DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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La sessualizzazione dei bambini. Dobbiamo insegnare ai bambini ad essere critici nei confronti di ciò che vedono, leggono, ascoltano, navigano e “videogiocano”



In base a vari studi condotti negli Stati Uniti, la televisione, la cultura pop, le dive della musica e le riviste giovanili, tra gli altri fattori, favoriscono l'inizio precoce dell'attività sessuale delle bambine, la visione della donna come oggetto e prodotto sessuale e una certa compiacenza nei confronti della pornografia hardcore.

Negli ultimi tempi è frequente sentire i genitori che hanno figlie femmine affermare che la figlia di nove anni “da molto tempo ha abbandonato le bambole”, perché “ora le piacciono altre cose”, o che “non le piacciono più le bambole, né Minnie, né la Barbie o cose del genere. Ora è tutto un Violetta, Lady Gaga, Rihanna e quelle pazze lì”.

In un documentario del National Geographic (NatGeo) intitolato “Innocenza perduta” si affronta il tema polemico della sessualizzazione infantile, soprattutto nelle bambine, che fin da molto piccole (tra i sei e i sette anni di età) sono bombardate da tutti i fronti possibili con messaggi in cui il centro tematico è costituito dal culto del corpo, dal sesso come centro dell'esistenza umana e dal corpo femminile come oggetto e merce sessuale.

E anche i bambini non sfuggono a questi messaggi, visto che per loro ci sono sono messaggi in cui la donna fa qualsiasi cosa, sessualmente parlando, per far contento il proprio “uomo”.

Docenti di varie università degli Stati Uniti hanno dedicato anni a studiare come la cultura attuale promuova l'inizio della vita sessuale dei bambini fin da molto piccoli.

Al centro di questa cultura c'è la televisione, visto che con le sue serie, le telenovele, i reality show e il resto si è dedicata a diffondere una visione distorta e deplorevole della sessualità umana in cui l'irresponsabilità, l'idea “io voglio e posso perché è il mio corpo”, “la vita va goduta” e uomo con uomo-donna con donna-nello stesso senso e al contrario sono il pane quotidiano.

Un altro aspetto importante, sottolineano i ricercatori, è la cultura pop. Le regine, le principesse, le dive e le vagabonde del pop, con i loro corpi esposti, i loro testi e i video carichi di contenuti sessuali in cui le parti anatomiche prevalgono sulla qualità artistica, invadono costantemente i mezzi di comunicazione, soprattutto la televisione, e sono elevate alla categoria di “immortali” da canali e riviste.

Osservando casi come Lady Gaga, Miley Cyrus o Kate Perry, gli esperti affermano che il sesso è diventato l'asse dell'esistenza e la sessualità umana è stata primitivizzata, perché l'unico modo che hanno per spiccare e mostrarsi al mondo è proprio questo: mostrarsi.

L'incitamento sessuale e il doppio senso fanno parte della cultura pop attuale. Cosa si può pensare quando l'ex principessa Disney Hanna Montana, dolce, sognatrice e femminile è oggi sessuale, esplicita e pornografica? E non esagero, né sono un bacchettone o un cavernicolo, come affermano coloro che più che argomentazioni hanno offese.

Mi baso semplicemente sul senso comune: mia figlia di 10 anni che vede la sua Hanna diventata Miley Triple XXX. E i più grandi artisti, di ieri e di oggi, hanno criticato la Montana per il suo atteggiamento, che nelle parole di suo padre è far parte del “business show”.

Uno studio realizzato dall'Istituto per la Familia dell'Università di La Sabana, in cui sono stati intervistati circa 10.000 bambini e bambine di tutto il Paese, indica che l'età media alla quale le bambine colombiane iniziano l'attività sessuale è 13 anni. E tra gli aspetti che adducono sul motivo di questo atteggoamento c'è il contesto sociale e mediatico.

Genitori: ora più che mai dobbiamo essere mediatori del consumo mediatico dei nostri figli. Dobbiamo orientarli, guidarli, aiutarli, insegnare loro ad essere critici su ciò che vedono, leggono, ascoltano, navigano e videogiocano.

Le principesse Disney oggi sono stelle sessuali senza limite e rispetto, si vuole normalizzare la confusione sessuale (alcuni lo chiamano “orientamento”...); il corpo umano, soprattutto quello femminile, viene volgarizzato e mercificato come oggetto sessuale da possedere; il corpo femminile si vende sulle copertine delle riviste come i prodotti al supermercato e in libreria (alcuni lo chiamano “progressismo”...) e ai bambini viene inculcato che devono essere “potenze” sessuali di una donna che ha il suo corpo e la sua sessualità per trattenerli.

E non parliamo dei costumi da bagno per le bambine tra i 6 e i 10 anni con ripieno di spuma, o delle feste infantili nelle spa, in cui vengono truccate, pettinate e vestite perché “brillino” per i bambini che parteciperanno alla festa.

È questo il panorama, questa è la realtà. Noi genitori ed educatori abbiamo un compito enorme che ci aspetta. La sessualità è una bella dimensione della persona umana, da affrontare con rispetto, responsabilità e maturità.

E dobbiamo lasciare che i bambini siano bambini, innocenti, creativi, allegri, e non farli crescere prima del tempo.


http://www.aleteia.org/

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]


La fotomodella di 9 anni e il valore dell'infanzia. Il caso Kristina Pimenova e il tema dei “bambini adultizzati”



Kristina PimenovaK.Pimenova / Facebook

Kristina Pimenova è una fotomodella. E' stata sulla copertina di Vogue e ha prestato il suo viso angelico a stilisti del calibro di Armani, Roberto Cavalli e Dolce & Gabbana. Tutto apparentemente normale se non fosse che Kristina ha solo 9 anni, e fa la modella da quando ne ha 3.

2 milioni di followers
Inutile dire che la bambina-modella spopola anche sui social network: la sua pagina Facebook ha oltre 2 milioni di Followers e anche su Instagram, dove i fan sono 315 mila, non passa giorno senza che appaiano sue foto, professionali o “rubate” in momenti di vita quotidiana.

