di Chiara Rizzo
Volontari aggrediti, agenti fatti ruzzolare giù dalle scale, droga. Le contraddizioni del Beccaria
Alcuni volontari aggrediti. Un seminarista preso a pugni. Un agente di polizia penitenziaria fatto ruzzolare giù dalle scale. Tre episodi in meno di un mese, tutti accaduti all’istituto penitenziario minorile Beccaria di Milano. Per fortuna non ci sono stati feriti. Sono solo i miasmi di un’adolescenza perduta che oltrepassano le mura del carcere, e vengono raccontati all’esterno. Chi parla, chiede di rimanere anonimo. Eppure, i fatti denunciati si ammucchiano l’uno sull’altro, fino a raccontare di «un’amministrazione che da tempo fa acqua da tutte le parti», come arriva ad affermare una delle sigle sindacali degli agenti di polizia penitenziaria presente nel carcere. Lo raccontano anche i dati rilasciati dal Dipartimento della Giustizia minorile. Nel 2009, 32 ragazzi sono tornati in carcere: il Beccaria è il secondo carcere d’Italia con più “rientri”, preceduto solo da Napoli. La situazione si è acuita da quando la presenza di italiani è raddoppiata, nella scorsa primavera (85 quelli transitati dal minorile nel 2009, di cui 74 nel maschile), raggiungendo il 48 per cento delle presenze. Ragazzi che provengono da quartieri di Milano storicamente borderline. Quarto Oggiaro, Corvetto, Comasina, Baggio, Gratosoglio: ognuno qui ha la sua rappresentanza. Arrestati soprattutto per rapina e spaccio, gli italiani, di solito tra i 17 e i 20 anni, in carcere ridanno vita alle dinamiche apprese sulla strada, in una gara costante a chi riesce a dominare il branco.
La conseguenza è stata il caos al Beccaria. A maggio un ragazzo ha tentato di evadere, c’era quasi riuscito quando è stato bloccato. Nuovo tentativo di evasione (stavolta i protagonisti sono stati tre), lo scorso novembre: il gruppetto era riuscito a rubare le chiavi ad una delle guardie. Il culmine a fine dicembre 2009, quando è stata scoperta droga in carcere, consegnata ai ragazzi direttamente dai genitori, durante i colloqui settimanali. Il Corriere della Sera ha raccontato anche di marijuana o cocaina in piccolissime dosi, in sacchetti che venivano tirati dall’esterno oltre il muro di cinta del penitenziario, da altri coetanei, i vecchi “compari” del quartiere. Ne è seguito un giro di vite nei controlli. Lo conferma anche don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, che sottolinea: «La droga in carcere gira, si sa. Ma ogni mattina ci sono le ronde degli agenti, attorno al muro, proprio per controllare e fare in modo che episodi del genere non accadano».
Più degli stupefacenti eccita il branco, racconta uno dei volontari vittime dell’aggressione avvenuta all’inizio di marzo. Racconta che insieme a degli amici entra in carcere ogni due settimane: «Chiacchieriamo con i ragazzi, offriamo la nostra amicizia. È un modo per dare a questi ragazzi un’alternativa. Un rapporto gratuito, ben diverso a quelli a cui sono abituati». Negli ultimi mesi, però, un crescendo di difficoltà. «Preso singolarmente, ogni ragazzo alla fine inizia un rapporto. Con alcuni, a dire il vero soprattutto gli extracomunitari, sono nate delle amicizie autentiche. Ci raccontano come stanno, ci chiedono di ritornare a trovarli. Ma con gli italiani è diverso. Sono impenetrabili. Girano in gruppo, e in branco si sentono come dei», racconta il volontario. Un delirio di onnipotenza, quello delle gang del Beccaria: «I “capetti” soprattutto, vogliono dimostrare che sono loro i più forti. All’inizio ci prendevano da parte, per chiedere se avevamo del “fumo”, l’hashish. Quando dicevamo di no, iniziavano gli spintoni, poi “le vecchiette”, i pugni sulle braccia».
