DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Tredici anni, troppo amato, cioè maltrattato

La Stampa, giovedì 15 aprile

Il nonno, la nonna e la madre gli hanno dato troppo amore:
per questo li hanno condannati. Lui oggi ha 13 anni, e
vive a Ferrara. È un bambino molto intelligente: la sua
maestra dice che è il primo della classe. Ma fino a 7 anni
non camminava quasi e non riusciva nemmeno a salire le
scale. Solo adesso ha cominciato a camminare. Però, non
corre troppo bene.
Non ha mai fatto uno sport, niente, mai una gita, mai una
corsa nei prati con gli amici. Non ha mai frequentato nessuno
che non fosse la sua famiglia, suo nonno, la nonna e la
mamma. Quando non va a scuola, sta chiuso nella sua stanza
tutto il giorno, riempito di coccole e di amorevoli carezze,
che suscitano lampi di mesta allegria nei suoi occhi di
bimbo, neri come due bacche. Fuori, è come se tutto ribollisse
dell’essenza pericolosa della vita, del magma recondito
di una tragedia. Ha 13 anni, ma non riesce a fare la pipì
da solo. Deve avere sempre accanto o sua mamma o suo
nonno. E mangiare, può farlo soltanto a casa. Quando l’hanno
costretto alla mensa della scuola, s’è chiuso in uno sgabuzzino
senza nessuno, come ha raccontato Heinrich Stove,
l’avvocato di suo papà. Il fatto è che non ce la fa a mangiare
assieme agli altri compagni. Ha paura di loro, come ha
paura della vita, perché, semplicemente, nessuno potrà mai
amarlo come la sua famiglia.
Il troppo amore è una forma della vita. Molte volte l’abbiamo
conosciuto nella cronaca. Genitori adottivi che hanno
infranto le leggi, fidanzati impazziti che hanno perso il
senso della realtà. C’era stata una mamma che non aveva
mandato il figlio a scuola solo perché aveva paura che si
ammalasse. L’avevano condannata. Ma questa volta il tribunale
di Ferrara gli ha dato una connotazione penale ben
precisa: è un maltrattamento di minore. Da oggi, anche per
la Giustizia, il troppo amore è un reato, perché è un possesso
che esclude il distacco, un affetto che ammorba la vita.
Il nonno è stato condannato a tre anni e sei mesi, la
mamma a tre anni, la nonna a due: il giudice Silvia Marini
ha deciso pene molto più severe rispetto a quelle richieste
dalla Procura. In realtà, come poi andrà davvero a finire
questa storia, nessuno lo capisce ancora bene.
Il fatto è che il bambino ha paura di tutti, ma odia una sola
persona: suo padre. Da dieci anni va avanti questa vicenda,
e lui è convinto che è tutta colpa del babbo. La mamma
gli ha detto una volta che lo voleva mandare in un istituto
di handicappati. Lei non ha un lavoro e nemmeno una
rendita, e vive assieme al nonno, che ha una cascina con
l’aia alle porte di Ferrara: ci sono dei cani che ringhiano
molto furenti dietro al cancello per proteggerli da chiunque
voglia avvicinarsi. Lui, il papà, invece, è un signore distinto,
che fa il manager a Milano. Il loro matrimonio è andato
in crisi subito dopo la nascita del piccolo. È stato quasi
subito annullato dalla Sacra Rota. Da allora, in dieci anni,
l’uomo «è riuscito a vedere suo figlio soltanto tre volte,
e di nascosto», come racconta Heinrich Stove. Per forza, dice
che lo odia: gli hanno fatto una testa così. «Noi non volevamo
creargli dei problemi sulla sua pelle. Noi volevamo
liberarlo per il suo bene. Speriamo che quella famiglia si
renda conto che non gli sta facendo del bene, e che questa
sentenza permetta al Tribunale dei minori di intervenire».
Però, la verità è che per ora nessuno riesce ancora a portarlo
via da quella casa. Lui lo ripete in continuazione, a
tutti quelli che sono andati a trovarlo: «Io sto bene qui».
Tutti, meno i giornalisti: loro, li hanno cacciati con i cani.
Il parroco, invece, quando è venuto in aula a deporre, ha
difeso la famiglia: «Sono brava gente». E in effetti «sono
brava gente». Solo che stanno bene da soli. I loro difensori,
gli avvocati Dario Bolognesi e Elisa De’ Giusti, dicono
che «se il piccolo ottiene risultati così ottimi a scuola, questo
vorrà pur dire qualcosa. In realtà, i suoi problemi sono
quelli di molti bambini della sua età. E odia il padre non
perché qualcuno l’abbia plagiato, ma perché è lui che ha
voluto questo processo che gli sta rovinando la vita. Solo
per questo».
La causa è arrivata per la prima volta dentro ai tribunali
nel 2004, e dopo sei anni probabilmente non è ancora finita
qui. Fra denunce e controdenunce varie, ha vissuto pure
altre condanne. Questa però è la più pesante di tutte,
perché stabilisce che il piccolo «è stato vittima di un amore
malato, che lo ha iperprotetto senza permettergli di crescere,
come i suoi compagni e i suoi coetanei». Non sappiamo
se basterà davvero «a liberare» il bambino, se quando
si alzerà in piedi riuscirà a guardare con benevolenza i
volti intontiti e sazi degli spettatori, se saprà distinguerli, e
capire che l’unica cosa che non porta l’amore è la paura. È
una verità così semplice che siamo in tanti a non saperla.

Pierangelo Sapegno