DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Le 5 Giornate per l’Italia unita. Giorgio Rumi

Le barricate milanesi del marzo 1848 furono un atto di fratellanza patriottica senza precedenti; pur nelle differenze politiche, la città «votò» per l’unità Un testo postumo dello storico Rumi


DI G IORGIO
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el pomeriggio del 17 marzo 1848 giunge a Milano la no­tizia dell’insurrezione di Vienna con la caduta del cancellie­re Metternich. Presto s’intravedono possibilità di una svolta del potere asburgico in senso liberale con l’a­bolizione della censura e la convo­cazione – per un lontano 3 luglio – degli «Stati», organi rappresentativi dell’Impero e quindi delle Congre­gazioni centrali lombarda e veneta, in qualche modo espressive degli in­teressi del Paese sito al di qua delle Alpi e limitato dal Ticino e dal Po.
L’indomani, 18 marzo, due cortei muovono verso il Palazzo del Go­verno, sito in borgo Monforte: giun­ge per primo quello armato con pi­stole e pugnali e raccolto da Cesare Correnti. Il chierico Zaffaroni ab­batte una sentinella, l’altra fa fuoco ma viene sopraffatta. La folla travol­ge il corpo di guardia, penetra nel palazzo e distrugge tutto, prenden­do prigioniero il massimo rappre­sentante civile del potere austriaco presente in città, il vice-governatore conte O’Donnel. Giunge poi il po­destà, Gabrio Casati, col delegato provinciale (oggi diremmo prefetto), con l’assessore Giuseppe di Bel­gioioso, futuro fondatore del movi­mento cattolico in Lombardia, e quattro municipali, e infine l’arcive­scovo Romilli con l’arciprete del Duomo Oppizzoni: tutti italiani. Quel tanto di potere locale, che l’Au­stria della Restaurazione ha per­messo, prende il posto dell’Imperial Regio Governo, disarma la polizia e assume su di sé il controllo della città e della sicurezza dei cittadini.
Le campane suonano a stormo; i mi­lanesi si armano un po’ fantasiosa­mente con quello che trovano e sor­gono dappertutto barricate, desti­nate a difendere la città da attacchi provenienti da ogni direzione. È un tipo di guerra povera che utilizza quel che c’è ma che in tutta Europa – da Parigi a Vienna a Berlino – ot­tiene risultati irresistibili. Ma alle 6,30
di quel pomeriggio il feld-mare­sciallo Radetzky scrive alla Munici­palità: «Milano si trova da questa mattina in poi in aperta Ribellione contro il Governo di Sua Maestà, e ciò in un momento in cui la Cle­menza di S.M. aveva promesso elar­gizioni che si possono desiderare. Se è vero che la Municipalità desidera in questo momento la tranquillità ed il bene della Città di Milano, devo in­timarle di cooperare che si depon­gano istantaneamente tutte le armi e che venga in proposito proclama­to l’oportuno aviso dalla stessa Con­gregazione.
S e poi ad onta della mia giusta a­spettativa si volesse prolunga­re questa fatalissima lotta, mi troverò nella dolorosa necessità non solamente di bombardare la Città ma puranche di adoperare tutti i mezzi che mette nelle mie mani un’armata di cento milla uomini e due cento canoni per ricondurre al­l’ubbedienza una città ribelle».
Giovanni Giuseppe Venceslao Anto­nio Francesco Carlo Radetzky, con­te di Radetz, è un vecchio soldato boemo nato nel 1766. Ufficiale di ca­valleria e poi di Stato Maggiore, è dal
1831 comandante supremo delle im­periali e regie armate in Italia. Ha sposato una friulana, la contessa Francesca Romana Strassoldo, ama Milano (soprattutto le milanesi) ed è attaccatissimo alla dinastia asbur­gica e ai suoi sol­dati. Non capisce l’insofferenza dei lombardi per il dominio austria­co, comunque o­nesto, efficiente ed ordinato, e de­testa in particola­re la nobiltà e l’al­ta borghesia, col­pevoli ai suoi oc­chi di slealtà verso il sovrano.
Radetzky, che pur da tempo era in prima linea nel sostenere l’uso del­la forza contro i lombardi, non ha predisposto un piano operativo de­gno di questo nome. La lotta si tra­sforma
