Robin Morgan è una papessa atea e una bella signora che è diventata l’uomo che voleva sposare. Bene, questa “clarissa” del femminismo radicale ha scritto una cosa interessante nella prefazione all’autobiografia di Irene Vilar (Impossible Motherhood, tradotto da Corbaccio sotto un titolo più veritiero: Scritto col sangue), portoricana a Syracuse, New York, che a 17 anni è travolta dalla passione per il suo cinquantenne professore di college (un Robin Williams da L’attimo fuggente) e dal quale «in poco meno di un’ora – scrive Irene nel suo bilancio di dieci anni d’amore, quindici aborti e sette tentati suicidi all’ombra del “Grande Uomo” che non le ha pagato mai nemmeno una cena («per non farmi sentire dislocata affettivamente»), epperò mai le ha fatto mancare un libro di Bertrand Russell o una edizione del New York Times – imparai che la famiglia era un nido di sofferenze, l’istruzione una farsa, l’amore un’invenzione recente, Dio un sogno andato male». Dopo dieci anni di questa libertà («vivevamo sei mesi in barca, sei mesi in case diverse»), Irene ritrova la realtà incontrando un altro uomo e diventando madre. La tesi effervescente della Morgan è che «Irene Vilar, più volte colonizzata, ha rivendicato la propria vita nel momento in cui ha portato a termine la sua gravidanza e dato alla luce la donna che è oggi, dopo una tragedia infinitamente peggiore di tutti gli aborti: l’aborto di sé». Ehi, avete sentito cosa dice una “pro-choice” scatenata? “Aborto di sé”. Questo è in causa nell’idea di “libertà” oggi dominante. Questo è il colonialismo che Benedetto XVI e la Chiesa cattolica combattono. Perciò, come ha ben scritto sul Jerusalem Post l’ebreo ed ex sindaco di New York Ed Koch, è normale che i grandi media (così come i “Grandi Uomini”) siano pregiudizialmente antipapisti e anticattolici.
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