Critiche e preoccupazioni
Data la sua ultra esposizione "social-mediatica", il suo caso non è passato inosservato: nonostante il profilo Facebook dichiari che la bambina non posta autonomamente le foto e che i contenuti sono accuratamente filtrati e gestiti dal suo entourage non sono mancate le critiche. Soprattutto per gli atteggiamenti che la baby modella deve assumere davanti agli obbiettivi dei fotografi: sguardi intensi e pose sottilmente provocanti. C’è chi si chiede se tutto questo non le abbia tolto la spensieratezza dell’infanzia. E chi invece ipotizza che i commenti sessisti che raccolgono alcuni suoi scatti rischiano di provocare alla piccola traumi duraturi. Senza dimenticare chi affronta senza peli sulla lingua il tema della pedopornografia online: la sovra esposizione di Kristina non rischia di alimentare le pulsioni, spesso oscure, che si muovono nel web?

Tranquillità dei genitori
I genitori, però, non sembrano preoccuparsi, come dichiara la madre, Glikeriya: “Kristie ha iniziato la sua carriera a tre anni – ha scritto la donna su Facebook– ovunque andassimo la gente mi diceva che era adorabile e mi suggeriva di farle fare la modella. Ho deciso di provare e  li si è subito accorta di quanto era divertente, soprattutto le sfilate e gli spettacoli di moda. Da allora per lei è uno spasso e continua ad amare ogni minuto di ciò che fa".

Valore dell'infanzia
Il tema dei “bambini adultizzati” è sempre più all'ordine del giorno e un'interessante contributo a riguardo arriva dall'associazione spettatori AIART in un commento a conclusione dell'ultima edizione di “Ti lascio una canzone”: «“Se anche la sfida viene posta tra canzoni e non tra cantanti, rimane il triste spettacolo di “bambini  travestiti da cantanti” citando il critico televisivo Aldo Grasso e impegnati in “grottesche imitazioni degli adulti” come scritto a suo tempo da Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio sui diritti dei minori e consulente della commissione parlamentare dell’infanzia. Se i valori tipici dell’infanzia sono ingenuità e spontaneità - continua il commento - come conciliarli con una sfida all’ultimo punto di share, sotto i riflettori, guardati da tutti, criticati e giudicati, esprimendo atteggiamenti, posture e modulazioni della voce e trucco che non appartengono alla propria età? La differenza tra bambini e adulti si discioglie nel mare dell’omologazione al mondo adulto con le sue emozioni e tensioni amorose, e per uso e consumo di questo si va a caccia di audience in totale assenza di quell’aspetto ludico e rilassato così caratterizzante il mondo dei bambini.»

In fuga dall'età
«Assistiamo ad una dilagante corsa verso un’adultizzazione dell’infanzia, pari quasi alla regressione verso forme esibite di giovinezza, rincorse e ricreate artificiosamente dai cinquanta sessant’enni. Siamo in un periodo storico in cui “si è in fuga dalle età”, come spiega la presentazione dell’interessantissimo e intenso video-denuncia “Corpi bambini. Sprechi di infanzia”, realizzato dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli studi di Bologna.»

Sprechi d'infanzia
Il video denuncia il fenomeno attuale dell’adultizzazione dei bambini e delle bambine quale sintomo di incuria nei loro confronti e richiama alla responsabilitàeducativa e sociale di tutelare i loro diritti e i loro desideri, primo fra tutti quello di avere un’infanzia.

sources: ALETEIA

Quando l'Ipad adotta un bambino





54 euro, tanto costano i genitori hi-tech. E' in vendita, infatti, una poltrona per neonati sulla quale si può inserire un iPad nel grande schermo che viene a trovarsi dinanzi al bimbo. 54 euro più i costi delle applicazioni: parole, sguardi e gesti virtuali dei parents 2.0. Basta genitori in carne ed ossa dunque. Basta nevrosi, gelosie, litigate. Basta distinzioni, quelle così fastidiose che fanno tanto male ai bambini. Ecco l'Ipad, il genitore adottivo neutro come un sapone per neonati, lava via ogni differenza tra mamma e papà: con lui i bambini non dovranno più scegliere a chi volere più bene, con chi stare, a chi rivolgersi, con chi fare i capricci. E' tutto in quello schermo là davanti ai loro occhi, e colori e suoni a far battere il cuoricino senza più problemi affettivi, quelli che già Freud ci aveva avvertiti, ti distruggono una vita intera. Basta complessi di edipo, basta padri da uccidere, l'iPad accoglie nel suo abbraccio ogni neonato, senza preferenze. Bastano due occhi e due orecchie, e una mano pronta ad imparare come toccarlo. Nessun genitore, neanche quelli così trendy di ultima generazione ma irrimediabilmente di carne e sangue, possono reggere il confronto con l'iPad. E poi, quella follia di mogli sottomesse e mariti a morire per loro, qui basta una memoria flash e in un secondo tutto è ai piedi del mocciosetto. Che meraviglia. la Rivoluzione francese compiuta davanti a lui: Liberté, Égalité, Fraternité, potere del progresso... Nessuno è cool come lui.... E' la sintesi hegeliana di tesi (padre e madre) e antitesi (padre-padre o madre-madre). Surroga egregiamente compiti e ruoli. Non si innervosisce, non si stanca, è sempre presente; non ha sesso e religione, sa dire tutto e il contrario di tutto, non ha filtri e radici, è il genitore perfetto. Insomma, un amore di papà, una tenerezza di mamma. Un display e il bimbo può finalmente stare tranquillo, imparerà fin da subito il nulla che ci sta inghiottendo; apprenderà presto come ci si relaziona nel terzo millennio. Pixel colorati sono i nostri interlocutori, e in questo bimbo condannato a guardare un iPad ci possiamo specchiare tutti. Neonati perché incapaci di discernere altro che non ci sia dato già masticato e digerito. E, come lui, imprigionati in una dittatura dell'immagine e del voyeurismo che non lascia scampo: gli occhi calamitati senza posa su figure reali chissà dove, non certo qui dinanzi a me. Chi è tua moglie? E tuo figlio? E tu, chi sei? Una mano che sfiora compulsivamente un touch screen, due occhi azzannati da uno schermo, che sbirciano lo smartphon anche quando sembra riposare in una tasca. Basta un lampo, la luce che annuncia l'arrivo implacabile di un messaggio o una notifica, e tac, la mano va in automatico, lo afferra più veloce di Buffalo Bill quando prendeva le sue pistole. Siamo questo e pochissimo altro: stanchezza, nausea, solitudine e un vuoto che non sappiamo più dove andare a riempire, visto che tutto abbiamo già visto e sentito. Se, dopo il televisore, un iPad può usurpare posto e tempo di mamma e papà significa che l'uomo è già andato in frantumi. Un bambino così - tu ed io, i nostri figli e nipoti - è un aborto a cielo aperto; è l'eutanasia delle relazioni, la morte travestita di vita, il demonio che si è preso genitori e figli per gettarli nella pattumiera. Che altro potrà salvare questa generazione se non la stoltezza della predicazione, stolta nei suoi annunciatori, e stolta nel contenuto, carne e sangue offerti per riscattare ogni carne e ogni sangue liquefatti in una tomba virtuale.

