DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Sudamerica, il mea culpa del guerrigliero

« H

ola!». Lo riconosco subito, fuori da un bar nel centro di Barcellona: è Mario Eduardo Firmenich, l’uomo che negli anni Settanta, secondo la simbolica giovanile argentina, sembrava quasi l’erede del presidente Péron stesso.
Del resto verso il 1973 i
montoneros, da lui guidati, godevano di presenze istituzionali di grande ampiezza.
Oggi Firmenich ha 62 anni ed è professore di Economia all’Università di Rovisa a Tarragona, dopo esser stato allievo del premio Nobel Joseph Stiglitz.
« Pasó mucho tiempo… ». È passato molto tempo da quegli anni Sessanta in cui lei iniziò una lunga militanza. Come fu la formazione del «giovane Firmenich»?
«Ho avuto un’educazione cattolica tradizionale. La mia famiglia non era militante. Nel 1964 conobbi al liceo, precisamente al Collegio Nazionale di Buenos Aires, l’assistente della Gioventù Studentesca Cattolica, padre Carlos Mujica. Mujica divenne poi uno dei leader continentali dei sacerdoti impegnati con i movimenti di liberazione: proprio per questo fu ucciso, sempre a Buenos Aires, nel 1974. Era un prete straordinario, lucido, molto carismatico, giocatore di football, eccezionale oratore.
Insomma, per noi studenti liceali si trattò di un grande incontro religioso, di scelte esistenziali per i poveri, gli ultimi…».
A chi si rifaceva quella spiritualità?
«Padre Carlos era in profonda relazione e contatto religioso con fratel Arturo Paoli e conosceva le esperienze dei preti-operai francesi».
Fratel Arturo, il Piccolo Fratello di padre De Foucauld?
«Sì, esattamente. Ma anch’io ho conosciuto fratel Arturo, tra i baraccati a Napoli nei primi anni Sessanta… A quei tempi egli rifletteva col padre Mujica sulla spiritualità di De Foucauld e dei suoi Piccoli Fratelli, contemplativi nel cuore delle masse povere del mondo… Eravamo affascinati anche dal metodo pedagogico di padre Mujica. Di cosa si trattava? Nei tanti gruppi della Gioventù Studentesca dovevamo leggere i quotidiani, commentarli e riflettere alla luce di una meditazione biblica. Il tutto nel tentativo di comprendere la situazione di terribile ingiustizia sociale che c’era in Argentina: una democrazia limitatissima e poi l’aperta dittatura del generale Onganía nel 1966».
Ricordo anche la vostra testimonianza tra i baraccati nelle villas miserias…
«Certamente. Padre Mujica viveva lì e aveva costruito una piccola cappellina chiamata 'Gesù Operaio'. Poi con Mujica andavamo nel nord, lavorando manualmente a Fortin Olmos insieme coi taglialegna e, anche lì, c’erano dei Piccoli Fratelli.
La nostra riflessione era corroborata dagli anni del Concilio, dalla grande attenzione ecclesiale al Terzo Mondo, dalla spinta, direi, ad essere 'come loro', con i popoli sfruttati e contro le oligarchie dominanti e
vendepatrias ».
Ma tutto ciò, professor Firmenich, come si connette con la «scelta peronista»?
«Vede, in Argentina la gran massa dei poveri e della classe operaia di quegli anni, molto forte, e di fasce ampie dei ceti medio-bassi, aveva assunto una fortissima identità culturale alternativa al capitalismo oligarchico e al conservatorismo liberal-borghese, ovvero il peronismo. Identità che si rifaceva all’esperienza popolare del generale Peròn degli anni Cinquanta. Insieme alla moglie Evita, i Perón avevano mobilitato enormi masse sfruttate, creando il welfare state argentino.
Chi liberalizzò e modernizzò la politica, i partiti ed i sindacati, chi soprattutto emancipò gli emarginati, fu la leadership di Perón. Insieme con padre Mujica ne uscimmo convinti che il passaggio
naturale e successivo doveva essere politico, con il 'popolo peronista'».
È una specie di «controstoria» che lei mi sta narrando… «Esattamente. Il peronismo va letto così. Dentro il filone social-cristiano e latino-americano, il più avanzato.
Lo collego anzi addirittura alle esperienze delle
reducciones dei gesuiti in Paraguay nel ’500.
Esperienze di società alternative allo sfruttamento. Lo collego anche alla tradizione liberale ed egualitaria del domenicano Bartolomeo de Las Casas, di riconoscimento dell’uguaglianza degli indios. Tutta questa 'controstoria' si collega all’aggiornamento conciliare del
Vaticano II, che rappresentò per una certa generazione di sacerdoti e studenti in tutta l’America Latina un grande choc! Una sorta di utopia.
Avevamo necessità di un
camino politico, un’iniziativa di lungo periodo per l’emancipazione nazionale delle masse povere e peroniste».
E in questo « camino» le capitò di abbandonare la fede?
«Vanno distinte differenti fasi.
All’inizio non cambiai. Però l’uccisione di padre Camilo Torres ci radicalizzò molto. Quella morte, in un certo senso, ci 'obbligò' a pensare anche alla violenza.
L’opzione della militanza rivoluzionaria, con la nostra spiritualità per i poveri, fu un’estrema radicalizzazione violenta. Certo tanti altri cristiani in America Latina in quegli anni hanno fatto scelte coerenti con una posizione nonviolenta. Noi, che decidemmo di fare tante rinunce nella nostra vita professionale, non ci sentimmo di evitare la violenza politica. So del peso di queste mie parole. So degli errori, delle tragedie commesse.
Eravamo coscienti di iniziare un percorso terribile, dove non era detto che avremmo visto una nuova società, potevamo morire ben prima, venire uccisi. Comunque, questa scelta la concepimmo come testimonianza mistica, non come opzione di puro potere».
Professore, ma la violenza è una decisione… «La violenza la ereditammo lungo tutto l’arco del ’900 argentino. Certo la rivitalizzammo. Noi fummo figli di una lunga storia di un Paese brutale. Senza nessuna tradizione di negoziazione e trattativa politica. O tutto o niente, così è stata sempre la politica in Argentina. Con una prolungata 'guerra civile' dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, di bassa intensità, con migliaia di morti però».
Ma esistono «due Firmenich»?
Quello della violenza e quello di oggi, l’attuale professore e studioso di economia sostenibile?
«No, è chiaro che c’è un solo Firmenich».
No, insisto. Il problema è più complesso: c’è una drammatica questione di memorie non condivise in Argentina, una parte del popolo fu contro voi, contro i «montoneros» ed il peronismo.
«Certo, una cosa è Firmenich sotto la dittatura, altro è Firmenich a sessant’anni, con una democrazia argentina. C’è un forte cambiamento, un mio ripensamento morale. Un mutamento di scenario come descrivo nel mio libro Eutopia, un’alternativa al modelo neo-liberal ».
Come affronta questo nuovo scenario?