in una serie di fazioni parti­colari, con alterne vicende. Radetzky riesce a prendere il Broletto, cattu­rando un’importante frazione della dirigenza insurrezionale; dal Duo­mo, i cacciatori tirolesi tengono sgombra piazza e vicinanze; riesce poi a concentrare forze in Castello e a tenersi aperta una via di fuga da Porta Romana, da cui defluire con una manovra a semicerchio. N on procede però a bombar­dare Milano, per ragioni di opportunità politica o per u­na suprema resipiscenza e poi si o­rienta all’abbandono della capitale: una scelta strategicamente felice che lo porta a raggiungere il Quadrilate­ro ( Verona, Peschiera, Legnago e Mantova), avamposto della presen­za asburgica in Italia. Il feldmaresciallo infatti si sente pre­so in una tenaglia. Da occidente può muovere l’esercito di Carlo Alberto, il re di Sardegna. Radetzky soprav­valuta la forza sabauda, che vede po­tenziata dalla concessione dello Sta­tuto (4 marzo 1848) e dal consenso di un forte partito filopiemontese nel ceto dirigente lombardo, secondo la lezione di Federico Confalonieri. Ca­duto il primo Regno d’Italia, quello napoleonico, era infatti parso ad un qualificato gruppo d’opinione che ruotava attorno al patrizio milanese, che solo un accordo con Torino po­teva dare all’Italia – almeno a quella settentrionale – peso ed autonomia. Ma il feldmaresciallo ha un ulterio­re
cauchemar .
Le campagne non si sono mostrate così leali all’Impero come aveva sperato. Le città di pro­vincia si sono ribellate con episodi incresciosi: a Cremona, due reggi­menti (il Ceccopieri e l’Arciduca Alberto) si so­no ammutinati facendo causa comune con la fol­la; a Como i croati si so­no arresi per fame; per­sino i granatieri di guar­dia all’I.R Villa di Monza hanno disertato. C’è il pericolo che i preti, stan­chi dell’opprimente con­trollo governativo nel­l’intera vita religiosa, secondo i pre­cetti dell’imperatore Giuseppe II e dei suoi «lumi», suonino le campa­ne e muovano i buoni contadini a minacciare le comunicazioni con Verona, per Innsbruck e l’Impero. Meglio ritirarsi nel Quadrilatero, at­tendere rinforzi, riordinarsi, atten­dere a piè fermo l’attacco delle va­riopinte milizie italiane, che in ef­fetti «papà Radetzky» sbaraglierà.
Così, a Milano, il 22 marzo è l’ultima giornata di combattimenti. Gli in­sorti hanno combattuto vigorosa­mente. Sono caduti circa 200 au­striaci e forse 300 milanesi, di cui 50 donne. Anche i ragazzi (indimenti­cabili i Martinitt che si conquistano il cuore dei milanesi) e i preti, evi­dentemente stanchi della soffocan­te protezione governativa. C’è stato un affratellamento patriottico sen­za precedenti. Gli eccessi nei com­battimenti e nel prosieguo sono ri­dotti, le famiglie dell’ufficialità civi­le e militare au­striaca sono caval­lerescamente ri­spettate e non ci sono vendette, nemmeno per gli sbirri più infamati e le stesse spie.
Certo, le menti e i cuori sono e re­stano divisi. I conflitti politici si ac­cendono mentre ancora si combat­te. C’è chi sta con Gabrio Casati e i moderati che guardano a Torino e alla soluzione liberale e costituzio­nale che, con Cavour, presto pre­varrà. E poi ci sono Correnti e Cat­taneo e i democratici mazziniani di ogni sfumatura. Concretamente, Milano offre un ventaglio di opzio­ni politico-sociali esteso dal più stretto conservatorismo alle mag­giori aperture ai ceti popolari e ai la­voratori.
Q ualcuno spera nelle tuniche blu dell’armata sardo-pie­montese come in un valido puntello dell’ordine sociale. Qualcun altro rifiuta la soluzione monarchica e pensa alle autonomie politico-sociali, se non alla lotta di classe. In ogni caso, non c’è più a Mi­lano un partito austriacante o legit­timista. La metropoli ambrosiana ha compiuto una scelta irreversibi­le per la separazione dall’Impero de­gli Asburgo. Milano con le barricate ha votato per l’Italia. Sarà il Nove­cento a mettere in dubbio i presup­posti della battaglia vinta dai padri.
«Gli insorti si battono con vigore, cadono circa 200 austriaci e forse 300 milanesi, di cui 50 donne Lottano i ragazzi (indimenticabili i Martinitt) e pure i preti, stanchi della soffocante politica giuseppina»
«Ci sono i moderati che guardano a Torino, i democratici mazziniani, qualcuno pensa all’autonomia...
Ma all’Austria non tiene nessuno, è stata compiuta un’irreversibile scelta di separazione dall’Impero»



© Copyright Avvenire 17 marzo 2010