DI LUCIA CAPUZZI « T raditrici». A testa alta, con gli occhi puntati sul viso degli assalitori, hanno sopportato impassibili, per otto lunghe ore, la sequela di insulti. Alcune decine di donne, vestite di bianco, con un gladiolo in mano, hanno sfidato ancora una volta l’ira del regime castrista. Lo fanno dal marzo 2003 – la primavera negra –, quando l’allora Lider Maximo Fidel Castro, mentre lo sguardo del mondo era fisso sull’Iraq, avviò una 'purga' verso il dissenso. Secondo molti analisti, fu un messaggio indiretto all’amministrazione Bush, per dimostrare che il governo socialista era ancora forte. In 75, tra intellettuali, artisti, giornalisti – dal poeta Raul Rivero all’economista indipendente Oscar Espinoza – furono arrestati e condannati, con processi sommari, a pene durissime, fino a 28 anni di carcere, per spionaggio. Alcuni furono liberati in seguito alle pressioni internazionali. Cinquantatré sono ancora dietro le sbarre. Per loro, si battono le Damas de Blanco. Madri, fidanzate, mogli dei dissidenti incarcerati, ogni domenica, ascoltano la messa insieme nella chiesa di Santa Rita. Poi, marciano per la Quinta Avenida, nel centro dell’Avana, gridando 'Libertad!'. «Non siamo un movimento politico. Siamo donne disperate. Che lottano per la libertà dei loro uomini. Innocenti imprigionati per il solo fatto di avere idee diverse», spiega ad Avvenire Laura Pollan, fondatrice delle Damas. Suo marito Hector Maseda, giornalista, è rinchiuso nel carcere di Aguica, a Matanzas, a 150 chilometri dall’Avana e dalla sua famiglia. Qui sconta una pena a vent’anni. «È come una condanna a morte, ha già sessant’anni», aggiunge Laura. Finora il regime aveva tollerato le marce delle Damas. Da qualche mese, però, le aggressioni al gruppo si sono moltiplicate. Da tre settimane, le donne non riescono a raggiungere la Quinta Avenida. Agenti in borghese le fermano all’uscita dalla messa e intimano loro di tornare indietro. Dato il secco rifiuto, le donne vengono aggredite da gruppi filocastristi. Che le circondano, le insultano, le spingono, le minacciano. Il copione degli 'atti di ripudio', spontanei in teoria ma in pratica ordinati dal governo, non è cambiato in mezzo secolo di Revolucion. A crescere è stata, però, la veemenza del- le manifestazioni. Perfino la stampa ufficiale, che mai prima aveva menzionato le Damas, ha cominciato ad attaccarle. Segno che la 'rivoluzione dei gladioli delle signore bianche' è diventata un problema. Per il castrismo è un momento delicato. Raul, succeduto al fratello malato nel 2006, ha deluso le aspettative di cambiamento. Le poche riforme attuate – diritto dei cubani ad avere un pc, un telefonino, a utilizzare Internet, a entrare negli hotel per stranieri, la concessione di terra incolta ai contadini e la possibilità di barbieri ed estetiste di prendere in affitto il loro locale – hanno un puro carattere 'cosmetico'. Il suo progetto di trasformazione del socialismo tropicale in capitalismo autoritario, sul modello cinese, si è arenato ancor prima di iniziare. Per l’opposizione, dicono fonti vicine al regime, dello stesso Fidel, la cui ombra peserebbe sulle spalle del fratello. Per questo, i blogger più irriverenti hanno definito Raul Castro 'il numero uno e mezzo': un potente ma non troppo per opporsi all’anziano 'comandante'. Una leadership inadeguata ad affrontare la dura recessione economica che flagella il Paese. I negozi sono vuoti, un cittadino su quattro è senza lavoro. Il malcontento popolare è forte. Per questo, più che per una reale coscienza politica, dato che il regime fa di tutto per impedirne la formazione, in tanti ora si avvicinano ai dissidenti. «Lo fanno timidamente, la paura è tanta», spiega Reyna Zapata Tamayo, madre di Orlando, il prigioniero politico che due mesi fa si è lasciato morire di fame per protestare contro le terribili condizioni carcerarie. La donna è controllata a vista dalle forze di sicurezza «Mi hanno perfino vietato di rispondere alle domande dei curiosi sull’autobus. Dicono che devo stare muta. Altrimenti mi fanno scendere. Preferisco camminare che tacere», dice Reyna. Isolare i dissidenti per impedire che il virus della ribellione dilaghi è l’ossessione di Raul. Mentre la repressione cresce, però, la fragile economia cubana si sgretola. Il rischio del tracollo è concreto. A meno di un cambiamento reale. Lo ha riconosciuto lo stesso presidente. Nel discorso alla Gioventù Comunista ha parlato della necessità di una 'grande trasformazione'. Il divario tra parole e fatti a Cuba non è mai stato tanto profondo. Ogni domenica dopo la Messa marciano a L’Avana chiedendo libertà per i loro cari. La parabola discendente di Raul Castro e i morsi della crisi |
