Roma. Ci sono cose che invecchiano in
fretta. Ma, più che invecchiato, sembra appartenere
a un’altra era geologica il rapporto
dell’Unpfa (United nations population
fund) sullo “Stato della popolazione
nel mondo 2009”, dedicato a “donne, popolazione
e clima”. Eppure, sono passati
solo quattro mesi dalla sua uscita, programmata
in occasione della conferenza
internazionale sul clima tenutasi a dicembre
a Copenaghen. Una kermesse tanto
pletorica quanto fallimentare, oltre che,
come si ricorderà, segnata dall’imbarazzo
per la scoperta dei taroccamenti operati
in seno al Gruppo intergovernativo di
esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc)
allo scopo di accreditare, insieme con l’allarme
sul riscaldamento globale, la tesi
che a provocarlo siano soprattutto le attività
umane.
Una responsabilità per niente dimostrata
(così come non è affatto dimostrato
il riscaldamento globale stesso) ma ovviamente
data per scontata nell’introduzione
al rapporto Unpfa (pubblicato in Italia
dall’associazione non governativa Aidos),
che porta l’autorevole firma di Ban Kimoon:
“Prove sempre più evidenti mostrano
come i recenti cambiamenti climatici
siano principalmente il risultato dell’attività
umana”, scrive arditamente il
segretario dell’Onu. “Gli esseri umani
provocano il cambiamento climatico.
Questo li colpisce. Hanno bisogno di adattarvisi.
E solo gli esseri umani hanno il
potere di fermarlo”. Addirittura. “I gas
serra non si sarebbero accumulati così
drammaticamente se il numero degli abitanti
della terra non fosse cresciuto così
rapidamente, se cioè fosse rimasto a 300
milioni di persone, ossia la popolazione
mondiale di mille anni fa, anziché raggiungere
gli attuali 6,8 miliardi”. Per questo,
“gli scienziati, inclusi gli autori dei
rapporti del Gruppo intergovernativo di
esperti sui cambiamenti climatici, riconoscono
che l’importanza della velocità e
della portata della recente crescita demografica
inciderà sull’aumento delle future
emissioni di gas serra”.
Affermazioni davvero spericolate, quelle
del segretario delle Nazioni Unite, soprattutto
alla luce delle dimissioni a catena
nell’Ipcc dopo la scoperta della manipolazione
dei dati sul riscaldamento, e ridicolizzate
da studi come quello, recentissimo,
del National Oceanic and Atmospheric
Administration statunitense (pubblicato
da Science), che dimostra come
negli ultimi dieci anni la temperatura globale
non sia affatto aumentata ma semmai
diminuita. Ma la cosa che vale la pena sottolineare,
al di là dell’effetto patetico di
affermazioni “scientifiche”, è la morale
della favoletta raccontata dall’Unpfa, in
particolare sul ruolo che le donne avrebbero
negli scenari di cambiamento climatico,
come vittime dello stesso ma anche
come possibili agenti dei rimedi e delle
inversioni di rotta.
E allora, al di là dei catastrofismi presentati
come verità rivelate (“Non c’è tempo
da perdere, siamo già sull’orlo del precipizio”,
pag. 19), il rapporto non fa altro
che ripetere il solito, vecchio ritornello
della crescita demografica da arginare.
Le donne, da brave, sono pregate di farsene
carico, e gli stati di intervenire, con opportuni
programmi di “salute riproduttiva”,
per ottenere una crescita meno veloce.
Per premio, “se si concretizzasse lo
scenario con crescita bassa previsto dalla
Divisione per la popolazione delle Nazioni
Unite (circa 8 miliardi di persone entro
il 2050), potrebbero esserci tra 1 e 2 miliardi
di tonnellate in meno di emissioni
di carbonio rispetto allo scenario di crescita
media (un po’ più di 9 miliardi di
persone entro il 2050)”. Si riesuma addirittura
un rapporto del 1992 del comitato
dell’Accademia nazionale delle scienze
degli Stati Uniti, secondo il quale “gli effetti
della pianificazione familiare sulle
emissioni di gas serra sono importanti a
tutti i livelli di sviluppo”, vale a dire nel
primo come nel terzo mondo.
Anche la Nobel per la Pace Wangari
Maathai dice la sua, tra “empowerment”,
“sostenibilità ambientale” e “programmi
contraccettivi”. Auspica che si prendano
“in considerazione le differenze di genere
nell’impegno mondiale per la riduzione
del cambiamento climatico e per l’adattamento
a esso”. Ma non aspettatevi, né da
lei né da altri, nelle quasi cento pagine
molto patinate del rapporto Unpfa, una sola
parola sui cento milioni di bambine
scomparse in Asia (abortite, lasciate morire,
non curate) alle quali l’Economist ha
dedicato la sua storia di copertina due settimane
fa. Una catastrofe reale e senza
precedenti, contro la quale le diplomazie
onusiane non hanno mai mostrato una
gran voglia di intervenire. Preferiscono, si
sa, occuparsi di aria calda (anzi, fritta).
Nicoletta Tiliacos
© Copyright Il Foglio 17 marzo 2010