 Antonello Iapicca

64.753, solo in 11 mesi, i bambini sfruttati sessualmente. La denuncia dell'Associazione Meter, da oltre 20 anni al fianco

di don Fortunato Di Noto*
Tratto dal sito ZENIT, Agenzia di notizie il 3 novembre 2010

E’ un numero – fino ad oggi – che raccoglie una triste promessa: è un debito che abbiamo tutti nei confronti di 64.753 bambini che abbiamo contato uno per uno dal 1 gennaio ad oggi (3 novembre c.a.). E’ il risultato delle segnalazioni ufficiali che abbiamo inoltrato alle autorità di Polizia di tutto il mondo.

Solo in 11 mesi. 64.753 bambini tutti depredati e sfruttati sessualmente. Violenze indicibili al limite della fantasia, dell’horror sessuale che annienta la più tenue e delicata dignità dei piccoli. Una età compresa tra i pochi giorni di vita e i 12 anni (nella loro prepubertà) età preferita dai pedocriminali, perché non possiamo dire che i pedofili non sono “criminali” che distruggono per sempre la vita dei bambini.

Fino ad oggi questo immane numero – raccolto dalla Associazione Meter onlus (www.associazionemeter.org), impegnata da sempre a tutela dell’infanzia, contro ogni forma di abuso e lo sfruttamento sessuale dei bambini sembra rimanere nel sottaciuto silenzio. Quei volti – visti uno per uno – non detenuti in nessun data base associativo, per rispetto della legge, ma segnalati alle autorità giudiziarie – chiedono giustizia. E impressiona il fatto – a quanto da noi conosciuto – che nessuno di quei bambini ha sporto denuncia, abbia avuto il modo di chiedere giustizia e il sospetto è che non sappiamo chi siano, dove siano e quale sia la loro storia.

Sono piccole storie che non possiamo far vedere – anche se sono sotto gli occhi di tutti. E’ il racconto del dolore di tante storie di sfruttamento: ogni fotogramma, ogni video denunciato è l’impressionante racconto di un corpo innocente reso merce, oggetto dell’oggetto del desiderio di sfruttamento sessuale. Perversione assoluta di un male assoluto che incide nella vita per sempre.

64.753 silenziose vittime. Per questo abnorme fenomeno che coinvolge i bambini, non dovremmo mai contrapporci; ma nella ricerca della verità, della giustizia e della riparazione del danno e aggiungo della riconciliazione sociale e spirituale, tutti dovremmo impegnarci non solo per dare voce e sostegno, o migliorare le leggi e farle applicare in tutti i Paesi del mondo, ma anche per promuovere una rinnovata educazione. E se su 64.753 vittime, poi qualcuna ci scrive, raccontando la sua storia e ringraziandoci per il sostegno allora abbiamo raggiunto ciò che desideravamo: esiste ancora, non perché sopravvissuta, ma perché riamata di un amore vero.

Una vittima abusata – che mi contattò via chat attraverso un rinomato social network – mi disse che era una di quelle bambine anonime e che a causa dell’abuso non riusciva più a parlare: il demone dell’abuso le aveva tolto anche la parola. Ebbene solo lì riusciva a comunicare con me – sacerdote, della Chiesa che è impegnata a contrastare gli abusi con fermezza e decisione – a raccontare la sua devastante storia. Ci siamo incontrati di persona e mi commuove il fatto che mi disse: “solo con te ho riacquistato la parola e ho parlato”. Segno questo che non bisogna tacere, segno visibile che è possibile dare un nome e cognome al dramma di 64.753 vittime.

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*Don Fortunato Di Noto è fondatore e presidente dell'Associazione Meter onlus.

CINA. Massacri di bambini: la gente si chiede perché

Sono quasi tutte persone “normali” gli autori degli omicidi di bambini nelle scuole. Mentre i controlli della polizia si rivelano insufficienti, esperti dicono con chiarezza che gli omicidi spesso sono persone alle quali una società iniqua ha tolto anche la speranza nel futuro.

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Nulla faceva presagire la violenza, quando ieri mattina alle 8,20 Wu Huanming, si è presentato all’ingresso dell’asilo Shengshui Temple e ha accoltellato i bambini presenti, la proprietaria dell’istituto e sua madre, nel villaggio rurale di Linchang, contea di Nanzheng, nel settentrionale Shaanxi. Nel’impotenza della polizia di prevenire simili gesti, la popolazione assiste attonita al sesto pluriomicidio di bambini in 2 mesi e si chiede impotente le ragioni di questa ondata omicida contro i più deboli.

Wu, proprietario di un palazzo di due piani, voleva che l’adiacente asilo andasse via lo scorso aprile quando è scaduto l’affitto, mentre la titolare dell’asilo intendeva continuare l’attività almeno fino all’estate. Per questo c’erano state discussioni, ma –dicono i residenti del villaggio- nulla che facesse presagire la violenza.

E’ il 6° attacco da marzo, sempre contro bambini piccoli di scuole con 16 morti e circa 70 feriti, sempre con l’assassinio di più scolari sconosciuti all’omicida.

Il ministro della Pubblica sicurezza continua a invocare e promettere strette misure di sicurezza e una attenta campagna di prevenzione. La polizia opera sempre più arresti di persone “sospette”, secondo quanto riportano i media. Ma la sorveglianza rimane inadeguata, anche perché la polizia sorveglia soprattutto le scuole pubbliche mentre quelle private, come l’asilo Shengshui, devono pagarsi la sorveglianza e spesso rimangono senza protezione.

Ma la gente chiede ora di capire questa ondata di violenza, con massacri di bambini compiuti contro scuole qualsiasi, in città piccole e medie da cittadini normali, per lo più uomini di mezza età, che spesso poi si suicidano.