«Anzitutto sottolineo l’antropocentrismo esagerato molto radicato nel pensiero occidentale e che va tenuto in considerazione
molto critica. Presuppone una sovranità assoluta sulla natura, il che è pericoloso. L’essere umano riceve la natura in dono… In dono, esattamente. Di fronte a questo atteggiamento di servizio il pensiero calvinista, che pure alimentò l’accumulazione senza limiti di ricchezza, è alternativo al filone francescano che è un pensiero di sobrietà. La parola-chiave è 'sostenibilità'. C’è poi un’altra tematica nel mio studio: attorno alle 'tre bandiere' della rivoluzione illuministica. Abbiamo avuto, innanzitutto, la spinta rivoluzionaria francese nel ’700 per la libertà.
Qualche secolo dopo la
bandera dell’uguaglianza trionfò con le rivoluzioni comuniste, che però arrivarono al fallimento annullando la libertà. Il problema è che la terza bandiera, la fraternità, in verità è sintesi delle due precedenti correnti culturali. Nessuno, fino ad ora, ha fatto una rivoluzione della fraternità».
Nella Caritas in veritate il Papa chiarisce che il limite del liberismo senza negoziazioni va mutato in un altro paradigma… «Certamente. Anch’io ritengo urgente il mutamento di paradigma dell’utilitarismo».
Lei ha toccato un punto nevralgico. Non si può dispiegare un nuovo paradigma economico senza un cardine centrale basato sulla persona umana, sin dal suo concepimento. C’è una sorta di mutilazione, come è ben detto da Benedetto XVI.
«Siamo arrivati a un limite pauroso nella sostenibilità dello sviluppo, è quello che nel mio libro chiamo la tendencia alla famiglia unipersonale.
Alla distruzione della famiglia come luogo di procreazione e di relazioni sociali. In questo siamo mammiferi, non siamo di origine solitaria.
Agendo brutalmente contro l’ecosistema abbiamo cercato una compensazione nell’iperconsumismo, provocando un forte inquinamento dell’atmosfera. È impossibile proseguire così».
Ancora una questione. Oggi, professore, nel continente latino­americano ci sono due tendenze.
La prima, quella «bolivariana» più movimentista e populista; la seconda più pragmatica, solidaristica. Come colloca il suo progetto?
«Nel mio discorso la dinamica globale è un punto fermo. Vedo una 'Patria Grande' latino-americana, sintesi delle due tendenze, senza esclusioni. Non vedrei male in questo senso un Parlamento latino­americano, sostenuto da diversi gradi di sussidiarietà e partecipazione democratica».
Fraternità e sussidiarietà. Vedremo il professor Firmenich in Vaticano dal Papa?
«Se vengo invitato, incantatissimo!».
«Eravamo cristiani figli del Concilio, ma la morte di padre Camilo Torres ci 'obbligò' a pensare anche all’uso della violenza.
So del peso di queste parole. So degli errori, delle tragedie commesse. Eravamo coscienti di iniziare un percorso terribile, potevamo essere uccisi prima di vedere una nuova società; ma quella scelta la concepimmo come testimonianza mistica non come opzione di puro potere»




