di Marina Valensise
Fabrice Hadjadj non ha niente del
bigotto. Scrittore, saggista, filosofo
impenitente della mistica della
carne, della violenza della fede, è
convinto che viviamo in una società
antisessuale, dove il sesso è ridotto a
un fatto di consumo, e pensa che per
rifondare la sessualità serva la fede,
anzi la vera fede, la fede nel Dio fatto
uomo, e nell’amore cristiano. Hadjadj
si dichiara un “ebreo di nome arabo
e di confessione cattolica”. E’ un quarantenne
che viene da una famiglia di
ebrei tunisini: suo padre, maoista militante
in gioventù, visse l’arrivo in
Francia all’insegna della ribellione
contro il patriarcalismo della comunità
d’origine. Il figlio, ragazzo esemplare,
ne ha voluto seguire le orme,
ma in modo paradossale: convertendosi
al cristianesimo dopo essersi impregnato
degli ideali politici rivoluzionari
e di quegli estetico-letterari
dei grandi nichilisti, come Friedrich
Nietzsche e Georges Bataille. Da allora
è diventato cattolico: credente, osservante,
praticante, purificato dalla
fede in Cristo e devoto sino al punto
da andare a messa in un semplice pomeriggio
di giovedì sfidando il deserto
spirituale del Quartiere Latino per
celebrare il mistero dell’Annunciazione.
Dopo la conversione al cristianesimo,
Hadjadj ha sposato una ragazza
del Midi, un’attrice che recita
volentieri le sue pièces di teatro, gli
ha dato quattro figlie e ora aspetta il
quinto: “Elles sont l’ostensoir de Dieu
dans ma vie”, scrive Hadjadj nel suo
ultimo libro, “sono loro, molto più che
i miei libri, il mio vero cammino di fede”.
E che sia convinto lo si vede dalla
luce che gli brilla negli occhi appena
lei lo raggiunge in un bar dell’Odéon.
Hadjadj è un padre felice, che parla
senza riserve dell’esperienza della
gioia che si dischiude come un regalo
inatteso ogni volta che la figlia
Marthe gli sorride. “E’ una bambina
solare, piena di energia” dice lo scrittore
sorseggiando un caffè. “Per me è
un’esperienza nuova, che sto imparando
a poco a poco”, confessa, e di
sicuro dev’essere anche molto coinvolgente
se Hadjadj ha deciso di dedicarle
un saggio ad hoc, dopo il successo
di “La profondeur des sexes
pour une mystique de la chair”, uscito
da Seuil nel 2008 e da poco tradotto
in italiano dalle Edizioni Medusa
(“Mistica della carne”). Considerato
una delle duecento personalità cattoliche
più influenti di Francia, il professor
Hadjadj (che oltre a scrivere
per il teatro insegna in un liceo di Tolone)
ha vinto nel 2010 il premio del
Sindacato degli editori di letteratura
religiosa per un libro semiautobiografico
sul tema della conversione,
“La Foi des démons ou l’athéisme dépassé”(
Editions Salvator), in cui la testimonianza
del neofita traduce la novità
teologica della dottrina cristiana
– una fede che presuppone l’amore e
l’abbandono – e identifica il vero nemico
non nell’ateo che nega l’esistenza
di Dio o la divinità di Gesù Cristo,
ma nell’indifferente apatico. Cioè in
colui che, pur proclamandosi fedele,
ha smesso di cercare la verità, nel
“cristiano demoniaco” che apre la
possibilità di perdizione nel cuore
stesso del cristianesimo: “Il principio
radicale della colpa non è nell’ignoranza
atea o nella debolezza della
carne, non spetta né ai libertini né ai
lussuriosi, ma agli stessi credenti, ai
puri spiriti, ai farisei capaci di perfezione
demoniaca, in nome della loro
fede orgogliosa, sicura della propria
salvezza e sprezzante verso gli altri
peccatori”.
Dopo l’inferno, Hadjadj adesso
pensa al paradiso. “Le paradis à la
porte” è il suo nuovo libro, atteso per
l’autunno, un saggio teologico e critico
al tempo stesso, in cui si parla di
Kafka, Proust, Baudelaire, Yves Bonnefoy.
