- Padre Gerald Fitzgerald credeva di poter salvare il suo mondo. Correva e si dimenava da una diocesi all’altra degli Stati Uniti. Chiedeva appuntamenti a tutti i vescovi mentre la solitudine lo stava divorando. Perché davanti agli orrori perpetrati sui bambini o si indossa l’armatura delle ideologie da difendere, del nemico da abbattere, delle torri da proteggere dall’assalto, o si resta soli. Fitzgerald correva, li chiamava vipere. Da nord a sud, da est a ovest. Nelle pause, tra un viaggio e l’altro, scriveva.
1957: “Sono sorpreso. A quest’ora molte persone se non fossero dei preti sarebbero dietro le sbarre”. Non ce la faceva più Padre Fitzgerald. Il suo mondo, la sua Chiesa, erano entrate in uno stato di bancarotta morale, infettati. Per questo era necessario debellare il virus. A Fitzgerald, spesso inascoltato, non restò che una soluzione estrema: comprare un’isola al fine di recludervi tutti i preti che si erano macchiati di abusi sui minori. Agli atti, risultano versati 5000 dollari dei 50.000 che sarebbero serviti per acquistare l’isola.
I quotidiani di questi giorni sembrano averlo dimenticato, ma lo sforzo di Padre Fitzgerald arrivò fino a Paolo VI. I documenti resi pubblici nel corso di un processo celebrato in New Mexico nel 2007, e pubblicati il 30 marzo dello scorso anno dal National Catholic Reporter, lo confermano. Fitzgerald ne era convinto: i preti che avevano abusato dei minori dovevano essere allontanati dal sacerdozio e ridotti allo stato laicale. Ma per molti, anche fra gli specialisti, era un folle. Uno squilibrato. Secondo molti psicologi una adeguata cura poteva garantire il ritorno dei preti al loro posto.
Non è nuovo dunque, soprattutto per ciò che concerne gli Stati Uniti, il dibattito sulle responsabilità delle gerarchie ecclesiastiche. Come illustra la storia di Padre Fitzgerald il dibattito si era già aperto oltre 50 anni fa. Troppi. Appare per questo stucchevole l’impostazione del dibattito scelta da molti quotidiani italiani che fondano le loro argomentazioni sulla solita contrapposizione dogmatica fra laici e cattolici, sull’attacco al Papa da parte delle consorterie internazionali da un lato e la perenne critica ai misteri vaticani dall’altro. Una contrapposizione di tue tesi sostenute dalle rispettive tifoserie, non utile a capire quello che sta veramente succedendo.
Una ottima impostazione del problema è ancora una volta data dal National Catholic Reporter. John Allen si districa benissimo nei meandri delle procedure che nel corso degli anni sono state utilizzate per trattare i casi di abuso. Mostra la voglia dei vescovi americani di optare per la policy “one strike and you’re out”, ovvero la necessità di riduzione allo stato laicale per tutti i preti che con chiara evidenza si fossero resi protagonisti di abusi, e la prudenza romana che tendeva a ricondurre i casi nell’orbita della giurisdizione dei tribunali. Ed i numeri sembrano confermare azioni decise, spesso senza le minime garanzie del giusto processo, al fine di punire i colpevoli.
Ma è la dura posizione della redazione dello stesso National Catholic Reporter che deve far riflettere. Lo scandalo pedofilia viene definito come la più grande crisi che da secoli la Chiesa abbia mai attraversato. Non solo. Si critica anche la passività delle gerarchie ecclesiastiche:
“Una caratteristica peculiare di questa storia è rappresentata dal fatto che dove e quando sono emerse le problematicità, questo è avvenuto senza l’ausilio della Chiesa. (…) Le gerarchie ecclesiastiche non sono mai state protagoniste. Sempre in ritardo, sempre di rimessa e per questo hanno perso credibilità”.
Sulla base di queste considerazioni il Reporter chiede una trasparenza totale e la divulgazione dei documenti in mano al Vaticano.
Le questioni sul tappeto vanno oltre la mera responsabilità di carattere penale. E’ opportuno ricordare che negli Stati Uniti sono già otto le diocesi che hanno dichiarato bancarotta per pagare i risarcimenti dovuti agli abusi sessuali ed è attualmente pendente il caso John Doe v . Holy See, che ipoteticamente potrebbe aprire le porte dell’ obolo di San Pietro alle vittime.
Proprio due settimane fa gli avvocati delle vittime ed i rappresentanti della Santa Sede si sono incontrati con i funzionari del governo americano che dovranno decidere l’atteggiamento dell’amministrazione visto che ad esser tirata in ballo ora è l’immunità di diritto internazionale. E, pochi giorni dopo l’incontro, con una mossa da manuale, Jeff Anderson, uno degli avvocati che rappresenta le vittime, ha fatto atterrare sul tavolo dei redattori del New York Times la corrispondenza segreta fra la Santa Sede ed i vescovi del Wisconsin (qui il video della conferenza stampa). La pressione psicologica sull’amministrazione americana ora sarà fortissima. Gridare al complotto può esser facile. Leggere con pazienza gli eventi nei dettagli, capire le strategie è difficile. Costa fatica.
C’è bisogno dunque di grande lucidità per rendersi conto di quello che sta avvenendo. L’eccessiva leggerezza delle gerarchie ecclesiastiche, la volontà di non vedere, ma anche le strategie mediatico-giudiziarie che vogliono influire sui milionari processi di risarcimento che si stanno celebrando negli Stati Uniti. Leggere gli avvenimenti di questi giorni nelle chiave delle fazioni contrapposte, dei dogmi da difendere, della guerra culturale ispirata dalle teorie della cospirazione, non rende giustizia a quei bambini, e a chi, con carità e devozione, lavora nella Chiesa.
Al netto dei tatticismi e delle strategie legali, la Chiesa non può comunque ergersi a vittima. Circostanze eccezionali richiedono risposte eccezionali. L’isola di Padre Fitzgerald era un sogno di impunità che voleva contenere un incubo. Un’isola che non c’è. E che non potrà esserci. Anche per il bene della Chiesa.
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