Tiqqun” di Fackenheim non è, come
qualcuno ha preteso, un libro
che sviluppa una “teologia dell’Olocausto”.
Come dice l’autore “non ci
può essere una disciplina di questo tipo”.
Ma c’è – egli aggiunge – “una teologia
che è sfidata dall’Olocausto e
che, evitando ogni tipo di fuga, salva la
propria integrità auto-esponendosi ad
esso”. La questione è delicata perché
una teologia ebraica nel senso stretto
del termine non esiste. Difatti, nell’ebraismo
gli eventi divini sono momenti
di un percorso interminato e
proiettato verso la fine dei tempi e
verso la redenzione messianica. Questo
percorso vive nella tensione continua
tra il sistema dei precetti, la cui
osservanza garantisce in modo quasi
automatico di restare entro i confini
di una vita irreprensibile, e l’ammonimento
profetico contro il rischio
dell’automatismo: la confusione tra
formalismo e morale. E’ una tensione
che riecheggia anche nel Talmud
quando, chiedendosi perché mai fu
distrutto il Secondo Tempio proprio
in un periodo in cui il popolo seguiva
in modo irreprensibile i precetti, si dice
che “Gerusalemme fu distrutta unicamente
perché vi si seguiva scrupolosamente
la legge della Torah”.
L’ebraismo ha tratto la sua forza
dall’operare continuo di questa tensione.
Se il Talmud ha enfatizzato il
primo termine le correnti mistiche e
messianiche hanno riproposto il messaggio
profetico, fino alla sua forma
più recente rappresentata da Teodoro
Herzl e dal sionismo. La Kabbalah
rappresenta ciò che più nell’ebraismo
è vicino alla teologia, sebbene si tratti
più che altro di teosofia e di esplorazione
delle forme della vita divina,
al fine di colmare l’abisso tra uomo e
Dio attraverso un percorso di avvicinamento
mistico.
Forse la Kabbalah più “teologica”
(ma sempre in un senso molto speciale)
è quella cui fa riferimento il titolo
del libro di Fackenheim: “Tiqqun”. E’
la Kabbalah cinquecentesca di Safed,
soprattutto quella di Isaac Luria. Gershom
Scholem ne ha approfondito le
motivazioni individuandole nel terribile
dramma che fu per l’ebraismo l’espulsione
dalla Spagna nel 1492.
Fackenheim, con molta superficialità,
considera questo dramma come un
evento di rilievo minore della Shoah.
Invece esso fu un cataclisma epocale.
Come osserva Scholem, ci volle un secolo
perché fosse assimilato, dando
poi luogo alla Kabbalah di Safed che,
a sua volta, ispirò una drammatica
speranza di redenzione che culminò in
un’esplosione vulcanica di messianismo
di cui fu principale esponente fu
il falso messia Sabbatai Zevì. Furono
eventi le cui ondate si propagarono fino
al Settecento.
La dottrina di Luria affrontò in modo
audacissimo il problema del male
identificandone addirittura l’emergere
in un “errore” cosmico avvenuto
nell’atto creativo del mondo. La creazione
del nulla era spiegata con un atto
di “autocontrazione” (tsimtsum) di
Dio, una sorta di “esilio” divino con
cui Egli fece posto a uno spazio finito
e vuoto in cui doveva propagarsi l’emanazione
generatrice del mondo.
Durante il processo emanativo i “vasi”
che trasmettevano la luce divina
non ne sostenennero la potenza e si
ruppero in frammenti, così che molte
scintille della luce divina si diffusero
in un’esplosione cosmica e restarono
imprigionate negli strati inferiori del
mondo del male. Il compito del popolo
ebraico è ricercare ovunque le
scintille divine per estrarle e farle
ascendere ai livelli superiori, in vista
di una riparazione universale (Tiqqun).
Trovano così senso sia il dramma
della “prigionia” del bene che l’esilio
del popolo ebraico condannato
alla dispersione per il compito di ricercare
i frammenti dispersi fino alla
redenzione finale.
Il Tiqqun è però un evento destinato
a compiersi alla fine della storia, in
coincidenza con l’avvento messianico,
da costruire giorno per giorno nella
pratica con cui l’ebreo riconosce i
suoi errori e i suoi peccati e ad ogni
istante ricomincia daccapo: la Teshuvah.