Hadjadj è partito da una domanda
semplicissima: perché rifiutiamo
il paradiso e preferiamo l’inferno?
“Il diavolo rifiuta il paradiso non
perché non sappia cosa sia, ma perché
nella gioia c’è qualcosa che disturba.
La gioia rompe la contentezza,
aprendo una ferita radicale. Meglio
ripiegarsi in se stesso, allora, restando
entro i limiti della contentezza. Un
uomo contento di sé è quasi un insulto
in francese, eppure l’espressione fa
proseliti, perché la gioia del paradiso
è lacerante”.
Proust, spiega Hadjadj, racconta
l’incapacità di un’esperienza di presenza
totale nel presente. Bisogna
aver perso il presente, per trovare la
presenza delle cose. “I veri paradisi
sono tutti paradisi perduti, tant’è vero
che solo con la parola e la memoria
ciò che ho vissuto diventa presente
in una realtà spirituale superiore”.
Questa è la lezione della “Recherche”.
Ma la letteratura è un fallimento,
simula una presenza più intensa,
però finisce a sua volta per fallire
perché astratta, parziale, soggettiva,
tanto che per Proust il letterato migliore
è colui che coglie la relatività
della letteratura. Per spiegare tutto
questo, Hadjadj cita la scena del primo
bacio a Albertine, nel “Côté des
Guermantes”, dove il narratore descrive
la frammentazione dell’esperienza,
la confusione tra la pelle, la
bocca, la lingua, il paesaggio marino
di Balbec, e spiega che l’uomo, pur essendo
superiore alla scimmia, non ha
sviluppato l’organo del bacio.
Nella galleria di Hadjadj c’è anche
posto per Kafka, che parla esplicitamente
di paradiso, come accade attraverso
la parabola della legge nel
“Processo”. Lì c’è un uomo che vuole
entrare in questa legge radicalmente
trascendente, e un guardiano che gli
dice che non può farlo, non può varcare
quella porta. “L’uomo che pure è
un po’ perverso resta al suo posto e alla
fine viene condannato a morte, ma
prima di morire, insiste: avrei dovuto
varcare la porta delle legge, ma non
ho potuto, e che è successo a quelli
che ci sono riusciti? ‘Questa porta è
solo per te’, gli risponde il guardiano,
prima di chiuderla e condannarlo a
morte. Kafka non vuol dire che il paradiso
non esiste, ma descrive l’esperienza
lacerante del restare sulla soglia,
che presuppone la realtà della
trascendenza e al tempo stesso il suo
carattere inaccessibile”.
Perfetta metafora dell’uomo moderno?
“Sì”, ammette Hadjadj, con
“la differenza che l’inaccessibilità
per Kakfa non è agnostica, ma è vissuta
come qualcosa che ci chiama in
continuazione, che ci tiene in allerta
per una convocazione permanente e
senza scampo. Certo, poi c’è anche
l’altro esempio – in ‘America’ – dell’ingresso
in paradiso come ingresso
nella banalità. Ma l’essenza della
scrittura, diceva Kafka, è la preghiera
e la preghiera consiste proprio nell’esercizio
della soglia, perché risponde
alla posizione della parola che chiede
qualcosa che essa stessa non può
raggiungere”.
Da Kafka a Dante il passo è breve,
anche se all’apparenza inconsueto.
Hadjadj cita dal quinto canto dell’Inferno
la storia di Paolo e Francesca
che, presi dalle avventure di Lancillotto
e Ginevra, si lasciano conquistare
dall’amore e non lessero oltre:
“La bocca mi baciò tutto tremante
(…) quel giorno più non vi leggemmo
avante”. Lo stesso errore, non leggere
oltre, secondo Hadjadj avviene
per chi si ferma all’Inferno senza leggere
il Purgatorio, a dir suo “chiave
di volta della Divina Commedia, perché
tutto il percorso di Dante è un
Purgatorio, la discesa agli inferi è
una purificazione, mentre il Paradiso
è la cantica sua più eccessiva, con
la violenza della beatitudine di Beatrice
che (canto XXIV ndr) l’ammonisce:
se tu vedessi il mio volto, saresti
cenere, se tu sentissi il nostro canto,
saresti annientato…”.