DUE IMMAGINI DI MARIO EDUARDO FIRMENICH: IERI, QUANDO ERA LEADER DEI «MONTONEROS» ARGENTINI, E OGGI






Da sinistra: una commemorazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador assassinato sull’altare trent’anni fa; il gesuita argentino Carlos Mujica, ucciso nel 1974. Sotto: padre Camilo Torres, sacerdote guerrigliero colombiano ucciso in battaglia nel ’66






© Copyright Avvenire 21 marzo 2010

Bolivia: si diffonde la coltivazione della coca

- Le Figaro - Traduzione Hurricane 53

Il presidente Morales incoraggia la produzione dell' “erba sacra”

Morales: alla guida di uno dei più importanti sindacati

di cocalero (produttori di coca) del paese

Sono saliti da un piccolo sentiero fangoso che attraversa la lussureggiante vegetazione delle Yungas boliviane, portando grandi borse bianche piene di foglie di coca raccolte la vigilia. Giunti alla piattaforma per l'essiccazione, nel mezzo di un campo di coca, imitando i gesti dei seminatori, spargono le foglie sul suolo di pietra affinché il sole estragga la naturale umidità. L'atmosfera è serena, il sole appena si è appena levato. Nelle vallli circostanti la nebbia inizia a dissolversi. Siamo nella comunità di Tocana, che appartiene ad una delle principali regioni boliviane di produzione delle foglie di coca. “Facciamo quattro raccolti l'anno, spieghiamo Pablo. Le piantagioni producono per quindici, vent'anni. Poi, dobbiamo cambiare zona perché la terra non rende più nulla”.
In questa regione a Nord-est di La Paz, dove la foresta amazzonica sembra voler aggredire i ripidi contrafforti dell'Altiplano, la produzione della coca è una vecchia tradizione. Ma in questi ultimi anni le superfici per la coltivazione sono aumentate considerevolmente. Secondo una relazione dell'ONU, nel 2008 sono aumentate del 6% fino a raggiungere i 30.500 ettari. La legislazione boliviana ne autorizza 12.000 ettari per rispondere al tradizionale consumo (la masticazione per lottare contro gli effetti dell'altitudine, tisane e doni a Pachamama). Dunque 18.000 ettari sarebbero fuori legge da quando, agli inizi degli anni 2000, i campi di coca coprivano soltanto 14.000 ettari.
“L'ONU sottovaluta la realtà, critica uno specialista boliviano nella produzione di coca che preferisce mantenere l'anonimato. Tutti i dati, raccolti sul posto, mostrano che la produzione clandestina guadagna terreno. Prima, le superfici si estendevano nel Chapare. Ora le produzioni illegali si sviluppano nello Yungas. In queste nuove zone di produzione, le mafie sono molto attive e proibiscono l'accesso ai ricercatori, si che si tratti di giornalisti o di organismi internazionali”.
L'azione repressiva condotta in Colombia contro la coca sembra infatti aver indirizzato i gruppi mafiosi verso la Bolivia. “L'interesse delle mafie messicane e colombiane per la Bolivia è che si tratta di è un territorio quasi vergine, spiega Alain Labrousse dell'Istituto delle Americhe. Installarvisi risulta quindi molto più facile”.
Una dimensione culturale
Molti attribuiscono lo sviluppo delle foglie di coca al sostegno dimostrato dal presidente boliviano. Egli stesso alla guida di uno dei più importanti sindacati di cocalero (produttori di coca), senza tregua Evo Morales promuove la cultura “dell'erba sacra” degli indiani dell'Altiplano, sostenendone la dimensione culturale e legata alla tradizione. “Qui la foglia di coca viene coltivata da oltre cinque mille anni - ha spiegato alla tribuna delle Nazioni Unite nel marzo 2009, prima di masticare una foglia - Se si tratta di una droga, allora arrestatemi!” Evo Morales è stato rieletto alla guida della Bolivia.
L' importanza della foglia di coca nell’antica cultura degli Aymaras e dei Quechua è rimessa in discussione da alcuni storici, che ricordano che il consumo della foglia di coca prima della colonizzazione era spesso riservato ad usi religiosi. Il consumo ne è diventato comune tra la popolazione quando la colonizzazione spagnola si rese conto che favoriva il rendimento dei lavoratori nelle miniere d'argento di Potosi.
Al mercato di Villa Fatima a La Paz, ogni giorno, i camoin fanno la fila per scaricare tonnellate di foglie di coca. Dei 4×4 nuovi fiammanti ripartono con enormi quantità di foglie. Secondo alcuni osservatori, le consegneranno nei rioni popolari di El alto, dove dei laboratori clandestini trasformano le foglie in pasta base che verrà esportata in Brasile per produrre cocaina. Brasilia ha già dato l'allarme sulla recrudescenza dei movimenti di droga alla frontiera fra i due paesi.
Le Figaro ha potuto procurarsi una relazione non ancora pubblicata, redatta dall'Adepcoca (Associazione dei produttori di coca) che denuncia le disfunzioni nella regolamentazione del commercio delle foglie di coca, in cui acquisto e vendita sono strettamente regolamentati. Mostra che 30 al 40% delle foglie raccolte ufficialmente sono deviati. “Il potere boliviano lotta contro il traffico di cocaina, smorza i toni Alain Labrousse. Nel 2008 e 2009 i controlli in Bolivia sono aumentati, nonostante la DEA (l'amministrazione americana di lotta contro il traffico di droga) se ne sia andata. I grandi problemi che il Brasile lamenta a causa del traffico di cocaina sul suo territorio non sono dovuti alla Bolivia„ ma ai gruppi di delinquenti brasiliani.
Patrick Bèle Le Figaro Traduzione Hurricane 53

