Il sociologo e antropologo francese Marc Augé
DI LEONARDO SERVADIO
C iò che è globale è la parte 'interna' del sistema mondiale dell’economia e della comunicazione, quel che invece è locale ne costituisce la parte 'esterna'. Di questa specie di rovesciamento della prospettiva del senso comune sarebbe responsabile il Pentagono e ne riferisce, con occhio critico, Marc Augé in un recente volume ( Per una antropologia della mobilità, Jaca Book, pagine 96, euro 12). La stanzialità sarebbe, quindi, una sorta di condizione di marginalità a fronte della nuova centralità del moto continuo: il 'jet set', un tempo piccola élite di 'vip' sarebbe ormai elevato al rango di un sistema mai visto prima nella storia. Siamo di fronte a un nuovo nomadismo? Augé, sociologo di lungo corso che si è fatto le ossa nell’Africa nera prima di balzare sul proscenio mondiale grazie al suo concetto di 'non luogo' (la sua efficace denuncia del radicale cambiamento che il 'mercato globale' sta infliggendo alla città contemporanea), risponde da Parigi: «Il nomadismo originario derivava dalla necessità di spostarsi, di solito su base stagionale, alla ricerca di mezzi di sostentamento. Ora il fenomeno è totalmente diverso: la mobilità geografica è attivata dal turismo o dai flussi degli affari. Non ha un assetto definitivo ed è cangiante; non porta a trasferimenti definitivi... C’è anche il flusso migratorio dai paesi poveri verso quelli ricchi, ma accanto a questo c’è l’influsso delle televisioni, che tendono a offrire paesi lontani come immagini rilucenti servite su un cabaret di facile appetibilità».
Eppure anche nel Medioevo, epoca che si tenderebbe a considerare 'statica', c’era molto movimento: i costruttori di cattedrali si spostavano in tutta Europa, le rotte commerciali erano attive, le vie di pellegrinaggio trafficate...
«Ma vi sono grandi differenze negli atteggiamenti. Certo i costruttori di cattedrali si spostavano molto, come oggi i grandi architetti: ma questi si muovono secondo una tendenza omologante, dagli Stati Uniti alla Cina. E quanto al pellegrinaggio, oggi c’è il fenomeno del turismo, motivato spesso dalla curiosità: le persone hanno già visto in televisione quel che desiderano visitare e si recano sul posto solo per confermarsi nelle aspettative.
Da una parte, il mondo è un’immensa città in cui ovunque lavorano i medesimi architetti e si trovano le stesse imprese commerciali e gli stessi prodotti, dall’altra si ritrovano le stesse contraddizioni e gli stessi conflitti comuni a tutto il pianeta: le conseguenze del crescente divario tra i più ricchi tra i ricchi e i più poveri tra i poveri».
Crescenti divergenze da un lato, appiattimento culturale dall’altro...
«Accanto alla globalizzazione va formandosi un nuovo tipo di dominio. Si pensi solo a come in alcune megalopoli sorgono quartieri privati, chiusi e protetti, dove è garantita pace e sicurezza: ma solo a chi può pagarsela. La città globale porta a una crisi della comunità: si scopre decentrata; la casa stessa è decentrata, col computer e la televisione che sostituiscono il caminetto e rimandano a una comunicazione globale in cui però resta in ombra il contatto e il dialogo col prossimo. Il pericolo, insito in questa idea di universalismo che si sta imponendo, è che porti all’omologazione delle culture, che invece nella loro autenticità originaria sono tutte diverse seppure simili. Sì è fatta strada l’idea di una tolleranza diffusa, ma spesso questa nasconde proprio il crescere delle disparità».
Ma la risposta a tutti questi nuovi problemi, non può che essere culturale.
«Bisogna imparare a spostarsi nel tempo, non solo nello spazio: imparare la storia significa educare lo sguardo sul presente, fortificarlo, renderlo meno ingenuo o meno credulo, renderlo libero. In ogni vera democrazia la mobilità dello spirito dovrebbe essere l’ideale assoluto. Bisogna imparare a uscire da sé, dal proprio ambiente, dalla propria tana culturale e promuovere l’essere transculturale che, interessandosi a tutte le culture, non si aliena da alcuna di esse. È giunto il tempo di una nuova mobilità planetaria e di una nuova utopia dell’educazione. Ma siamo solo all’inizio di questa nuova storia che sarà lunga e, come sempre dolorosa».
Ma perché dolorosa?
«Mi colpisce il crescere delle diseguaglianze: le differenze tra ricchezza e povertà, cui si associa spesso ancora l’analfabetismo, sono eccessive, mentre nei paesi sviluppati ha preso forma una vasta aristocrazia planetaria. Tutti ritengono che vi sia una connessione diretta tra democrazia e mercato liberale; ma mi sembra chiaro che non sempre v’è un legame tra quella democrazia e la rappresentatività. La società planetaria si è stratificata su tre livelli: quello dell’aristocrazia economica e del sapere legata al governo della città globale; quello del consumatore passivo di economia e di cultura; e quello di tutti gli emarginati, sia sul piano economico, sia su quello culturale. Questa situazione, a lungo andare, può diventare fonte di violenza: quella che già spesso vediamo all’interno delle città e che, nelle forme organizzate del qaedismo, utilizza proprio gli strumenti stessi della globalizzazione».
Dove sta dunque la speranza di progredire?
«Nel diffondersi della scienza e della coscienza di noi stessi. Ma questa va acquisita e disseminata con pazienza e secondo un ritmo consono alle possibilità di apprendimento: un passo alla volta. Senza forzature, senza salti, senza la frettolosità che sembra caratterizzare il vivere contemporaneo».
© Copyright Avvenire 28 aprile 2010