Se questo è “il paradiso” che
Hadjadj ha in mente, un luogo di beatitudine
violenta, di vocazioni irraggiungibili,
di trascendenza inaccessibile,
corrisponde benissimo alle lacerazioni
dell’uomo contemporaneo,
conscio di un senso che lo soverchia,
ma ormai per lui inattingibile. Come
leggere allora la nostra indifferenza
verso la trascendenza? E quale eco
ritrovare nelle polemiche sulla pedofilia,
che molti interpretano come un
attacco contro l’ultimo baluardo della
vita spirituale e un tentativo di
strappare la chiesa alla sua gloria,
per gettarla nel fango delle umane
miserie? “Le questioni sono due” risponde
Hadjadj, che resta sempre un
sistematico. “La prima è quella del
paradiso. Ed è un problema impossibile
da schivare, perché se rifiuto il
paradiso di Dio, non posso evitare di
costruirmene un altro, e così arriviamo
ai paradisi artificiali di Baudelaire.
Non possiamo sfuggire alla sua vocazione,
e se pretendiamo di uscirne,
finiamo per costruirne un ersatz, un
sostituto. La seconda questione è la
pedofilia. L’uomo contemporaneo nega
la trascendenza, è vero. Oggi però
il problema è un altro, lo si è visto col
caso Polanski e in Francia soprattuto
col caso di Outreau, l’intero villaggio
del profondo nord accusato di pedofilia;
un’accusa diventata un fenomeno
di massa che travalica la chiesa. E’
considerato un reato orribile e anzi,
alcuni autori ci hanno spiegato che
provoca una sorta di panico morale,
che impedisce di riflettere spingendo
la gente a lanciare accuse, a inchiodare
i presunti responsabili sul banco
degli imputati, a linciarli mediaticamente.
Ma prima di parlare di indifferenza
verso la metafisica, io mi
domando perché di fronte a un reato
grave come la pedofilia viviamo questa
situazione di panico diffuso? Perché
questa risposta emotiva?”. La risposta?
“Ci sono due risposte possibili”,
dice Hadjadj con sapienza talmudica:
“La prima è la psicologia dell’irremissibile:
vale a dire, una violenza
subita da piccoli è un trauma
che distrugge per sempre. Infliggere
una sevizia sessuale su un bambino è
peggio che l’infanticidio, perché significa
devastare una psiche. Gli psicologi
parlano di resilienza, per dire
remissione: si tratta di un perdono
vero e proprio, che permette a chi ha
subito una violenza di vedere la ferita
convertirsi in cammino. E’ questo,
del resto, il mistero della passione di
Cristo, con la piaga della crocifissione
che diventa luminosa: in altri termini,
non si tratta di cancellare il
dramma che si è vissuto, ma di farlo
diventare luce”.
Eppure, il panico diffuso non si
può interpretare solo in chiave teologica.
“No, infatti la causa vera sta nella
nostra concezione della società
che non offre più argomenti razionali
per condannare la pedofilia”. Addirittura?
“La nostra concezione della
società si fonda infatti sul contratto
sociale: perciò, la comunità naturale,
le famiglie, i legami intragenerazionali,
la tradizione non hanno più
senso. Esiste infatti solo l’inidividuo
‘senza qualità’, che entra in società
attraverso la libertà di un contratto
puramente individuale. Così, siamo
arrivati a una sorta di immanenza e
di egalitarismo puro, con le madri
che vogliono essere amiche delle figlie
e loro concorrenti in fatto di giovinezza,
il che è un’altra forma di pedofilia.
Rifiutiamo ogni trascendenza,
non solo divina, ma umana. Sospettiamo
come inautentico ogni rapporto
di autorità. E il fatto che il padre
stia su un piano diverso dal figlio, e
l’adulto su un piano diverso dal bambino,
diventa intollerabile in questa
situazione di immanenza generalizzata.
Per questo, ci si può anche domandare:
in fondo perché un adulto non
dovrebbe poter andare a letto con un
bambino? Perché un padre non dovrebbe
portarsi a letto la propria figlia?
