« H ola!». Lo riconosco subito, fuori da un bar nel centro di Barcellona: è Mario Eduardo Firmenich, l’uomo che negli anni Settanta, secondo la simbolica giovanile argentina, sembrava quasi l’erede del presidente Péron stesso. Del resto verso il 1973 i montoneros, da lui guidati, godevano di presenze istituzionali di grande ampiezza. Oggi Firmenich ha 62 anni ed è professore di Economia all’Università di Rovisa a Tarragona, dopo esser stato allievo del premio Nobel Joseph Stiglitz. « Pasó mucho tiempo… ». È passato molto tempo da quegli anni Sessanta in cui lei iniziò una lunga militanza. Come fu la formazione del «giovane Firmenich»? «Ho avuto un’educazione cattolica tradizionale. La mia famiglia non era militante. Nel 1964 conobbi al liceo, precisamente al Collegio Nazionale di Buenos Aires, l’assistente della Gioventù Studentesca Cattolica, padre Carlos Mujica. Mujica divenne poi uno dei leader continentali dei sacerdoti impegnati con i movimenti di liberazione: proprio per questo fu ucciso, sempre a Buenos Aires, nel 1974. Era un prete straordinario, lucido, molto carismatico, giocatore di football, eccezionale oratore. Insomma, per noi studenti liceali si trattò di un grande incontro religioso, di scelte esistenziali per i poveri, gli ultimi…». A chi si rifaceva quella spiritualità? «Padre Carlos era in profonda relazione e contatto religioso con fratel Arturo Paoli e conosceva le esperienze dei preti-operai francesi». Fratel Arturo, il Piccolo Fratello di padre De Foucauld? «Sì, esattamente. Ma anch’io ho conosciuto fratel Arturo, tra i baraccati a Napoli nei primi anni Sessanta… A quei tempi egli rifletteva col padre Mujica sulla spiritualità di De Foucauld e dei suoi Piccoli Fratelli, contemplativi nel cuore delle masse povere del mondo… Eravamo affascinati anche dal metodo pedagogico di padre Mujica. Di cosa si trattava? Nei tanti gruppi della Gioventù Studentesca dovevamo leggere i quotidiani, commentarli e riflettere alla luce di una meditazione biblica. Il tutto nel tentativo di comprendere la situazione di terribile ingiustizia sociale che c’era in Argentina: una democrazia limitatissima e poi l’aperta dittatura del generale Onganía nel 1966». Ricordo anche la vostra testimonianza tra i baraccati nelle villas miserias… «Certamente. Padre Mujica viveva lì e aveva costruito una piccola cappellina chiamata 'Gesù Operaio'. Poi con Mujica andavamo nel nord, lavorando manualmente a Fortin Olmos insieme coi taglialegna e, anche lì, c’erano dei Piccoli Fratelli. La nostra riflessione era corroborata dagli anni del Concilio, dalla grande attenzione ecclesiale al Terzo Mondo, dalla spinta, direi, ad essere 'come loro', con i popoli sfruttati e contro le oligarchie dominanti e vendepatrias ». Ma tutto ciò, professor Firmenich, come si connette con la «scelta peronista»? «Vede, in Argentina la gran massa dei poveri e della classe operaia di quegli anni, molto forte, e di fasce ampie dei ceti medio-bassi, aveva assunto una fortissima identità culturale alternativa al capitalismo oligarchico e al conservatorismo liberal-borghese, ovvero il peronismo. Identità che si rifaceva all’esperienza popolare del generale Peròn degli anni Cinquanta. Insieme alla moglie Evita, i Perón avevano mobilitato enormi masse sfruttate, creando il welfare state argentino. Chi liberalizzò e modernizzò la politica, i partiti ed i sindacati, chi soprattutto emancipò gli emarginati, fu la leadership di Perón. Insieme con padre Mujica ne uscimmo convinti che il passaggio naturale e successivo doveva essere politico, con il 'popolo peronista'». È una specie di «controstoria» che lei mi sta narrando… «Esattamente. Il peronismo va letto così. Dentro il filone social-cristiano e latino-americano, il più avanzato. Lo collego anzi addirittura alle esperienze delle reducciones dei gesuiti in Paraguay nel ’500. Esperienze di società alternative allo sfruttamento. Lo collego anche alla tradizione liberale ed egualitaria del domenicano Bartolomeo de Las Casas, di riconoscimento dell’uguaglianza degli indios. Tutta questa 'controstoria' si collega all’aggiornamento conciliare del Vaticano II, che rappresentò per una certa generazione di sacerdoti e studenti in tutta l’America Latina un grande choc! Una sorta di utopia. Avevamo necessità di un camino politico, un’iniziativa di lungo periodo per l’emancipazione nazionale delle masse povere e peroniste». E in questo « camino» le capitò di abbandonare la fede? «Vanno distinte differenti fasi. All’inizio non cambiai. Però l’uccisione di padre Camilo Torres ci radicalizzò molto. Quella morte, in un certo senso, ci 'obbligò' a pensare anche alla violenza. L’opzione della militanza rivoluzionaria, con la nostra