo senso che Gesù insegnava che nulla resiste alla fede, anche quando essa è nella misura di un granello di senape, "il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra" (Marco, 4, 31).
Infine, va messo in rilievo come l'educazione alla fede da parte di Gesù tenda all'annuncio del regno di Dio, alla buona notizia che Dio regna. Gesù non faceva riferimento a se stesso, ma nell'opera di evangelizzazione appariva sempre decentrato rispetto a Dio, al Padre che, con fiducia assoluta, chiamava: "Abba, Papà" (Marco, 14, 36).
Di più, con l'intera sua vita, fatta di azioni e di parole, Gesù cercava di raccontare Dio, di rendere il Dio dei padri una buona notizia, distruggendo tutte le immagini perverse di Dio elaborate dagli uomini. Gesù parlava di Dio soprattutto nelle parabole, narrando vicende umane, mostrando come il regno di Dio sia buona notizia per uomini e donne, buona notizia nelle loro storie quotidiane, reali. Attraverso la sua vita umanissima, da vero uomo, l'autentico adam voluto da Dio (cfr. Colossesi, 1, 15-16), Gesù ha raccontato e annunciato Dio; ha mostrato come Dio regnava su di lui e, regnando, combatteva e vinceva la malattia, il male, la sofferenza, la morte. È per averlo visto vivere in questo modo che Giovanni ha potuto scrivere: "Dio nessuno l'ha mai visto, ma proprio lui, Gesù, ce ne ha fatto il racconto" (cfr. Giovanni, 1, 18).
Con la sua umanità piena e non segnata dal peccato, Gesù è dunque riuscito a raggiungere l'intimo dell'uomo e a generarlo alla fede in un Dio che ama per primo, un Dio il cui amore ci precede sempre, un Dio il cui amore noi non dobbiamo meritare, per- ché è il suo stesso essere: "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 8.16). Ciò che Gesù chiedeva, o meglio destava in chi incontrava, era nient'altro che la possibilità di credere all'amore. Ecco il fulcro della fede cristiana: credere all'amore attraverso il volto e la voce di questo amore, cioè attraverso Gesù Cristo.
Educare alla fede è per la Chiesa il compito primario; ma nel tentativo di riuscirvi possiamo imboccare molte strade, alcune decisamente sbagliate, altre poco efficaci. Tutto dipende in verità, e non può essere diversamente, dalla nostra capacità d'assumere la stessa pedagogia vissuta da Gesù nell'incontrare gli uomini e le donne.
Anche oggi la fede può essere generata, destata, fatta emergere da chi, volendosi testimone ed evangelizzatore di Cristo, sa incontrare gli uomini in modo umanissimo; sa essere una persona affidabile, la cui umanità è credibile; sa essere presente all'altro e sa fare il dono della propria presenza; sa, in un decentramento di sé, fare segno a Gesù e, attraverso di lui, indicare Dio, il Dio che è amore.
Può darsi - come molti affermano - che oggi il discorso su Dio lasci gli uomini indifferenti: io stesso penso che questa osservazione contenga del vero. Può darsi che oggi "la Chiesa" - come scriveva quarant'anni fa in Introduzione al cristianesimo il teologo Joseph Ratzinger - "sia divenuta per molti l'ostacolo principale alla fede". Ma rimane vero che gli uomini sono sensibili all'avere fede o al non avere fede nell'amore, al credere o non credere all'amore, perché da questo dipende il senso dei sensi della vita.
Resto convinto che ancora oggi molti ci chiedono: "Vogliamo vedere Gesù!" (Giovanni, 12, 21), perché sentono che la sua umanità li riguarda, li intriga, li interroga.
(©L'Osservatore Romano - 17 marzo 2010)