Il professore Yu Jianrong dell’Accademia cinese per le Scienze sociali (Acss) commenta al South China Morning Post che questi fatti dimostrano la crescente disperazione nella società cinese. Osserva che “gli omicidi sanno che moriranno e non vedono speranze per il futuro. Non posso dire che costoro siano tutti gente povera. Ma non avere speranze in una società polarizzata è un problema molto grave”.

In una società che loda solo il successo economico e dove la giustizia segue le indicazioni del potere politico, gli insuccessi personali e le gravi sopraffazioni del potere possono causare simili gesti estremi di disperazione.

Anche Xu Youyu, pure studioso dell’Acss, concorda che questa violenza sia esito della disperazione sempre più diffusa tra le persone “sottoprivilegiate” e vittima della crescente e istituzionalizzata ingiustizia sociale. Dice che “questi omicidi mostrano che il valore della vita umana non è rispettato [dagli assassini] e le [loro] percezioni sono distorte”.

Il professore Hu Xingdou punta il dito su decenni di ideologia comunista e di critica dei concetti umanistici, che “hanno giustificato la violenza nella lotta di classe” e svilito il valore della persona.

«Viaggia su Internet l’allarme pedofilia» Dati preoccupanti delle associazioni: un giro d’affari di 4 miliardi di dollari

DA MILANO VIVIANA DALOISO

U
n altissimo numero di casi non denunciati. Un abuso che trova il suo habitat naturale online, do­ve si trasforma anche in un giro di affari stimato in oltre 4 miliardi di dollari. E poi in famiglia, dove troppo spesso i padri sono i 'carnefici' dei figli e dove in ge­nerale manca consapevolezza e capacità di gestire l’emergenza degli abusi.

Nella seconda Giornata nazionale contro la pedofilia, che si è celebrata ieri, sono molti i dati allarmanti emersi sul feno­meno. A partire dal dossier diffuso da Te­lefono Azzurro, che ha preso in esame tutti i contatti e le richieste di aiuto rice­vute dal gennaio 2008 al marzo 2010 e in base al quale gli abusi sessuali sui mino­ri rappresentano il 4% di tutti i maltrat­tamenti sui bambini. Non pochi, se si considera che la percentuale in questio­ne è quella «contata» dagli operatori, dunque relativa ai soli casi che arrivano ad essere denunciati.

Ma c’è molto di più, nel bilancio fatto del­l’associazione. Secondo cui, per esem­pio, l’infanzia abusata in Italia non è af­fatto quella emarginata e degradata ed è l’ambito familiare quello in cui si consu­mano con più frequenza le violenze. Qui il presunto responsabile nel 29,4% dei casi è il padre, oppure un altro parente (13,5%), o ancora un amico o conoscen­te (12,9%). Le segnalazioni relative a mo­lestie subite da parte di insegnanti o e­ducatori sono state l’8,8% e quelle rela­tive ad abusi commessi da religiosi l’1,2%. Altro dato allarmante, quello sull’età dei bambini: il 60% di quelli che hanno subì­to abusi sessuali non hanno ancora com­piuto i 12 anni. E se sono soprattutto le
bambine e le adolescenti le principali vit­time di abusi sessuali (si tratta del 66% dei casi), tuttavia una segnalazione su tre ri­guarda minorenni maschi.

Capitolo a se stante merita poi l’'am­biente' della Rete. È proprio relativa­mente al Web che emerge infatti la per­centuale più elevata di segnalazioni, qua­si la totalità del campione: si riferisce a si­ti Web l’86,5% di queste ultime. Numeri tanto più pesanti quando si incrociano con quelli registrati e presentati sempre ieri dal Moige (il Movimento italiani ge­nitori) e dalla Microsoft. Il primo ha svol­to un’indagine nel corso dell’aprile scor­so tra i genitori con figli di età compresa tra i 5 e i 15 anni: secondo la ricerca, ol­tre il 40% non si ritengono sufficiente­mente informati e preparati per affron­tare l’emergenza, soprattutto relativa­mente ai nuovi mezzi di comunicazione e a Internet, mentre solo 2 genitori su 10 affiancano i propri figli nella navigazio­ne. E cattive notizie sono arrivate anche dai dati registrati da Microsoft Italia, se­condo cui sul Web il 26% dei ragazzi con­divide il proprio indirizzo di casa, il 56% indica il nome della propria scuola, il 76% si scambia foto e video anche di amici e il 59% l’indirizzo di posta elettronica.

Una legame, quello tra la Rete e la pedo­filia, su cui ieri non a caso sono tornati con forza tutti i rappresentanti delle isti­tuzioni, dal ministro per le Pari oppor­tunità Mara Carfagna al presidente del Senato Renato Schifani e della Camera Gianfranco Fini sino al direttore della po­lizia postale e delle telecomunicazioni Antonio Apruzzese: tutti concordi nel sottolineare la necessità di interventi sempre più attenti e mirati sul Web e sul­le
sue insidie.


«Informiamo i ragazzi sui rischi»

Il Garante per la privacy: adulti e istituzioni insieme per insegnare agli adolescenti a serbare i propri dati personali sul Web



DA MILANO


U
n mondo parallelo, dove co­me in quello reale si commet­tono anche reati. Ma dove mancano ancora regole, garanzie, consapevolezza degli utenti. Così In­ternet si è trasformato nell’ambiente più a rischio per i minori secondo il il presidente dell’Autorità garante per la privacy, Francesco Pizzetti. Che pro­pone una ricetta.

Internet e pedofilia, un bi­nomio così inscindibile?


Senz’altro una realtà di cui prendere atto. La Rete è or­mai un mondo a se stante, con le sue regole, le sue modalità, i suoi abitanti. E mentre gli adulti sono co­
me 'immigrati' in questo pianeta, i ra­gazzi vi sono nati. Il problema è pro­prio questa distanza.

Che vede gli adulti incapaci di infor­mare i minori sui rischi del Web?


Non solo. Sicuramente il fenomeno della pedofilia si sta espandendo on­line per questo problema di mancan­za di informazione: nei ragazzi, che troppo spesso lasciano con leggerez­za i propri dati online rendendosi vul­nerabili nella realtà; e nei genitori, che non sanno metterli in guardia. Ma c’è anche un nodo a monte.


Quale?


Quello dell’impossibilità di individua­re l’età di chi sta di fronte a un com­puter. Mentre in ogni società esiste – con differenze specifiche, di cultura in cultura – uno spartiacque tra mino­renni
e maggiorenni, tra le responsa­bilità, i diritti e i doveri che una perso­na acquisisce dopo la maggiore età e che prima non ha, su Internet questo 'paletto' non esiste. È così che i nostri figli diventano facili bersagli.

