Così si potrebbe sintetizzare la sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 15 aprile 2010. La Consulta ha rigettato, in parte dichiarandola inammissibile ed in parte infondata, la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte d’Appello di Trento, di diversi articoli del codice civile nella parte in cui non consentono alle persone omosessuali di contrarre matrimonio (la questione riguardava due persone di sesso maschile che avevano fatto opposizione al provvedimento dell’ufficiale di stato civile che aveva rifiutato di procedere alla pubblicazione del matrimonio dagli stessi richiesta).
La sentenza riafferma un preciso significato al termine matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano. Esso ha dunque un contenuto costituzionale oggettivo e non è subordinato alle mutevoli interpretazioni dei tempi, alle opinioni soggettive ed agli orientamenti sociali desumibili da diverse – seppur minoritarie – forme di convivenza.
E’ un risultato importante, anche se la sola circostanza di aver dovuto ribadire, giuridicamente, la definizione di un dato insito nella stessa natura umana e relazionale (come il fatto di essere mori o di avere gli occhi azzurri, di avere 30 anni invece che 50, di essere maschi o femmine, di essere – appunto – sposati o no), la dice lunga – a mio avviso – sulla attuale crisi di corrispondenza tra segno e significato, tra parola e concetto racchiuso in essa.
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