Quest’ultima è la riparazione a
misura d’uomo, Tiqqun è l’evento conclusivo,
che costituisce la riparazione
della vita divina, dell’errore avvenuto
nell’atto creativo.
Nel pensare il Tiqqun come atto di
riparazione del mondo dall’evento metastorico
rappresentato dalla Shoah,
Fackenheim rischia di proporre una
teologia apocalittica che già una volta
minacciò di dissoluzione un ebraismo
che, dopo essere stato colpito nel 1492
dalla dispersione e dalla distruzione
(tra roghi, conversioni forzate e marranismo),
era caduto nello smarrimento
provocato dal falso messianismo e dalla
conversione finale di Sabbatai all’islam.
In realtà, Fackenheim fa molto
di più: egli propone il Tiqqun nella
cornice di un’ontologia di un Olocausto
di cui dichiara l’assoluta unicità:
un evento la cui riparazione è necessaria
affinché il mondo possa riprendere
il suo cammino che si è arrestato
per l’enormità dell’accaduto ma che in
realtà sembra possa compiersi soltanto
all’interno dell’ebraismo.
Di fronte al librarsi di Fackenheim
nel cielo dell’ontologia, ci si vergogna
quasi di scendere sul triviale terreno
dello storiografia per contestare la tesi
dell’assoluta unicità della Shoah.
Ma, in fin dei conti, è proprio
Fackenheim ad avvalorare questa tesi
sul piano storico. Solo che lo fa con
pochi e scarni argomenti, dati come
ovvi. Le sue righe sbrigative sfigurano
dinanzi alla profondità con cui un
Vassili Grossmann ha esplorato il senso
del legame profondo tra Lager e
Gulag. Quindi, Fackenheim prende un
incerto volo verso l’ontologia, e intesse
un dialogo esclusivo proprio con
quella tradizione della filosofia la cui
pretesa di costituire una scienza assoluta
dell’essere è una radice dei mali
che hanno colpito la civiltà europea.
Viene da chiedersi perché mai
Fackenheim dialoghi in modo povero
e piattamente recriminatorio con Spinoza;
perché scelga qualsiasi interlocutore
filosofico salvo che Husserl, ovvero
colui che trovò la forza e la speranza,
anche negli ultimi anni quando
ebbe la Gestapo sotto casa, di proporre
una via d’uscita per salvare la vocazione
filosofica europea liberandola
dalle impasses dei grandi sistemi
ontologici. Viene da chiedersi perché
non dialoghi con un filosofo cristiano
così attento al tema della memoria come
Paul Ricoeur; e perché senta così
poca consonanza con le correnti dell’ermeneutica
(Lévinas incluso) e della
fenomenologia. E viene da rispondere
che egli si è chiuso da solo in una
sterile prigione pretendendo che le
aporie teologico-filosofiche suscitate
da Auschwitz siano un fatto inedito
nella storia storia, e ricercando il “Tiqqun
filosofico” (come lo chiama) nel
posto sbagliato.
Ontologizzando la Shoah
Fackenheim legittima la domanda di
De Benedetti se egli non stia proponendo
“un tentativo di sostituzione del
cristocentrismo”. Chi scrive non ha il
timore di De Benedetti di urtare suscettibilità
e ritiene che, sì, dal punto
di vista ebraico questa di Fackenheim
è un’“eresia” cristologica. Col tentativo
di fare della Shoah il sostituto di
Cristo (nello stile di un moderno sabbataismo)
e col presentare il Tiqqun
come un heideggeriano ritorno al “da”
del “Dasein” ebraico, Fackenheim
congeda l’ebraismo. Difatti, egli dice:
“Senza una tradizione recuperata non
c’è futuro per gli ebrei”. Tutto qui? A
questo si riduce il Tiqqun che dovrebbe
riparare il mondo? In effetti, si riduce
a questo perché il cataclisma ontologico
arrestando la storia imprigiona
anche l’ebraismo mutilandolo della
sua dimensione profetica che alla
storia appartiene irrevocabilmente.
Ma la storia non si lascia arrestare da
nessuna sentenza circa il carattere ontologicamente
inassimilabile e insuperabile
di un evento.
Giorgio Israel è docente di Storia
della matematica all’Università
La Sapienza di Roma
e studioso di problemi dell’ebraismo
© Copyright Il Foglio 3 aprile 2010