Me ne sto, silenzio-so, all’ultimo banco di un santuario dedicato alla madre di Gesù; la mente affollata da mille pensieri che diventano in preghiera. Vengo a deporre ai suoi piedi preoccupazioni e speranze e chiederle la luce per illuminare le creature che mette sul mio cammino. Lentamente la chiesa si riempie di persone, per lo più anziane. Le osservo: ognuno sceglie un posto che già conosce, lo occupa con discrezione e familiarità. Si immerge in una preghiera personale, senza il minimo imbarazzo. In questi sacri spazi si sentono a proprio agio, sanno che appartengono a tutti, che il rettore ne è il responsabile, il custode, non il padrone. Una signora viene a sedermi accanto. È molto anziana. Non mi conosce, ma capisce che sono prete, che appartengo a tutti: anche a lei. Mi chiede se posso confessarla. La risposta non può che essere affermativa, ma non è solo del perdono dei peccati che ha bisogno. Cerca, stamattina, qualcuno di cui fidarsi e al quale raccontare la sua lunga vita.
Gli anni giovanili sono, già da molto tempo, tutti alle sue spalle. Si sente trascurata, messa da parte dai figlioli ormai cresciuti, e diventati nonni anch’essi. Il suo è un ricordare lamentoso, un passato che ritorna offuscato e prepotente. Molte delusioni hanno soppiantato le sue giovanili illusioni. Parlo con la nonnina, la ascolto con attenzione. Mi prende le mani stringendole alle sue. Sono gelide, magrissime. Capisco che cerca un po’ di calore umano. Lascio fare e intervengo di rado, sorridendo, rassicurandola. Rimaniamo a parlare per circa un’ora. Alla fine torna a casa rincuorata. Mi ringrazia mille volte augurandomi ogni bene e si allontana ricurva sul bastone. Alzo gli occhi alla Mamma di tutti che troneggia sull’altare; la guardo con complicità, mi sembra che sia contenta della chiacchierata sussurrata in casa sua. Penso a te, Santa Madre Chiesa, alla tua sapienza due volte millenaria e sento di doverti chiedere perdono. Per la mia infedeltà. Per quando, stupidamente, ho creduto di doverti contestare. Quanta ricchezza, quanta grazia ci hai donato nella confessione celebrata cuore a cuore.
Penso al sacramento dell’Ordine. Un dono che non comprenderemo mai del tutto, che non appartiene a noi che lo portiamo inciso nella carne a caratteri di fuoco, ma a tutti. La signora, stamattina, sapeva che il prete le appartiene. Era certa che, almeno una volta nella vita, egli è salito sul monte a contemplare un roveto che da sempre brucia, senza consumarsi mai. Per la strada qualcuno mi rincorre chiamandomi per nome. Non conosco la giovane donna che mi raggiunge sorridendo. Ci diciamo poche cose, è per lo più lei a parlare. Alla fine s’inchina e bacia la mia mano, che non ritraggo, non avendone il diritto. Poi, con gli occhi luccicanti per una gioia che a tanti non è dato di comprendere, aggiunge: «Grazie, ho incontrato Cristo, stamattina». E va per la sua strada. Umiliato e imbarazzato, con passo lento, anch’io riprendo il mio cammino. I preti: poveri, fragili vasi di creta. Ma dentro l’otre quale mistero, quale incalcolabile tesoro! La nostra pochezza nulla toglie, ma tutto aggiunge alla bellezza di Dio che di noi si fida. Siamo segni della sua invisibile presenza; testimoni di un Amore più grande di ogni amore. Chiamati ad andare sempre oltre. Oltre ogni limite, ogni umana tentazione. Ad abbracciare tutti senza trattenere alcuno. A servire come fece il Maestro nostro, rifiutando di essere serviti. A dare voce a chi non sa parlare. Ad attingere l’acqua fresca alla sorgente per farne dono a chi boccheggia per l’arsura. A gridare dai tetti, anche quando gli altri tacciono e ci impongono di tacere, una verità più forte della morte.
Gli anni giovanili sono, già da molto tempo, tutti alle sue spalle. Si sente trascurata, messa da parte dai figlioli ormai cresciuti, e diventati nonni anch’essi. Il suo è un ricordare lamentoso, un passato che ritorna offuscato e prepotente. Molte delusioni hanno soppiantato le sue giovanili illusioni. Parlo con la nonnina, la ascolto con attenzione. Mi prende le mani stringendole alle sue. Sono gelide, magrissime. Capisco che cerca un po’ di calore umano. Lascio fare e intervengo di rado, sorridendo, rassicurandola. Rimaniamo a parlare per circa un’ora. Alla fine torna a casa rincuorata. Mi ringrazia mille volte augurandomi ogni bene e si allontana ricurva sul bastone. Alzo gli occhi alla Mamma di tutti che troneggia sull’altare; la guardo con complicità, mi sembra che sia contenta della chiacchierata sussurrata in casa sua. Penso a te, Santa Madre Chiesa, alla tua sapienza due volte millenaria e sento di doverti chiedere perdono. Per la mia infedeltà. Per quando, stupidamente, ho creduto di doverti contestare. Quanta ricchezza, quanta grazia ci hai donato nella confessione celebrata cuore a cuore.
Penso al sacramento dell’Ordine. Un dono che non comprenderemo mai del tutto, che non appartiene a noi che lo portiamo inciso nella carne a caratteri di fuoco, ma a tutti. La signora, stamattina, sapeva che il prete le appartiene. Era certa che, almeno una volta nella vita, egli è salito sul monte a contemplare un roveto che da sempre brucia, senza consumarsi mai. Per la strada qualcuno mi rincorre chiamandomi per nome. Non conosco la giovane donna che mi raggiunge sorridendo. Ci diciamo poche cose, è per lo più lei a parlare. Alla fine s’inchina e bacia la mia mano, che non ritraggo, non avendone il diritto. Poi, con gli occhi luccicanti per una gioia che a tanti non è dato di comprendere, aggiunge: «Grazie, ho incontrato Cristo, stamattina». E va per la sua strada. Umiliato e imbarazzato, con passo lento, anch’io riprendo il mio cammino. I preti: poveri, fragili vasi di creta. Ma dentro l’otre quale mistero, quale incalcolabile tesoro! La nostra pochezza nulla toglie, ma tutto aggiunge alla bellezza di Dio che di noi si fida. Siamo segni della sua invisibile presenza; testimoni di un Amore più grande di ogni amore. Chiamati ad andare sempre oltre. Oltre ogni limite, ogni umana tentazione. Ad abbracciare tutti senza trattenere alcuno. A servire come fece il Maestro nostro, rifiutando di essere serviti. A dare voce a chi non sa parlare. Ad attingere l’acqua fresca alla sorgente per farne dono a chi boccheggia per l’arsura. A gridare dai tetti, anche quando gli altri tacciono e ci impongono di tacere, una verità più forte della morte.
Maurizio Patriciello
© Copyright Avvenire 21 aprile 2010
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