DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Ipazia, uno sbadiglio seppellirà le polemiche. Agorà, il film costosissimo di Amenabar aveva un bisogno disperato di promozione

Adesso che “finalmente”, come ha titolato un importante quotidiano nazionale, il film “Agorà” di Alejandro Amenabar esce anche nelle sale italiane (dal 23 aprile), sarebbe “finalmente” arrivata l’occasione per fare il punto sul tema “laicità vs. spiritualità” e lanciare una seconda petizione online destinata però, questa volta, a lasciare in pace Ipazia. La filosofa neoplatonica vissuta ad Alessandria nel IV secolo e massacrata, ancora giovane, dalla setta fondamentalista dei cristiani parabalani, in questi ultimi sedici secoli, tutto sommato, aveva goduto di una certa tranquillità post mortem. Poi il regista spagnolo Amenabar (ingiustamente ignorato a Venezia per “The others” con Nicole Kidman, e premiato invece con l’Oscar per il film pro eutanasia “Mare dentro” con Javier Bardem), ha deciso di dedicarle un intero film che si intitola ambiziosamente “Agorà”. “Agorà – ha detto il regista – è la storia di una donna, di una città, di una civiltà, di un pianeta. L’Agorà è il pianeta su cui tutti dobbiamo imparare a vivere insieme”.
Il film è fastoso, ad alto budget (50 milioni di dollari), bene interpretato da un’attrice del calibro di Rachel Weisz (una che ha debuttato con Bertolucci in “Io ballo da sola”, poi è passata per il pop corn movie “La mummia” e, alla fine, ha anche vinto un Oscar per “The constant gardener”) ed è
arricchito da splendide e fedeli ricostruzioni storiche. Però non
ha avuto vita facile. Non gli giovano adesso, alla vigilia della sua uscita nelle sale italiane, le chiacchiere da bar sport che hanno inondato il web e i tre seriosissimi convegni che a Roma, Milano e Genova sono stati organizzati da alcuni studiosi del pensiero cosiddetto laicista. Quando “Agorà” venne presentato al Festival di Cannes, esattamente un anno fa, non furono pochi coloro che si stupirono per la prosopopea del lavoro di Amenabar. Qualcuno, con uno sbadiglio, abbandonò anche la sala prima della fine della proiezione.
Nacque, forse per questo, una polemica un po` strumentale. Siccome è un film che parla male della Chiesa cattolica, non sarà mai distribuito in Italia, cominciarono a strillare alcuni supporter del film sui social network. Così è cominciato tutto. Con una ciarliera quanta infondata accusa di censura da parte della Curia romana e con una petizione su Internet per convincere i distributori italiani a prendere in considerazione il film per la distribuzione nelle nostre sale. Il film, per una decina di mesi, però ha dovuto aspettare. Avete visto, hanno strillato sui social network, non arriva in Italia per una forma di censura preventiva. La verità, invece, è che il film costava troppo. I distributori italiani, in questi anni, hanno dimostrato di aver paura solo del fallimento al botteghino ma hanno sempre sistematicamente ignorato la critica cattolica. Anzi, spesso hanno addirittura provocato artatamente la polemica per avere pubblicità gratuita. Adesso che le quotazioni del film di Amenabar sono decisamente calate (scarsi incassi nel resto del mondo, nessun premio importante ai festival maggiori, ecc.), allora si è fatta avanti la Mikado. L’idea di marketing per il lancio, neanche a dirlo, è quella di cavalcare l’eterno conflitto fra coloro che credono e coloro che invece, per dirla con Giovanni Paolo II, “credono di non credere”.
Che noia. E che peccato! La storia e la testimonianza culturale della giovane Ipazia, libere dalla perversa attrazione della polemica ideologica, potrebbero essere illuminanti proprio per i laicisti del terzo millennio. È facile oggi essere laici, nella nuova omogeneizzazione del pensiero critico; allora, ai tempi di Ipazia, invece era un po` più complicato. Lo ha ben scritto anche Alessandro Zaccuri su Avvenire: sono poche le persone che conoscono veramente il fascino e la complessità del periodo storico in cui visse Ipazia.
Con somma indifferenza per l`intelligenza del pubblico, fra le altre cose, sui giornali si è letto che il film sarebbe "un manifesto contro ogni forma di intolleranza e di fondamentalismo religioso". Un`affermazione forse un po` esagerata e che ha fatto storcere la bocca anche alla massima studiosa italiana di Ipazia, Silvia Ronchey. In un`intervista ha detto che alcune cose del film non l`hanno convinta. "Agorà", secondo la Ronchey, "sfiora un settarismo uguale e contrario a quello che combatte". È anche sbagliato, secondo la studiosa, "dare alla setta dei parabalani un accento semitico e atteggiamenti che suggeriscono il paragone con certi estremisti islamici di oggi". Ma in nome del marketing si fa questo ed altro. Il momento, poi, sembra quello adatto. Gli attacchi alla Chiesa e al pontificato di Benedetto XVI sono particolarmente intensi e violenti in questo periodo. Anche un film ne potrebbe approfittare per vendere qualche biglietto in più.
Ma "per il Papa la prioritá è rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l`accesso a Dio, mettendo così in luce il nodo decisivo dell`evangelizzazione oggi, nel contesto culturale dell`Occidente", ha detto recentemente il cardinale Camillo Ruini. Ed è proprio quello che anche questo Papa continua a fare ogni giorno insieme con tutti i laici, anche con quelli che ora, in chiave anticattolica, si sono improvvisati difensori del pomposo film sulla povera Ipazia.

Andrea Piersanti



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