Esiste una ricetta?


Informare i minori sull’importanza che hanno i loro dati e su come 'di­fenderli', proteggerli dal Web: l’Autho­rity ha distribuito nelle scuole e attra­verso gli uffici postali un vademecum proprio a questo proposito. E poi in­crociare le competenze sociologiche, semantiche e tecnologiche a livello di istituzioni e di associazioni per accer­tarsi con sempre maggior chiarezza di chi sta dall’altra parte del pc senza li­mitare la libertà di comunicazione.


Viviana Daloiso




© Copyright Avvenire 6 maggio 2010

IL BAMBINO IMMAGINARIO. Ora è figlio del desiderio, del privato, dell’uguaglianza. Cronaca dell’ultima utopia politica

di Marcel Gauchet
Pubblichiamo alcuni stralci del
saggio “Se vogliamo crescere un
bambino immaginario” pubblicato
sul numero del mensile Vita e Pensiero
in uscita il 5 maggio.
Ellen Key, in un libro del 1900 che
fece molto scalpore, profetizzò
che il XX secolo sarebbe stato “Il secolo
dei fanciulli”. La profezia, probabilmente,
si è avverata al di là di quello
che lei stessa poteva immaginare.
La tendenza si è approfondita, a tal
punto che l’inizio del nostro XXI secolo
si annuncia con gli stessi auspici,
addirittura rafforzati. (…) se il XX secolo
è stato quello della scoperta del
bambino reale, il XXI si apre nel segno
della “sacralizzazione del bambino
immaginario”. La situazione attuale
ci offre l’esempio di una crisi delle
rappresentazioni collettive e di una
multiforme mistificazione dell’infanzia
che finisce per rappresentare un
notevole ostacolo per l’impresa educativa.
E’ in funzione di questa preoccupazione
che mi sforzerò di circoscrivere
i contorni e di interrogare la
genesi di queste immagini tanto potenti
da divenire tiranniche. (…) si
tratta di mettere in luce ciò che, in
questo immaginario sociale dell’infanzia,
fa da schermo alla realtà dell’esperienza
infantile, visto che è proprio
questo l’elemento che abbiamo
perso di vista. (…)
All’interno di un quadro così definito,
non è necessaria la dettagliata ricostruzione
di ciò che ha significato la
scoperta del bambino reale; scoperta
della quale il XX secolo merita di essere
accreditato. La si può riassumere
in tre parole, nei nomi delle tre discipline
divenuteci ormai così familiari
da farci dimenticare la novità che rappresentarono:
pediatria, psicologia,
psicoanalisi. Ciascuna a modo suo,
hanno tutte rivoluzionato la nostra
precedente visione dell’infanzia e della
vita concreta dei bambini. (…) Siamo
ormai così abituati a considerare
la morte di un bambino come uno
scandalo che non ci ricordiamo più fino
a che punto, ancora solo un secolo
fa, fosse considerata una cosa banale.
Dobbiamo alla medicina pediatrica,
grazie al controllo della mortalità infantile,
l’essere riuscita a completare
la transizione demografica. Il bambino
è così divenuto un essere per la vita,
invece di rimanere, com’era sempre
stato, quell’essere sospeso tra la
vita e la morte in quel tempo di prova
che l’infanzia rappresentava prima di
ogni altra cosa. Si trattava di sapere se
sarebbe sopravvissuto; si tratta oggi di
prepararlo a una esistenza data come
certa (…). Insieme al superamento della
precarietà vitale, che appariva come
l’elemento irrinunciabile delle fasi
iniziali dell’esistenza, nel XX secolo,
grazie alla psicologia, si è assistito
alla specificazione scientifica della
genesi del processo intellettivo e delle
sue tappe. Non consideriamo mai
abbastanza quanto questa scoperta
abbia fornito prestigio alla pedagogia,
disciplina che fino a quel momento
non si sapeva bene se considerare empirica,
speculativa o, all’occorrenza,
semplicemente utopica. Ha cambiato
statuto, radicandosi nella conoscenza
positiva della “differenza” del bambino
e fornendo una solida base alla tecnica
che avrebbe assicurato i progressi
del suo sviluppo cognitivo. Alla psicoanalisi,
infine, dobbiamo l’avere
svelato, accanto a questa genesi cognitiva,
lo sviluppo psichico e affettivo
del bambino in tutti i suoi stadi. Si
può anche discutere il contenuto della
ricostruzione proposta da Freud e
dai suoi discepoli; ciò non toglie che il
principio stesso della genesi soggettiva
sia ormai un dato indiscutibile.
Questo vale a maggior ragione per l’altra
scoperta prodotta dal metodo psicoanalitico,
quella dell’impronta indelebile
lasciata da tale genesi sulla personalità
adulta. (…) La nostra infanzia
resta in noi per sempre e, con le sue
metamorfosi, le sue esperienze e i
suoi traumi, ci accompagna indefettibilmente.
E’ senza dubbio l’elemento
più importante tra quelli introdotti
dalla psicoanalisi, l’irreversibile cambiamento
nel nostro sguardo: la dimensione
infantile è divenuta una dimensione
costitutiva dell’umano in generale,
e rispetto alla quale nessuno
può credere di potersi affrancare.
Questa riconsiderazione del posto
della dimensione infantile nell’umano
mi sembra, in ogni caso, il punto di riferimento
implicito intorno al quale
negli ultimi anni lo scenario è cambiato.
Il diffuso, ma potente, riconoscimento
dell’infanzia in ciascuno di noi
ha finito per rappresentare il vettore
di una mitizzazione dell’infanzia. E’
possibile definire tutto ciò come un vero
e proprio rovesciamento copernicano.
Per molto tempo, com’è noto, gli
adulti non hanno “visto” i bambini, nel
senso che non li vedevano come tali e
in quanto tali. Non cercavano di conoscerli
nella loro differenza, considerata
come non significativa in virtù del
fatto che il punto di riferimento continuava
a essere la compiuta umanità
dell’adulto. Bastava aspettare, preparando
al meglio quel pieno raggiungimento
della verità della condizione
umana. (…) Un luogo immaginario:
questo, dunque, il posto del bambino.
Ma anche una volta acquisita, nel XX
secolo, la scoperta dell’infanzia, anche
una volta riconosciuta la sua specificità,
il bambino restava ciò da cui era
compito dell’adulto emanciparsi. (…)
Oggi è possibile affermare che gli
adulti si vedono attraverso i bambini;
si proiettano in loro, in funzione della
loro differenza riconosciuta, addirittura
sottolineata, esaltata, ma letta attraverso
un prisma che, non per questo,
lascia necessariamente spazio alla verità
di questa differenza. Al punto di
arrivo non è certo che i bambini ci abbiano
davvero guadagnato da questo
allucinato sovrainvestimento, da questa
regalità immaginaria alla quale sono
stati promossi, senza che con questo
si vogliano sottostimare gli immensi
miglioramenti dei quali ha beneficiato
la loro esistenza. Quello che mi
sembra certo, in ogni caso, è che la visione
adulta dell’infanzia ormai affermatasi,
a causa dell’incomprensione
che produce, costituisce un ostacolo
epistemologico e pratico all’impresa
educativa. (…) Questo nuovo essere
mitologico è nello stesso tempo un figlio
del desiderio, del privato, dell’uguaglianza,
un figlio come ideale del
sé e come utopia politica.
1. Il bambino immaginario figlio del
desiderio. Esso è innanzitutto il prodotto
di quella rivoluzione ben conosciuta,
ma le cui conseguenze antropologiche
devono ancora essere tirate e
meditate, che consiste nel controllo
della procreazione. Una frattura incalcolabile
nella storia della condizione
umana. (…) Il bambino è diventato
un figlio del desiderio, del desiderio
di un figlio. Era un dono della natura
o il frutto della vita attraverso di noi,
certo, ma senza di noi o malgrado noi.
D’ora in poi non potrà che essere il risultato
di una volontà espressa, di una
programmazione, di un progetto. (…)
Questa situazione ha facilitato quella
che possiamo definire l’appropriazione
dell’infanzia da parte degli adulti.
I bambini sono oggi figli dei loro genitori
a un livello senza precedenti, sono
l’emanazione del loro essere più
intimo, con le implicazioni di ogni genere
che questo comporta.
2. Il bambino immaginario figlio
del privato. La valorizzazione di questo
figlio del desiderio si accompagna
alla valorizzazione della sfera privata;
si lega alla rivoluzione della famiglia.
Il figlio del desiderio è il simbolo
vivente della trasformazione dei legami
familiari. Nel quadro della vecchia
famiglia-istituzione, dedita alla
funzione sociale della perpetuazione
del lignaggio, la famiglia faceva il
bambino; nel quadro delle nuove famiglie
affettive, che trovano la loro
giustificazione nella ricerca emotiva
dei loro membri, è il bambino che fa
la famiglia. Precisiamo: è la presenza
