DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La chiesa ha un sesto senso e può usarlo nella tempesta perfetta

Ci vuole più democrazia nella chiesa, più trasparenza.
Lo invocano in tanti, in questi giorni. Anche
dentro la chiesa, fedeli e pastori pieni di buone
intenzioni e di cattive letture. Più trasparenza,
più democrazia, e naturalmente tolleranza zero. Lo
scandalo dei preti pedofili fa vibrare d’indignazione
la società civile, questo bluff semantico che nessuno
si azzarda a smascherare. Bisogna fare luce,
dicono, scoperchiare il tombino nel quale santa
madre chiesa ha nascosto il marcio per non guardare
in faccia se stessa, il proprio doppio abominevole:
pedagoga e pedofila. Perciò più trasparenza,
più democrazia, dosi massicce di modernità da
iniettare in questo corpaccione arcaico, e pazienza
se non reggerà alla cura. Alla chiesa viene rimproverato
da tutte le parti di arroccarsi nella difesa
ottusa del proprio passato, quando sorvegliava
e puniva in simbiosi con lo stato. Ma dov’è tutto
questo arroccamento se in realtà il popolo di Dio
usa le stesse parole e tradisce gli stessi tic linguistici?
Se rincorre l’opinione pubblica fino a
confondersi con essa, se negozia gli spazi nel palinsesto
per allestirvi autodafè o per gridare al complotto?
E’ vero, la chiesa ha sempre parlato la
koinè. Ma per dire altrimenti. E disobbedire, nel
caso, alle leggi della città.
Perciò non deve lasciare processare i suoi in
piazze virtuali in cui nessuno sente il fiato dell’altro.
Perché solo se sono prossimo il mio rimprovero
è sincero, sennò c’è solo disprezzo o calcolo. La
correzione è reale solo se fraterna, se rinuncia alla
logica perversa, antievangelica, della mela marcia.
Nessuno tocchi Caino perché è terribile cadere nelle
mani del Dio vivente.
La tempesta che si è scatenata durerà a lungo e
farà molti danni. E’ una tempesta perfetta. Sorprende
la chiesa nel luogo dove maggiormente si è spesa,
nella cura dei piccoli, e la schianta con il peso
delle vittime; il teatro degli orrori è stato spesso il
confessionale, questo tribunale della coscienza sopravvissuto
alla scomparsa della cristianità che
non può più essere una zona franca, sostengono gli
araldi della società civile. A costoro non importa
nulla di contrizione, senso del peccato e misericordia.
Piuttosto la chiesa deve soddisfare la volontà
dell’opinione pubblica se non vuole perdere il treno
della storia. Deve presentarsi con la carte in regola.
L’emergenza “suprema e assoluta” di questa
vicenda, ha scritto Adriano Prosperi l’altroieri su
Repubblica, è “il rapporto tra chiesa e secolo, papa
e mondo, fede e democrazia”. Insomma, siamo
all’ennesimo esame di maturità civile: quanto e in
che misura la chiesa può dirsi democratica e trasparente,
quindi riformata?
Ma questo modo di ragionare è novecentesco,
inutile. Oggi la vera emergenza sta nell’uomo disincarnato,
in balia dei dispositivi tecnici che gli sono
sfuggiti di mano, sta nella perdita dei sensi che segna
la fine della modernità. E tra i sensi ce n’è uno
riservato a chi crede: il sensus fidei, quel sentire la
fede in pienezza che i credenti spesso non sanno di
avere e che quindi non esercitano, almeno in apparenza.
L’ultima volta che il sensus fidei si è tradotto
in una decisione formale è stato nel 1950, con il dogma
dell’Assunzione che fu proclamato da Pio XII.
Non c’erano pezze d’appoggio bibliche o teologiche
per questo passo, ma il magistero ratificò quello
che la comunità ecclesiale aveva maturato da tempo.
Non era banalmente l’opinione pubblica che
prendeva il sopravvento nella chiesa, ma la pietà
popolare che dettava legge. La “Lumen gentium”,
uno dei testi fondamentali del concilio, dichiara
che “la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene
dal Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta
questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale
della fede di tutto il popolo, quando
dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici mostra l’universale
suo consenso in cose di fede e di morale”.
Non solo dogmi, dunque, ma anche prassi.
Tutti insieme i cristiani non possono fallire, hanno
un sesto senso che li porta nella giusta direzione.
Non serve tirare in ballo la democrazia o la trasparenza,
quella è roba che va bene per un’opinione
pubblica i cui umori altalenanti sono distillati
nei sondaggi ad uso del potere. Nel caso specifico,
la comunione ecclesiale deve ripensare da capo la
penitenza senza confidare troppo nelle sanzioni canoniche.
Nei primi secoli ci si confessava una volta
sola nella vita, la preparazione era durissima e la
riparazione delle colpe era robusta e concreta. Oggi
invece la satisfactio è ridotta a un pateravegloria
(Paolo Prodi ha notato che “il problema del sacramento
della penitenza investe la struttura stessa
della chiesa come istituzione storica”). Per uscire
dalla tempesta perfetta, ci vuole il sensus fidei.

Marco Burini

© Copyright Il Foglio 14 aprile 2010