Il primo "matrimonio" omosessuale in Sud America

PÚBLICO.ES/EFE - BUENOS AIRES - 28/12/2009 22:35

Finalmente e dietro molte liti, si è prodursi la prima unione tra persone dello stesso sesso in America latina. Concretamente nella località di Ushuaia, all'estremo meridionale dell'Argentina. I felici sposi sono José María diedi Bello ed Alex Freyre, entrambi gli argentini, chi si mostrarono "molto felici ed orgogliosi." Il compagno aveva previsto di sposarsi a Buenos Aires il giorno 1 di dicembre passato, coincidendo col Giorno Internazionale della Lotta contro l'AIDS, malattia che ambedue soffrono, ma una risoluzione giudiziale contraria fece che il Registro Civile della capitale argentina ostacolasse il suo matrimonio. Ma grazie al governo della provincia di Terra del Fuoco l'unione è stata possibile. "Sapevamo che la statista è una persona che simpatizza con questa causa e gli siamo sommamente grati", disse diedi Bello in gratitudine alla statista Fabiana Ríos, addetta di autorizzare il matrimonio. Ora quello che la compagno attesa è che non ci siano nuove obiezioni "giudiziali" e che sia un primo passo nel riconoscimento dei diritti dei compagni omosessuali in America latina. Attualmente, unicamente i compagni dello stesso sesso potevano ottenere l'unione civile in quattro città dell'Argentina.

La Legge di Unione Civile della città di Buenos Aires, promossa alla fine di 2002, suppose il primo antecedente nel paese ed il primo riconoscimento dei compagni omosessuali in America latina.

A dispetto di questo, gli omosessuali argentini reclamano il diritto a sposarsi poiché, nella sua opinione, l'unione civile è non una figura giuridica equiparabile al matrimonio.