spiritualità per i poveri, fu un’estrema radicalizzazione violenta. Certo tanti altri cristiani in America Latina in quegli anni hanno fatto scelte coerenti con una posizione nonviolenta. Noi, che decidemmo di fare tante rinunce nella nostra vita professionale, non ci sentimmo di evitare la violenza politica. So del peso di queste mie parole. So degli errori, delle tragedie commesse. Eravamo coscienti di iniziare un percorso terribile, dove non era detto che avremmo visto una nuova società, potevamo morire ben prima, venire uccisi. Comunque, questa scelta la concepimmo come testimonianza mistica, non come opzione di puro potere». Professore, ma la violenza è una decisione… «La violenza la ereditammo lungo tutto l’arco del ’900 argentino. Certo la rivitalizzammo. Noi fummo figli di una lunga storia di un Paese brutale. Senza nessuna tradizione di negoziazione e trattativa politica. O tutto o niente, così è stata sempre la politica in Argentina. Con una prolungata 'guerra civile' dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, di bassa intensità, con migliaia di morti però». Ma esistono «due Firmenich»? Quello della violenza e quello di oggi, l’attuale professore e studioso di economia sostenibile? «No, è chiaro che c’è un solo Firmenich». No, insisto. Il problema è più complesso: c’è una drammatica questione di memorie non condivise in Argentina, una parte del popolo fu contro voi, contro i «montoneros» ed il peronismo. «Certo, una cosa è Firmenich sotto la dittatura, altro è Firmenich a sessant’anni, con una democrazia argentina. C’è un forte cambiamento, un mio ripensamento morale. Un mutamento di scenario come descrivo nel mio libro Eutopia, un’alternativa al modelo neo-liberal ». Come affronta questo nuovo scenario? «Anzitutto sottolineo l’antropocentrismo esagerato molto radicato nel pensiero occidentale e che va tenuto in considerazione molto critica. Presuppone una sovranità assoluta sulla natura, il che è pericoloso. L’essere umano riceve la natura in dono… In dono, esattamente. Di fronte a questo atteggiamento di servizio il pensiero calvinista, che pure alimentò l’accumulazione senza limiti di ricchezza, è alternativo al filone francescano che è un pensiero di sobrietà. La parola-chiave è 'sostenibilità'. C’è poi un’altra tematica nel mio studio: attorno alle 'tre bandiere' della rivoluzione illuministica. Abbiamo avuto, innanzitutto, la spinta rivoluzionaria francese nel ’700 per la libertà. Qualche secolo dopo la bandera dell’uguaglianza trionfò con le rivoluzioni comuniste, che però arrivarono al fallimento annullando la libertà. Il problema è che la terza bandiera, la fraternità, in verità è sintesi delle due precedenti correnti culturali. Nessuno, fino ad ora, ha fatto una rivoluzione della fraternità». Nella Caritas in veritate il Papa chiarisce che il limite del liberismo senza negoziazioni va mutato in un altro paradigma… «Certamente. Anch’io ritengo urgente il mutamento di paradigma dell’utilitarismo». Lei ha toccato un punto nevralgico. Non si può dispiegare un nuovo paradigma economico senza un cardine centrale basato sulla persona umana, sin dal suo concepimento. C’è una sorta di mutilazione, come è ben detto da Benedetto XVI. «Siamo arrivati a un limite pauroso nella sostenibilità dello sviluppo, è quello che nel mio libro chiamo la tendencia alla famiglia unipersonale. Alla distruzione della famiglia come luogo di procreazione e di relazioni sociali. In questo siamo mammiferi, non siamo di origine solitaria. Agendo brutalmente contro l’ecosistema abbiamo cercato una compensazione nell’iperconsumismo, provocando un forte inquinamento dell’atmosfera. È impossibile proseguire così». Ancora una questione. Oggi, professore, nel continente latinoamericano ci sono due tendenze. La prima, quella «bolivariana» più movimentista e populista; la seconda più pragmatica, solidaristica. Come colloca il suo progetto? «Nel mio discorso la dinamica globale è un punto fermo. Vedo una 'Patria Grande' latino-americana, sintesi delle due tendenze, senza esclusioni. Non vedrei male in questo senso un Parlamento latinoamericano, sostenuto da diversi gradi di sussidiarietà e partecipazione democratica». Fraternità e sussidiarietà. Vedremo il professor Firmenich in Vaticano dal Papa? «Se vengo invitato, incantatissimo!». «Eravamo cristiani figli del Concilio, ma la morte di padre Camilo Torres ci 'obbligò' a pensare anche all’uso della violenza. So del peso di queste parole. So degli errori, delle tragedie commesse. Eravamo coscienti di iniziare un percorso terribile, potevamo essere uccisi prima di vedere una nuova società; ma quella scelta la concepimmo come testimonianza mistica non come opzione di puro potere» |