di un figlio che la consacra come ambito
sociale distinto, dedito alla realizzazione
di valori specifici che, rispetto
alla sfera pubblica, non sono
solo distinti, ma preminenti – valori
che, in quanto portatori della realizzazione
personale, sono opponibili a
quelli della sfera pubblica. Di qui tutta
una serie di pressioni che, in nome
dei propri valori, le famiglie operano
sulla scuola, della quale tendono a rifiutare
la dimensione istituzionale
perché considerata responsabile di
un’impersonalità alienante. (…)
3. Il bambino immaginario figlio
dell’uguaglianza. Il figlio del desiderio,
chiamato a realizzarsi nel quadro
della famiglia privata, è un bambinopersona,
un bambino riconosciuto nella
sua integrale individualità. Di più,
per attribuire al fenomeno la sua reale
portata, è necessario definirlo come
un bambino dell’uguaglianza. In effetti,
è il prodotto del parallelo compiersi
di quella rivoluzione di cui Tocqueville
ha colto il principio, con il nome
più adeguato di uguaglianza delle
condizioni, e che, a dispetto della sua
ammirevole preveggenza, non immaginava
certo che si sarebbe spinta così
lontano. Il cuore di questa rivoluzione
sta nel principio di somiglianza,
nella similitudine d’essenza tra gli esseri,
al di là di quali siano le differenze
di superficie che presentano – differenze
relative alle loro funzioni, alle
loro posizioni o condizioni sociali,
ma anche differenze di sesso e d’età.
(…) L’integrazione delle donne, dei
giovani e poi dei bambini nel cerchio
dell’individualità: questa la trasformazione
capitale all’origine dell’integrale
realizzazione della società degli individui.
Nel caso del bambino, tale individualità
ha la particolarità di aver
bisogno degli adulti per esistere. Ma,
a quanto pare, poco importa: lungi
dall’essere un ostacolo, questa necessità
sembra essere un incoraggiamento
ad accordargli un tale status. (…) Da
questo punto di vista il bambino è paradigmatico:
rappresenta quell’individuo
che è necessario volere come tale
per farlo esistere. Niente di più notevole
e significativo, in questo senso,
degli sforzi prodotti in tutte le direzioni
per incoraggiare la sua autonomia.
In compenso, questa posizione strategica
nell’immaginario sociale non è
necessariamente la migliore consigliera
per chiarire la realtà della condizione
infantile, che si tratti di prendere
in considerazione ciò che distingue
il bambino dalla persona, intesa
nel rigore del termine, o che si tratti
del giusto apprezzamento delle vie
grazie alle quali si accede per davvero
all’autonomia. Il bambino può essere
una persona dal punto di vista del
riconoscimento sociale, questo non significa
che abbia gli strumenti cognitivi
per agire come una persona (…).
La finta attribuzione di un’autonomia
astratta rappresenta un ostacolo all’acquisizione
dei mezzi reali per raggiungerla.
Se c’è oggi una questione
aperta per la filosofia dell’educazione,
è proprio questa: cos’è l’autonomia,
cosa significa divenire autonomi,
e a quali condizioni? (…) si tratta di
concepire nel bambino un’umanità allo
stesso tempo pienamente costituita
e tuttavia ancora da definire.
4. Il bambino immaginario come
ideale del sé. (…) Nelle nostre società
si parla di continuazione di “giovanilismo”,
dell’ossessione di “restare giovani”
che abita gli adulti. Quello che
però, forse, non si è sufficientemente
analizzato è il contenuto di questo
ideale del giovane, figura immaginaria
ma dalle incidenze affatto reali. A
me sembra definito dalla combinazione
tra l’indipendenza adulta e uno
spirito infantile. Esattamente ciò che
ne fa un ideale culturale. Sul versante
negativo, questa promozione dello
spirito infantile va considerata insieme
alla doppia decostruzione delle figure
della maturità e della virilità.
Con la ridefinizione delle età della vita,
emergono motivi del discredito
della maturità in quanto ideale. (…)
Laddove le società aristocratiche, per
esprimerci come Tocqueville, tendevano
a rafforzare l’espressione delle
differenze naturali, come quella che
separa l’adulto dal bambino, le società
ugualitarie tendono a cancellarle.
L’immagine del maschio costruita
dalla presa di distanza dall’età puerile
non va più di moda. Sul versante
positivo, questa infanzia ideale senza
grandi punti di contatto con l’infanzia
reale risulta essere una miscela dalle
diverse componenti, le une più vecchie
e riattivate con significati nuovi,
le altre del tutto nuove. Ecco allora
che abbiamo assistito al riemergere di
un’immagine antica, l’innocenza infantile,
la cui esatta consistenza, in
questo nuovo utilizzo, andrebbe decifrata.
Ha rianimato l’orrifico fantasma
di una pedofilia onnipresente, riattivando
nuovi processi alle streghe. Il
fenomeno non può non sorprenderci:
assistiamo, contrariamente a quanto
ci aveva insegnato la psicoanalisi, a
una desessualizzazione dell’infanzia.
(…) In ogni caso quello che emerge è
che, nel nostro mondo, si può dire tutto
tranne che quello della sessualità
sia un problema risolto. Ma c’è un’immagine
nuova che sembra giocare un
ruolo determinante in questa valorizzazione
dell’infanzia. (…) Se il nostro
principale dovere è quello di essere
costantemente in sintonia con il nostro
io più profondo, a dispetto dei codici
artificiali che la vita sociale ci impone,
allora è necessario che esista da
qualche parte un modo per manifestare
questa vera identità. In questo campo
il bambino è un maestro, lui che,
nella sua fragilità, conserva un contatto
immediato con l’essenziale. E ancora,
il bambino rappresenta più di tutto
l’accordo diretto e completo con il
proprio io, all’opposto delle lacerazioni
e dei conflitti dell’età adulta. In
questo senso incarna la figura della
felicità possibile. E’ per questa ragione
che i genitori desiderano così fortemente
che i loro figli siano felici qui
e ora, per la paura che la loro vita futura
possa risentirne. (…)
5. Il bambino immaginario come
utopia politica. Per finire, l’infanzia è
divenuta la nostra ultima utopia politica,
in un mondo dove quest’ultima
non ha più manifestamente un posto.
E’ investita, né più né meno, che della
nostra ultima speranza di vedere realizzato
un mondo diverso da quello
che conosciamo. (…) nel contesto di
crisi dell’avvenire installatosi a partire
dagli anni Settanta, l’avvenire è divenuto
qualcosa di irrappresentabile,
e l’infanzia ha finito per assorbirne
tutto l’immaginario. Si è progressivamente
imposta come l’unico canale
concepibile per le nostre proiezioni in
avanti: non possiamo che passare per
il suo tramite, solo grazie a lei siamo
ancora in grado di rendere concreto
un percorso in direzione del futuro.
Mi si potrebbe obiettare che le utopie
del passato non si preoccupavano un
granché dei bambini. Generalmente
contenevano un aspetto educativo,
spesso importante, ma è di un’altra cosa
che parliamo qui: è il bambino stesso,
e solo lui, che diviene il vettore
dell’utopia, il supporto esclusivo di un
progetto di differenza del futuro; un
futuro cui, del resto, è impossibile attribuire
un contenuto. Il bambino
compare nell’utopia, è in quanto tale
l’utopia. A questo bisogna aggiungere,
ed è un’altra significativa originalità
rispetto al passato, che lo diviene in
un modo implicito di cui gli attori sono
appena consapevoli, un elemento
che non impedisce all’utopia di cui è
investito di essere pregante, per quanto
indistinta possa restare. Se, come
giusto, si cerca di decifrarla, mi sembra
che la si possa ricondurre all’utopia
di una società di individui integralmente
realizzati. Che significa, da
una parte, un universo di individui
che scoprono se stessi da soli, per autocostruzione,
al di fuori di qualsiasi
pressione o vincolo sociale; dall’altra,
una modalità di coesistenza senza violenza,
dove ogni individuo è sufficientemente
realizzato in se stesso da poter
accettare la differenza degli altri.
Sia chiaro, quest’utopia che non si pone
come tale e che non è consapevolmente
rivendicata dagli attori in gioco,
nondimeno riveste un ruolo determinante
nel forgiare una certa idea di
educazione. Rappresenta la guida suprema
per le aspettative e le inclinazioni
collettive. Noi non ce ne rendiamo
nemmeno conto, ma riguardo al
mondo che vorremmo veder realizzato
è proprio ciò che ci aspettiamo dall’educazione
a condizionare il nostro
modo di pensare e di agire.


