Uno dei segni  dell’ideologismo è che ha   poca e confusa memoria. E non solo sui tempi andati ma anche sul  recente. E quando suona le sue trombette, pensa di suscitare uragani e  invece suonano un po’ come pernacchie. Questo e altro è venuto da  pensare leggendo certe prerecensioni  entusiaste a un film di cui solo  oggi c’è l’anteprima. È un film spagnolo dedicato alla splendida e  tragica figura di Ipazia, la filosofa del 400 circa che fu uccisa da un  gruppo di fanatici cristiani. Il film è stato salutato con clamore e  sospironi.
  Giornalisti e studiosi come Armando Massarenti su 'Il  Sole 24 ore' e Luciano Canfora sul 'Corriere della Sera' hanno speso le  loro migliori cartucce per confezionare a proposito della triste e  confusa vicenda di Ipazia paragoni con l’epoca contemporanea, dove com’è  evidente a tutti (secondo questi pensatori che vivono chissà dove) il  libero pensiero è osteggiato da quei fanatici dei cristiani (sottinteso  cattolici, in barba a qualsiasi distinzione storica tra oggi e quei  secoli lontani).
  Finalmente, secondo loro, si parla di Ipazia anche  nella oscurata Italia. La ricostruzione nel film della vicenda, molto  complessa dal punto di vista storico e filosofico tanto è che scrittori  cristiani di quegli stessi secoli parlano con ammirazione della filosofa  di cui non peraltro non ci è giunta l’opera, è stata dunque salutata  con giubilo. E pur dovendo riconoscere nel film alcune evidenti  'forzature' antiscientifiche e antistoriche esse sono state – guarda un  po’ – giudicate benevolmente da questi censori campioni dell’esattezza  scientifica e storica. Il vizio ideologico di leggere in una vicenda  così lontana nel tempo e molto complicata analogie con non si sa quali  persecuzioni presenti mostra da sola le sue interne contraddizioni. Ma  c’è un altro aspetto della mancanza di memoria che ferisce  ulteriormente. È che entrambi gli intellettuali hanno dimenticato o  fatto finta di dimenticare che un dramma teatrale dedicato a Ipazia fu  scritto, e portato in scena con non poca importanza in Italia da una  trentina di anni. Lo ha scritto un importante poeta, Mario Luzi.
   Uno dei nostri massimi poeti, e un cristiano. Che non ebbe timore  alcuno, in quel dramma fortissimo e affascinante, di mettere a nudo la  tragedia che sempre incombe in ogni fanatismo. La tesi nemmeno velata  sia di Canfora che di Massarenti è che il cristianesimo – come ogni fede  – sia in se stesso una storia di fanatismo. Ma proprio l’episodio  tragico e particolarmente cruento di Ipazia, non a caso maturato in  ambienti orientali e in mezzo a certe complicazioni politiche, sta a  mostrare proprio che l’esperienza più frequente della fede è lontana  dalla degenerazione fanatica.
  Quel triste episodio, insieme a non  molti altri, mostra – pur tra chiaroscuri che l’indagine storica deve  considerare per non diventare giornalismo politico – che il fanatismo è  un male che fa notizia proprio quando perverte la fede. Forse né  Canfora, né Massarenti hanno letto Luzi. Un poeta a volte può insegnare  allo storico e al filosofo della scienza uno sguardo più vasto, più  netto e meno viziato sulle vicende e la prospettiva con cui osservarle.
   Una breve ricerca su Google avrebbe loro evitato la figura di far  quelli che scoprono l’acqua calda, o che voglion far passare la storia  per la dimostrazione di una tesi. E avrebbe loro impedito di far  figurare ai loro lettori l’Italia come un paese in cui certi argomenti  sono tabù. È una forma di scorrettezza intellettuale che si avvicina,  come preludio e acidula guarnizione, al fanatismo sui cui pericoli  proprio loro vorrebbero allertarci.
© Copyright  Avvenire 13 aprile 2010