All’inizio quasi per scherzo. Poi, lo scorso mese, la situazione è degenerata. Alcuni volontari vengono chiamati in disparte, come al solito. All’inizio li prendono in giro, i ragazzi cercano di stare allo scherzo. Poi volano i pugni. In quegli stessi giorni, anche uno dei seminaristi che entra in carcere come volontario, viene preso a pugni: che aveva fatto? Niente: aggressione gratuita. Nemmeno una settimana dopo l’aggressione, iniziata sempre sotto le mentite spoglie dello scherzo, avviene ai danni di una guardia carceraria, che viene spinta da una scalinata. A Tempi risulta che gli aggressori siano stati allontanati dalla direzione. La direttrice del penitenziario, Daniela Giustiniani (in carica dallo scorso 11 gennaio) ribatte: «L’agente è caduto accidentalmente, mentre cercava di fermare un ragazzo aggressivo».
Estranei ai rapporti umani
Ma cosa succede al Beccaria? Da dove nasce l’aggressività? Secondo la direttrice Giustiniani «non risulta alcun aumento della violenza. Sono qui da poco, ma le cose stanno funzionando. Siamo comunque in un istituto penitenziario, e in condizione di sovraffollamento». Il volontario invece racconta che «i ragazzi del Beccaria non sono abituati ai rapporti umani. Quello che manca a questi ragazzi è un modello educativo. È come se a loro stonasse l’idea che qualcuno possa essere amico senza un tornaconto. Non sono abituati. Ma, anziché interrogarsi sul perché di questa gratuità, reagiscono provocando». Nel carcere non mancano le attività educative proposte ai ragazzi. Anzi, l’offerta è ampia, con corsi di pasticceria, gelateria, meccanica, falegnameria. Numerose attività sportive: calcio, pallavolo, rugby.
Eppure qualcosa non torna. «Ho seguito un centinaio di ragazzi negli ultimi anni» racconta uno degli educatori: «Quelli che ho adesso, hanno circa 18 anni. Ma ragionano come bambini: gli dai gli attrezzi di lavoro, e loro si divertono a sbatterli sul tavolo, semplicemente per il gusto di far casino. Discussioni e insulti sono la routine. Iniziano scherzando, poi la situazione degenera. Non so più quante volte ho dovuto fermarli, mentre salivano sui tavoli e si lanciavano le sedie». L’educatore è giovane, questo lo facilita ad entrare in rapporto con gli alunni: «E alcuni di loro iniziano a darsi da fare sul serio. Vogliono imparare. C’è sempre quello che risponde “Non ho voglia”, e tira gli attrezzi per terra. Ma adesso accade anche che casi così vengano un po’ “isolati”: gli altri ti prendono in giro, se non fai niente». Ma le tensioni alimentano solo altre contraddizioni. «L’altro giorno, alla fine delle attività, c’è stata l’ennesima rissa. Il motivo? Futilissimo. Un ragazzo si era attardato un minuto appena ad uscire dall’aula, e i suoi compagni di cella gli sono andati addosso irritati, perché per loro l’attesa era stata fin troppo lunga», prosegue l’educatore.
Una rapina col taglierino
Spiega che, d’altra parte, i ragazzi che ha conosciuto sono cresciuti nella banalità del nulla. «Parlavo con uno di loro. “Che farai dopo che uscirai di qui? Un lavoro ce lo avevi fuori?”. E lui mi ha risposto, come niente fosse: “Certo, chiedevo il pizzo. Come mio padre”. Un altro, quando mi ha raccontato com’è stato arrestato, mi ha lasciato di stucco. Una mattina era in macchina con degli amici, si erano persi. Si ritrovarono davanti ad una banca. E per passare il tempo hanno fatto una rapina, armati solo di un taglierino. Di tutte le persone che ho seguito, sono certo che solo uno, uscito di qui, ha iniziato un lavoro onesto con il padre. Per il resto, il mio compito è dare, dare, dare. Poi, se torna indietro qualcosa, è un miracolo».