Dal momento in cui abbiamo
spezzato la gerarchia delle generazioni,
siamo entrati in una logica puramente
orizzontale; perduta la verticalità,
abbiamo svilito i padri e smarrito
persino il senso della paternità.
Ma a partire da questa logica in cui
tutti sono sullo stesso piano, non c’è
più alcun motivo razionale di vietare
la pedofilia. Tant’è vero che, negli anni
Ottanta, alcuni intellettuali francesi
di sinistra, fra i quali Daniel Cohn-
Bendit, firmarono su Libération un
manifesto in difesa della pedofilia.
Così, siamo passati da un estremo all’altro.
Dopo l’egalitarismo, la rivoluzione
culturale, la liberazione sessuale,
non sappiamo più come argomentare
contro la pedofilia”. Allora
perché tanto scandalo per i preti pedofili?
“Perché l’uomo sente che è un
peccato e un reato, ed entra nel panico,
scegliendo il linciaggio anziché la
risposta razionale, poiché non capisce
più perché sia impossibile. E’ un
punto radicale. La prima legge per
Sigmund Freud era il divieto dell’incesto.
Ma Freud non spiega perché: il
divieto dell’incesto è una legge indeducibile,
un’evidenza primaria fondata
su un principio primo assiomatico
e indimostrabile. Se così non fosse,
se ci fosse un’altra legge che la legittimasse,
il divieto di incesto non
sarebbe una legge primaria. Ma il fatto
è che l’uomo è una creatura con un
rapporto speciale nei confronti di
quella che Tommaso d’Aquino chiamava
la ‘ragione d’origine’, vale a dire
il padre suo creatore o genitore.
Solo che nel momento in cui l’uomo
diventa un demiurgo, rifiutando la dimensione
di creatura nei confronti di
un creatore, avrà tendenza a negare
la legge primaria del divieto di incesto,
uscendo dalla verticalità per entrare
nell’orizzontalità indifferenziata,
e ognuno finirà per andare a letto
con chiunque”.
La chiesa però resiste. Oggi è l’ultimo
baluardo della verticalità e della
ragione naturale. “A forza di affermare
la morale naturale, la chiesa rischia
di trascurare la misericordia soprannaturale.
E questo secondo me è
un pericolo in termini di fede e di mistica
cristiana. Certo, è giusto combattere
la liberalizzazione dell’aborto, e
oggi persino Simone Veil insiste per
dire che abortire non è un diritto. Ma
una cosa è lottare contro la deriva individualistica,
altra cosa è annunciare
la redenzione per le donne che
hanno abortito e per i medici abortisti.
Cristo è venuto anche per loro,
mentre ora corriamo il rischio che
l’annuncio della morale naturale si
trasformi in una durezza farisaica. La
chiesa è l’ultimo baluardo della trascendenza,
e ha anche rivelato la perfezione
dell’infanzia. E se la pedofilia
oggi ci scandalizza e ci getta nel panico
è perché noi continuiamo a essere
cristiani, la nostra società continua ad
essere impregnata di cristianesimo.
Nel mondo antico, come del resto ancora
oggi in Africa e in gran parte del
mondo non cristiano, i bambini erano
trattati come esseri inferiori, a volte
come schiavi, spesso come prede, perché
erano considerati incompiuti, imperfetti.
‘Lasciate che i bambini vengano
a me’, disse Gesù, e da allora è
accaduto qualcosa di rivoluzionario.
Nel Vangelo c’è anche scritto: se non
diventerete come bambini non entrerete
a far parte del regno dei cieli.
L’infanzia a quel punto diventa il simbolo
stesso della perfezione cristiana,
l’icona della verità. E’ questo il paradosso
del cristianesimo: una vita spiritualmente
piena e ancora incompiuta”.
Oggi però i cristiani hanno difficoltà
a sottrarre i loro figli ai costumi
dominanti e pure i preti confessano
di non saper sfuggire alle lusinghe di
un mondo senza Dio. “Per questo domina
il panico. L’ultimo rifugio per
noi cristiani erano i collegi religiosi,
e adesso scopriamo che sono diventanti
luoghi di perdizione…”
© Copyright Il Foglio 2 aprile 2010