I vecchi scaricati come rifiuti umani per le strade di Asunción

Perfino loro possono cambiare quando trovano un abbraccio vero

Asilo de Dios, il dvd di padre Aldo Trento in edicola con Tempi da giovedì 17 dicembre

di Aldo Trento

Non esiste condizione umana o inumana che resista alla verità di un’esperienza carica della coscienza che l’uomo è relazione con l’Infinito, e che alla luce di questa consapevolezza non possa cambiare e trasformarsi in positività e gioia di vivere. Le casette San Joaquín y Santa Ana della parrocchia San Rafael di Asunción accolgono i “rifiuti umani” che la polizia raccoglie come spazzatura nelle piazze e nelle strade e porta nei nostri spazi, dove alcuni uomini innamorati di Cristo con la loro presenza colma di tenerezza se ne prendono cura. Certi di una verità che i cosiddetti “esperti” non considerano neppure come ipotesi: che anche per loro può esistere una vita differente… persino felice.
padretrento@rieder.net.py

Nell’ultima riflessione che abbiamo fatto con il personale del Hogar San Joaquín y Santa Ana, mi è venuta questa domanda: a che modello ti rivolgi per trovare il tuo Io? In cosa consiste il tuo percorso nel cammino della conoscenza, che ci porta a vivere una familiarità con il Mistero? Dopo un attimo di silenzio mi sono venuti in mente i volti di ognuno dei nonnini e delle nonnine che stanno da noi. Così ho guardato quello che c’è attorno a me ogni giorno: Chinchín, un’anziana di 88 anni, ex maestra, con la sua immensa tenerezza e allegria. Ho visto come accoglie a “casa sua” tutte le donne che arrivano, come le pettina, come aiuta a dare la colazione a Tomasa, una donna psicopatica costretta a letto, con quale tenerezza si preoccupa di loro, domandando continuamente per via dell’Alzheimer quando si mangia, e chi paga. Ricordo quando è arrivata Patrocinia, abbandonata da parenti alto-borghesi che sulla porta le avevano promesso che sarebbero venuti a visitarla spesso. E non si sono mai fatti vivi. Patrocinia aveva paura, era un totale cambio di vita per lei. In più proveniva dall’entroterra, dove non aveva mai visto un bagno né un gabinetto. Penso alla pazienza con cui tutto il personale le ha insegnato cos’è un bagno, come si usa, visto che lei si alzava il vestito e urinava e defecava in qualsiasi angolo della camera. È stato un lavoro da formica, di pazienza e soprattutto di amore. Era terrorizzata, e Chinchín le diceva: «Qui non ti accadrà nulla, nessuno può entrare, io chiudo la porta a chiave, e se no chiamo la Polizia». L’ha invitata a dormire nel suo letto per una settimana, finché Patrocinia non si è abitutata a dormire da sola, però sempre in casa di Chinchín.

Io stavo lì a osservare, partecipando al timore di lei che passava ore leggendo in camera sua, sola e coi suoi ricordi. Quando c’è una festa e le portiamo, loro camminano tenendosi per mano, stando attente a non cadere e ammirando ogni cosa: i fiori, le piante, l’immensa tettoia, sempre come fosse la prima volta. La stessa cosa è accaduta con Margarita: mandata dalla procura dopo i maltrattamenti subiti dal figlio tossicodipendente, è arrivata al Santa Ana totalmente alterata e drogata: non c’era calmante che la tranquillizzasse e le notti erano senza fine, per lei e anche per le infermiere e le nonnine del Hogar che teneva sveglie per molte ore filate. Una volta si è anche accapigliata con una di loro, gettandosi poi sul letto. Oggi è una donna dolce, riconoscente ogni volta che mi siedo un minuto a conversare con lei, e dice sempre: «Va tutto bene, mi sento bene, non voglio alzarmi perché sono in vacanza». Sarita, la gattina, come la chiamo io, perché una volta mi aveva raccontato che si era mangiata un gatto arrosto e tutte noi ci eravamo messe a ridere con lei, sempre tranquilla e desiderosa di salutare perché se le do un bacio lei mi chiama signorina. Marina, costretta a letto, quando le facciamo una carezza sulla testa smette di gemere. E abbiamo scoperto che accendendole la radio si rallegra, batte le mani e si tranquillizza. È la preferita dell’infermiera Petrona.
Coi maschi di San Joaquín capita qualcosa di simile, sono arrivati in condizioni di totale abbandono, senza conoscere l’igiene. Carlos, il responsabile, ha insegnato loro a non “defecare in qualsiasi parte della casa”, a non sputare, a tirare la catena del gabinetto, a lavare le mani tutte le volte che si va in bagno, a usare l’asciugamano. Mettere il pigiama è stata un’impresa, perché volevano dormire vestiti. Idem per la doccia giornaliera, la barba e il rispetto degli orari dei pasti. Tanto che, quando è arrivato Juan Cancio dall’entroterra, conciato come lo erano loro fino a poco tempo prima, a un certo punto si sono arrabbiati perché «non imparava» e «dava molto lavoro a Don Carlos», finché un giorno il più anziano, Trinidad, lo ha preso a pugni, e abbiamo dovuto separarli a forza. L’ultimo arrivo ce l’ha portato la polizia, un poveretto pieno di urina dalla testa ai piedi, sporco, senza scarpe, che viveva nella piazza di fronte a Mariscal López Shopping, sembrava avesse 150 anni. Quando Carlos gli ha fatto il bagno, gli ha fatto la barba e tagliato i capelli, non ci potevamo credere: aveva cent’anni di meno… È così importante, sia per me che per loro, salutarli con un bacio sulla testa e domandare: «Come stanno i miei ragazzi?», e ci riempiamo di allegria quando ci dicono: «Bien mi patroncita de oro».
Il sorriso nasce dal ricevere un abbraccio, dal fatto che qualcuno ci ha sorriso per primo. Ecco cosa mi hanno insegnato queste persone la cui vita è cambiata perché sono stati accolti con l’abbraccio di Cristo in ognuno di quelli che stanno accanto a loro tutti i giorni. Serbo tutte queste cose dentro di me: quale migliore modello potrei avere se non questa allegria, questa tenerezza? Quanto è importante sentire che qualcuno ti accoglie con affetto, per potermi sentire abbracciata.


