All’ennesimo caso di coppia con prole
numerosa o comunque superiore a
uno che si impicca al “740” perché le
detrazioni possibili per la figliolanza sono
prossime allo zero, e si fanno il fegato
grasso e grosso per il collega di lavoro
felicemente single che paga più o meno le
stesse gabelle, mi chiedo in tutta sincerità
quando questo governo, espressione di
una maggioranza che si dice votata alla
difesa del “valore” della famiglia,
comincerà seriamente la riforma delle
riforme per aiutare le famiglie: il
quoziente familiare. Così qualche ministro
o dirigente femminile del Pdl a scarso di
pratica familiare può almeno intestarsi la
teoria dell’unica rivoluzione possibile. Si
potrebbe cominciare, magari, destinando i
soldi recuperati dall’evasione fiscale a
avore dell’unico sistema di tassazione che
considera la famiglia un sigillo
comunitario, un tutt’uno e non la mera
somma di tanti individui. Un balsamo non
da poco, il quoziente familiare. Segnale
che la politica davvero si occupa di
famiglia. Lo sgravio almeno parziale del
peso economico del sostentamento, l’idea
che anche lo Stato ha voglia di dare un
aiutino fisso e non una tantum a far meglio
il mestiere di genitore, può aiutare a
metter mano nel deserto riarso di famiglie
ridotte a nuclei di allevatori di figli unici,
segugi dell’audience drogati di “Sos tata”,
e collettivamente colpevoli di quel
processo perverso che ha ribaltato la
gerarchia piramidale familiare che alla
sommità ha messo il bebè anziché il
vecchio capostipite, con tutte le distorsioni
che ciò produce. Il figlio, sappiamo, è
soggetto sempre più raro. Non siamo più ai
tempi del “Canale Mussolini” di Antonio
Pennacchi, quando nell’Agro Pontino
venete dai fianchi forti e sfiancati
sfornavano bimbi a gettito continuo con la
speranza che almeno qualcuno sarebbe
sopravvissuto alle malattie per farsi
adulto. E il figlio così diventa l’idolo della
piccola tribù familiare, il sovrano assoluto
tra coppie malformate e mal gestite,
cruccio perenne di padri sciroccati e
madri eternamente depresse o perché con
le occhiaie hanno perso amiche,
mondanità e marito, o perché preferiscono
gli omogeneizzati e l’asilo nido e non
vogliono sottomettersi alla schiavitù di
“figli scimpanzé”, come li ha definiti
Elisabeth Badinter, senza però avere il
coraggio di dire che è una presa di libertà
e non una manchevolezza di madre in cui
specchiarsi quando, mentre tu scappi un
ufficio, osservi la dirimpettaia che porta la
carrozzina al parco.
Se i bebè sono i sovrani delle nostre
attenzioni, iperprotetti dalle nostre
nevrosi securitarie, succede poi per forza
che su di loro si sfoghino le estreme
pulsioni di egoismo protezionistico che
affogano il figlioletto appresso alla madre
nelle acque della Dora Baltea, succede
che due spostati come Morgan e l’Asia
Argento si diano battaglia sul campo
morbido di ingenuità della figlioletta di
otto anni, succede che ancora si gridi allo
scandalo perché Julie Myerson, in un libro
troppo caritatevole come “Il figlio
perduto” (Einaudi), si martoria di sensi di
colpa perché ha fatto l’unica cosa giusta,
mettere fuori dalla porta un figlio
diciassettenne che dire teppista è fargli un
complimento. Uno scimpanzé, appunto. E
nemmeno gli ha dato un calcio nel sedere,
è questo lo scandalo.
© Copyright Il Foglio 10 aprile 2010