A fronte dell’offerta di attività e servizi che vorrebbero indicare un’alternativa alla strada, i dati raccontano una realtà sconsolante. È significativo, ad esempio, che dei 32 ragazzi rientrati al Beccaria nel 2009 per recidiva, ben 26 provenissero da comunità esterne, dove avrebbero dovuto scontare una misura alternativa. E le cronache giornalistiche gettano ancora di più nello sconforto. Nel 2008 un transessuale fu stuprato e massacrato, ai bordi della tangenziale Ovest di Milano. Un’atrocità tale da far commentare all’allora capo della squadra mobile meneghina, Francesco Messina: «Uno dei delitti più efferati in vent’anni di professione. Peggio di Arancia meccanica». I colpevoli, arrestati da Messina, avevano aggredito il trans per noia, mentre erano strafatti di cocaina. Dopo il massacro, avevano rubato alla vittima 60 euro, per comprare alcolici. Erano due ragazzi, di 20 e 17 anni. Il minore, che era già stato in carcere per spaccio e furto, all’epoca era ospite della comunità di don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria. Don Rigoldi non aveva colpa, indubbiamente. Ma l’episodio riflette la crisi di un sistema che dovrebbe essere riabilitativo, e invece, drammaticamente, non lo è. Sui dati preoccupanti della recidiva, la direttrice Daniela Giustiniani, risponde: «Siamo il secondo penitenziario in Italia per rientri? Non ho ancora visto i dati del ministero».
Cosa manca ai ragazzi perduti del penitenziario? «Manca un’attenzione reale ai giovani», spiega don Rigoldi. «Per combattere il disagio, servono educatori. Penso ai ragazzi degli oratori. La Chiesa ha sempre avuto queste strutture tradizionalmente educative e affascinanti. Sì, è vero, al Beccaria ci sono stati episodi di aggressione, recentemente. E noi stiamo lavorando perché capiscano dove hanno sbagliato. Ma resta una grossa carenza, il dopo. Per aiutarli, sto costruendo un centro diurno, con poli di formazione e la possibilità di assunzione».
Qualcuno da imitare
C’è però chi non la pensa così. «Quello che accade è il fallimento delle attività trattamentali, degli educatori», sostiene un agente della polizia penitenziaria, che denuncia anche il problema del sovraffolamento e la carenza di organico degli agenti: «74 ragazzi, 52 agenti. Ne servirebbero 120. Le aggressioni sono all’ordine del giorno, ormai non stupiscono nemmeno. Perché? Si è puntato tutto sulla risocializzazione e non si applicano i regolamenti in modo ferreo». Risponde la direttrice: «Smentisco categoricamente aggressioni all’ordine del giorno nei confronti di agenti. E sull’aggressività tra i ragazzi, ribadisco: siamo in un penitenziario, in sovraffollamento. Se polizia penitenziaria ed educatori vogliono denunciare questa situazione lo facciano, ma non cerchino la via delle accuse strumentali».
La soluzione al problema sta in un giro di vite? «Non credo», racconta invece uno degli psicologi che lavora coi ragazzi dell’istituto: «L’ambiente è viziato. Per quanto ci siano sforzi nell’offrire proposte alternative alla strada, il rischio è che manchino modelli positivi. Il cambiamento nei ragazzi passa attraverso un punto positivo, una persona in cui identificarsi, tanto da decidere di cambiare vita. Tra i ragazzi che seguo, in tanti sono dentro per furti da 40 euro, fatti per pagarsi una sera in discoteca. Al Beccaria, ho visto lavorare bene i servizi sociali, meglio che all’esterno, anche perché devono continuamente relazionare ai magistrati. Ma ho visto anche che la recidiva è molto diffusa. Chi esce, torna a casa, in ambienti dove non esiste nient’altro. Ricomincia con la vita di prima. Perché alla fine, dentro, cos’ha fatto? Ha passato ore a giocare a biliardino, scommettendo sigarette».