Fariñas: offro la mia vita per chiedere più libertà il dissidente
È in sciopero della fame e della sete dal 24 febbraio. «Castro ha trasformato questo Paese in un’azienda personale» « N on ho febbre, la temperatura è tra i 36 e i 36,5 gradi. La pressione è 100 su 60. Il mio medico dice che il decesso potrebbe avvenire nei prossimi venti o trenta giorni». Parla del suo corpo come se non gli appartenesse Guillermo “Coco” Fariñas. Da quando, 65 giorni fa, ha deciso di trasformare il suo organismo in strumento di lotta politica, l’ex psicologo e giornalista critico si sforza di raccontare il suo lento debilitarsi con distacco. Risponde al telefono con voce ferma. Poi, col tono asettico di uno scienziato, comincia a de- scrivere i sintomi che, giorno dopo giorno, stanno consumando quel che resta di lui. Non mangia né beve dal 24 febbraio, quando le forze di sicurezza cubane gli hanno impedito di partecipare al funerale di Orlando Zapata Tamayo, il detenuto politico morto dopo 85 giorni di sciopero della fame. Fariñas ha deciso di «prendere il suo posto», perché quello che definisce un «omicidio di Stato» non sia vano. Zapata chiedeva condizioni più umane per i dissidenti dietro le sbarre. Coco domanda la scarcerazione di 26 prigionieri politici malati. Come l’ingegnere Librado Linares Garcia, quasi cieco, l’intellettuale cattolico Blas Giraldo Reyes o il giornalista Pedro Arguelles Moran. Ha perso 14 chili in due mesi. Ne pesa 67 per oltre 1,80 di statura. Entra ed esce dall’ospedale. Ma non è disposto a fermarsi. Raul Castro ha detto che «non cederà al ricatto«. Se continua, lei morirà. Perché una scelta così estrema? Il regime non me ne lascia altra. Lo sciopero della fame è l’unico mezzo che ho per oppormi al governo brutale e tirannico dei fratelli Castro. Non voglio morire. Ma sono disposto a farlo. In nome di cosa? Della democrazia, del mio Paese, di Orlando Zapata, dei ventisei detenuti in fin di vita che il regime si ostina a tenere dietro le sbarre. Spero che quando non ci sarò più, il governo si decida a lasciarli andare. Del resto, lo stesso ministero dell’Interno ha dichiarato che non sono in condizioni di restare in carcere. Altri due prigionieri, Darsi Ferrer e Franklin Pellegrino, hanno interrotto il digiuno perché ritengono di essere più utili a Cuba da vivi piuttosto che da morti. Lei persevera nella sua strada… Rispetto la loro scelta, ma resto fermo nella mia. I momenti fondativi di una nazione necessitano di martiri. Quando morirò, il professor Felix Bonne prenderà il mio posto, lo ha già dichiarato, come io ho fatto con Zapata. Il regime non potrà ignorarci all’infinito. Ha conosciuto personalmente Orlando Zapata? Sì, era il 1991. Lui lavorava come muratore per la costruzione dell’Hotel Parque Central all’Avana. All’epoca militava nella Gioventù Comunista e faceva parte delle “brigate di risposta rapida” che dovevano impedire gli incontri dei dissidenti. Cioè del mio gruppo, la Unión Liberal, che si riuniva nei paraggi. Così, cominciò a parlare con noi. A comprendere le nostre ragioni. E finì per passare dall’altra parte. Anche lei, come Zapata, è stato nella Gioventù Comunista. Ha perfino combattuto in Angola. Suo padre era agli ordini di Che Guevara in Congo... Ho creduto nel castrismo. E nel socialismo. Credo ancora in uno stato sociale forte. Ma Fidel Castro, e ora Raul, hanno trasformato Cuba in un’azienda personale. Il regime ha dato istruzione, sanità e speranze. In cambio, però, ci ha privato di ogni forma di libertà. Cuba è un’immensa cella di cui solo i Castro hanno la chiave. Io mi sono distanziato dal regime dopo la condanna a morte del generale Ochoa, nel 1989, con la finta accusa di narcotraffico. Ma ho iniziato ad allontanarmi nel 1980, all’epoca dell’esodo del Mariel, quando migliaia di cubani assediarono l’ambasciata peruviana per chiedere asilo e lasciare l’isola. Allora mi sono reso conto di quanti volessero fuggire via. Lei è sposato e ha una figlia di otto anni. Come vive la sua famiglia questa scelta? Mia moglie Clara non è d’accordo, ma resta al mio fianco. Mia figlia Diosangeles non sa niente. Pensa che sia malato. Le ho scritto una lettera di addio, per quando sarà più grande. Le ho spiegato che suo padre l’amava e non avrebbe mai voluto lasciarla. Ma ha dovuto. Per contribuire a darle un futuro di libertà. Quando il mio corpo mi fa troppo male, leggo un passo del Vangelo di Giovanni in cui Gesù dice: «Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici». È questo che ho cercato di spiegare a Diosangeles. Lucia Capuzzi |
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