Gauchet

Gauchet, storico, filosofo e
sociologo nato in Francia nel 1946, è
direttore di studi all’École des Hautes
Études en Sciences Sociales di Parigi
e direttore della rivista Le Débat. E’
autore de “Il disincanto del mondo”
(1985; tradotto in italiano nel 1992 da
Einaudi), un classico del pensiero politico
francese. Tra gli altri suoi libri
ricordiamo: “L’inconscio cerebrale”
(1994, Il nuovo Melangolo); “La democrazia
contro se stessa” (2005, Città
Aperta); “Il religioso dopo la religione”
(con Luc Ferry, 2005, Ipermedium);
“Un mondo disincantato? Tra
laicismo e riflusso clericale” (2008) e
“La religione nella democrazia”
(2009), entrambi pubblicati da Dedalo.
Per le edizioni Vita e Pensiero è in
uscita un nuovo volume, “Il figlio immaginario”,
del quale il saggio riprodotto
in queste pagine anticipa i temi.

© Copyright Il Foglio 1 maggio 2010

USA/ Le adozioni dei Vip sono il modo migliore per aiutare i bambini?

venerdì 3 luglio 2009

Madonna ha vinto recentemente presso la Corte di appello del Malawi la causa per l’adozione di una bambina di tre anni, il secondo bambino da lei adottato in questo paese. Il padre della bambina, James Kambewa, ha contestato l’adozione e protestato perché, afferma, la sua povertà gli impedisce di ottenere giustizia. In un precedente giudizio, la Corte aveva respinto l’adozione per un problema burocratico di residenza di Madonna.