Marisa Becerra


Sono il responsabile della casa per anziani San Joaquín. Cercando di rispondere alla domanda: “Qual è l’ideale con cui confrontare tutto?”, ho sempre pensato di dover guardare ai santi, per basare su di essi la costruzione del mio Io. Dopo aver riflettuto sul testo che abbiamo letto assieme, mi sono reso conto che l’ideale cui devo riferirmi sono tutti i miei amati vecchietti. Ricordando in quale stato sono giunti al San Joaquín, in condizioni di abbandono assoluto, privi di ciò che di più elementare l’essere desidera: rispetto, affetto, attenzione, calore umano. Così mi sono venuti in mente Don Hipólito, Don Trinidad, Don Coco, Pedrito, Don José, Don Heriberto, Don Juan Cancio, e l’ultimo, Luis, oltre a quelli che sono stati chiamati dal Signore. Accompagnarli nell’apprendimento dei gesti più quotidiani, come radersi e lavarsi i denti, insegnare loro l’uso del gabinetto, della doccia, del sapone, dell’asciugamano, delle ciabatte e del pigiama: questo rappresenta per me il cammino per incontrare il mio Io.
Grande è stata la sorpresa nelle ultime settimane con l’arrivo di Juan Cancio e Luis, che vivevano entrambi abbandonati, Juan Cancio in una baracca con sua sorella e Luis in piazza Infante Rivarola, dove un gruppo di giovani ubriachi ha urinato su di lui. I due si sono sorbiti i rimproveri degli altri nonnini, che si sentono già educati. Le lamentele di Don Hipólito perché Luis non sta buono quando in casa si legge. C’è stata persino una rissa tra Don Trinidad e Juan Cancio perché al primo dava fastidio che l’altro non avesse ancora imparato a usare il bagno e facesse le sue necessità dovunque. Mi sono reso conto che in questo percorso faticoso anche loro vanno incontrando il loro Io, grazie all’amore e all’affetto che ricevono. Si sono imbattuti nel Tu, l’incontro che mi permette di dire Io. Nella vita non importa quanti problemi uno abbia passato, si inizia a dire “Io” con gusto quando grazie alla corrispondenza tra il mio Io e il Tu dei nonnini le nostre vite cambiano. Grazie a questa corrispondenza la loro vita inizia a cambiare e io vado incontro al mio Io.


Carlos Andrés Osorio


http://www.tempi.it

Il Cile che corre adesso cambia

L’
acqua che scorre nella fonta­na di
Plaza de la Libertad , da­vanti alla Moneda, trasmette ai passanti un senso di serenità. Tren­tasei anni fa erano ben altri i rumori su questa piazza, mentre i caccia sfrec­ciavano sopra il palazzo in cui era as­serragliato il presidente Salvador Al­lende. Oggi è di nuovo tempo di ele­zioni in Cile. Per la quinta volta, in 20 anni da quel mitico 1989 che non vide crollare solo il Muro berlinese, ma an­che finire dopo 16 anni la dittatura del generale Pinochet. Vent’anni che han­no visto questa lunga striscia di terra che va dai Tropici fin quasi all’Antarti­de fare grandi passi sulla via della de­mocrazia e della stabilità economica. Domenica prossima, il 13, i cileni an­dranno alle urne per scegliere il suc­cessore della presidenta uscente Mi­chelle Bachelet. Quasi di sicuro si an­drà al ballottaggio, il 17 gennaio. Con un paradosso, dovuto alla frammen­tazione del centro-sinistra (vi ricor­da qualcosa?): che vincerebbe a ma­ni basse con la Bachelet, accreditata di una popolarità attorno al 70%, se non ci fosse la Costituzione a vietar­le il secondo mandato consecutivo (e non è un caso che il Cile sia l’unico stato latino-americano in cui il pre­sidente non ha tentato di aggirare questo vincolo); presentandosi inve­ce con due candidati – Eduardo Frei Ruiz- Tagle e Marco Enriquez- Omi­nami –, si avvia a un autogol e a una probabile sconfitta.
A vincere potrebbe essere quello che diversi opinionisti presentano come «un fratello in salsa cilena di Silvio Ber­lusconi »: Sebastiàn Piñera, candidato della destra di
Coalicion por el cam­bio .
Anche se, a differenza del nostro premier, presenta la 'macchia' di a­ver perso le prime elezioni, 4 anni fa contro la Bachelet, in effetti le asso­nanze sono diverse: indicato dalla ri­vista
Forbes
al posto 701 fra gli uomi­ni più ricchi del Pianeta, è proprieta­rio del canale tv Chilevision, della com­pagnia aerea Lan, della squadra di cal­cio del Colo-Colo e ha svariati business
nella finanza, con conseguenti conte­stazioni di conflitti d’interesse (fra l’al­tro
ha tenuto nascoste azioni detenu­te della Fasa, compagnia delle farma­cie). Un uomo ricco, tanto ricco alla presidenza, insomma, quasi a rispec­chiare l’immagine di un Paese che ha rafforzato il proprio benessere.
Molto è dovuto a una ricchezza tro­vata in casa, senza troppa fatica: il Ci­le è il primo produttore mondiale di rame e ha ricavato enormi introiti dal­la crescita del suo prezzo che ha so­stenuto le esportazioni. Idem per il li­tio,
di cui il Cile detiene la quasi tota­lità delle riserve mondiali assieme a Bolivia e Argentina. Una dote che i va­ri governi cileni sono stati abili però a non dissipare, tanto da avere un de­bito pubblico ridotto appena all’11% del Pil. Un patrimonio che è stato con­vertito in investimenti sul futuro: il numero di scuole è cresciuto, la sa­nità è stata rafforzata. La maggioranza uscente di Concerta­cion por la Democracia non è però riu­scita a capitalizzare que­sta base, convertendola in un candidato unitario. Una debolezza che affon­da le sue radici nella pe­culiarità che fece nasce­re la Concertacion: alla caduta di Pinochet i 4 partiti di opposizione (cristiano-democratici, socialisti 'classici', so­cialisti del Ppd e radicali), temendo di non farcela contro Buchi, il candida­to prescelto dal generale non più in carica, si coa­lizzarono alle prime elezioni (che vin­sero con il dc Aylwin). A distanza di vent’anni, quella politi­ca innovatrice ha esaurito la propria spinta e pare implosa fra le varie ani­me interne. Così, dopo i 4 anni della socialista Bachelet, i partiti hanno in­dicato per le primarie interne il de­mocristiano Eduardo Frei, ingegnere di 67 anni che tenta un clamoroso bis: politico di solida formazione, è stato già presidente dal 1994 al 2000 con la più alta percentuale di voti nella sto­ria cilena (il 63,4%), superiore persino alla presidenza di suo padre (è il quar­to di 7 figli), a sua volta uscito vincito­re nel 1964 dal duello con Allende e del quale un giudice ha appena qua­lificato come «omicidio» per avvele­namento la sua morte avvenuta nell’82, in era Pinochet. Davanti alla cattedrale di Santiago, i suoi sosteni­tori distribuiscono calendari 2010 e volantini che lo ritraggono sotto lo slo­gan
Vamos a vivir mejor ,
non esatte­mente plaudente dei risultati prodot­ti dalla coalizione che lo ha lanciato. Anche per questo alcune forze di si­nistra, non condividendo le modalità di designazione di Frei, si sono riuni­te attorno a Enriquez-Ominami, che a sua volta tentò di presentarsi alle pri­marie della Concertacion. Respinto perché non appoggiato ufficialmente da nessuno dei 4 partiti, ha deciso al­lora di candidarsi alla presidenza alla testa del movimento Nueva majoria.
La storia di questo candidato ribelle è interessante, a par­tire dall’età (36 anni, è nato proprio nel ’73 e aveva 3 mesi al­l’epoca del golpe) e dal doppio cogno­me che sconta i suoi 2 padri: quello natu­rale, Miguel Enri­quez, era un leader del Mir (
Movimien­to de Izquierda Re­volucionaria )
che fu ucciso in combatti­mento dal regime nell’ottobre ’74. A quell’epoca Marco con la madre gior­nalista era già in esilio a Parigi, dove fu adottato poi da Carlos Ominami, se­natore socialista che ora è suo consi­gliere. Ovvio che tutta la 'vecchia guar­dia' post-rivoluzionaria simpatizzi per lui. Con un passato nel settore tv e vi­deo (ha anche sposato una conduttri­ce), forte nei sondaggi fra gli scolariz­zati, meno nei ceti popolari, ha con­quistato consensi cavalcando temi ca­ri alla sinistra, ma al tempo stesso ha infranto alcuni dei suoi tabù: nella so­cietà statale del rame, per fare un e­sempio, sarebbe disposto a far entra­re una piccola componente privata.
Quel che conta, tuttavia, è che non tut­ti gli elettori di Frei o di Ominami sa­rebbero disposti a votare al ballottag­gio per l’altro candidato. Così, il Cile si avvia verso la fine di un ciclo. E pro­mette di virare politicamente, se­gnando un’inversione di rotta rispet­to al resto del Continente. Probabile alternanza, dopo vent’anni: comun­que un trionfo della democrazia.

In controtendenza con il resto dell’America Latina il probabile avvicendamento alla Moneda, in una democrazia consolidata ormai da vent’anni.

Avvenire 9 dic. 2009

Sudamerica ancor più rosso con la rielezione di Morales

di Manila Alfano
Tratto da Il Giornale dell'8 dicembre 2009

Anche questa volta sono scesi dalle montagne, sono arrivati a piedi, i più fortunati con le corriere. Sventolano la bandiera della pace e gridano «Evo! Ancora Evo!».

Sopra, dal balcone presidenziale si affaccia Morales. È incontenibile. I risultati delle elezioni sono andati meglio delle sue stesse aspettative. In Bolivia il 62 per cento della popolazione sono indios. Evo stravince: prende quasi il 63% dei voti. Con il controllo della Camera bassa del Parlamento e una maggioranza di due terzi al Senato non ci sono più ostacoli per lui. Per la seconda volta il suo popolo lo ha riconfermato. Il suo populismo ha fatto centro, le pensioni agli anziani, gli aiuti ai poveri, ai disoccupati, alle madri sole, hanno colpito nel segno. Evo, il presidente dei poveri, delle minoranze, esulta: «Il popolo boliviano ha di nuovo fatto la storia». Evo è incontenibile. Gli indios sono con lui. Compatti, uniti. E la Bolivia sembra capovolta. La vecchia classe dirigente adesso ha paura. Il Mas, Movimento del socialismo di Morales non ha più rivali. Dall’altra parte un’opposizione divisa, il conservatore Manfred Reyes, già processato per corruzione ha raggranellato il 25 per cento. A essere chiamati alle urne sono stati più di 5 milioni di boliviani per scegliere non solo il presidente e il suo vice, ma anche i 166 componenti dell'Assemblea plurinazionale, il nuovo Parlamento frutto della Costituzione promossa da Morales a gennaio e approvata con un referendum. Morales aveva chiesto un secondo mandato (fino al 2015) per continuare la «rifondazione socialista» del Paese, molto ricco di risorse naturali, ma tra i più poveri dell'America Latina per reddito. E ora è a un passo dal cadere in tentazione. Sogna già il terzo mandato dopo il 2014. Un’idea già accarezzata dai suoi colleghi in Nicaragua, Colombia, Venezuela ed Ecuador. Ma cosa è cambiato in fondo da quando il presidente degli indios è salito al potere? La nazionalizzazione degli idrocarburi del 2006 e l’aumento delle tasse sul petrolio in piena crisi energetica ha garantito al Paese una montagna di liquidità. La base per realizzare la rivoluzione in nome del popolo indio. Eppure dietro a questa immagine c’è dell’altro. In quattro anni di mandato non sono mancati scandali e processi per corruzione. La produzione degli idrocarburi è calata drasticamente; troppi gli investimenti sbagliati. Scarseggiano posti di lavoro, dal 2007 mancano le stime ufficiali sulla disoccupazione. E così il futuro della Bolivia minaccia di essere un fuoco di paglia. Il denaro ricavato dalle nazionalizzazioni non è stato investito in un piano a lungo termine per il Paese. Ma non solo. La causa populista e l’alleanza fraterna con Chavez sono costate alla Bolivia oltre 150 milioni di dollari. Washington ha infatti smesso di inviare soldi per aiutare il paese andino nella lotta al narcotraffico. Evo deve scegliere da che parte stare