Anche la prima adozione è stata difficile per Madonna, sia per l’opposizione del padre del bambino, sia ancora per problemi di residenza, perché la legge prevede che la famiglia adottante risieda nel paese per almeno 18 mesi. Questa regola, nel caso di Madonna, è stata cancellata in entrambi i casi. Circa le sue intenzioni, Madonna ha fatto questa dichiarazione: «Dopo che ho saputo che vi sono più di un milione di orfani in Malawi, mi è venuto il desiderio di aprire la nostra casa e di aiutare uno di questi bambini a sfuggire a una vita di estrema durezza, povertà e in molti casi di morte, e al contempo di allargare la nostra famiglia». Madonna ha anche costituito un ente di assistenza per gli orfani del Malawi, cui ha contribuito con milioni di dollari.

Quello di Madonna è solo l’ultimo caso di genitori celebri che ricorrono alla adozione internazionale. Josephine Baker fu l’antesignana con la sua “tribù arcobaleno” negli anni Cinquanta e Mia Farrow adottò, tra l’80 e il’90, dieci bambini da paesi stranieri, di cui il primo fu un orfano di guerra del Vietnam. Recentemente, Meg Ryan ha adottato una bambina cinese e Mary-Louise Parker, attrice single, un bambino africano, mentre Ewan McGregor e sua moglie Eve una bambina di quattro anni dalla Mongolia. La più famosa coppia in questo ambito è rappresentata da Angelina Jolie e Brad Pitt, che hanno bambini provenienti dalla Cambogia, Etiopia e Vietnam.


Secondo Robin Givhan del Washington Post, queste adozioni di alto profilo possono far sembrare i bambini dei “souvenir esotici”, ma occorre dire a loro merito, che molte di queste star sono coinvolte in cause globali. Per esempio, Mia Farrow è stata una ambasciatrice dell’Unicef e più recentemente si è mossa a favore della pace nel Darfur; Angelina Jolie collabora con l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati e ha donato 3 milioni di dollari a questa organizzazione.


In un recente articolo su Foreign Policy, E.J. Graff mette in discussione il possibile aspetto di strumentalizzazione delle adozioni internazionali, in un momento in cui la richiesta per adozioni è in forte aumento negli Stati Uniti, con i genitori potenziali disposti a pagare fino a 35.000 dollari per bambino. Vi sono anche «prove che in molti paesi i bambini sono sistematicamente comprati o rubati alle loro famiglie di nascita», tanto che alcuni paesi hanno sospeso le adozioni, almeno temporaneamente. All’inizio, le adozioni internazionali rappresentavano una misura di emergenza per le zone di guerra, ma attualmente il fenomeno è trainato dalla “domanda”, a sentire Kelley McCreery Bunkers , già consulente dell’Unicef in Guatemala.


Nel 2007, operatori dell’agenzia di adozioni francese L'Arche de Zoé sono stati accusati di frode dopo aver tentato di prendere orfani dal Sudan per darli in adozione a famiglie europee, che avevano pagato migliaia di dollari in anticipo. I bambini erano prevalentemente originari del Ciad, non erano in una situazione di bisogno immediato e avevano dei parenti. Il Ciad e il Darfur non consentono adozioni, in quanto i bambini sono per tradizione accolti in casa di parenti dopo la morte dei genitori.


L’associazione SOS Children's Villages del Canada ha rilasciato una dichiarazione dello stesso tenore sulla pendente adozione da parte di Madonna: «Siamo convinti che il posto migliore per i 145 milioni di orfani che vi sono nel mondo sia presso famiglie del loro paese. L’ideale è che siano allevati dalla loro famiglia allargata all’interno del loro contesto culturale. Quando questo sia impossibile, organizzazioni come la nostra cercano di procurare loro un ambiente famigliare culturalmente adeguato. L’obiettivo di SOS Children's Villages è in primo luogo di evitare che i bambini diventino orfani o vengano abbandonati. I genitori che devono affrontare crisi e povertà spesso non hanno le risorse e le capacità per curare i propri figli e il nostro programma di aiuto alle famiglie cerca proprio di potenziare le loro possibilità».


Meno conosciuto è il fatto che il regista Steven Spielberg e sua moglie hanno adottato due ragazzi afroamericani di qui e sono impegnati nello sforzo di trovare famiglie per le decine di migliaia di bambini assistiti dagli orfanotrofi di Los Angeles. Mezzo milione di bambini è attualmente affidato all’assistenza, il 20% in attesa di essere adottato, e con un terzo di neri.

La situazione di questi bambini è molto difficile, anche perché molti vengono maltrattati e non assistiti adeguatamente, nonostante le sovvenzioni dello Stato e, di solito, ci vogliono da tre a cinque anni prima che un bambino venga accolto stabilmente da una famiglia. Tra un terzo e la metà di quelli che escono all’età di 18 anni da questi enti di assistenza finisce per strada nel giro di due anni. Inoltre, si sta diffondendo la preoccupazione che le adozioni siano spinte più dal desiderio di coppie benestanti di formare la propria famiglia, e non innanzitutto dal bisogno dei bambini orfani o abbandonati di avere una famiglia cui appartenere.



© Copyright Il Sussidiario

ABBANDONO, CRIMINI, ABUSI QUEI CENTOMILA FIGLI VIOLATI DEL GIGANTE RUSSO

LUIGI GENINAZZI

C’
è una Russia che giorno dopo giorno accresce il suo prestigio e la sua influenza sulla base di un im­perialismo energetico senza confini, dall’Unione Europea all’America Lati­na. È l’immagine di nuova superpo­tenza che è stata rilanciata anche in questi ultimi giorni, nel corso del ver­tice informale tra i premier Putin e Ber­lusconi svoltosi all’insegna di mega­progetti e di contratti miliardari. Ma c’è un’altra Russia che solitamente non fa notizia e contraddice in modo clamo­roso alle ambizioni e ai sogni di gran­dezza dei dirigenti moscoviti. Ricca di risorse naturali la Federazione russa manca drammaticamente di risorse u­mane. È una debolezza strutturale che colpisce al cuore questo grande Paese, gigante dai piedi d’argilla.
Se si vanno a leggere le statistiche su famiglia, natalità e condizioni dell’in­fanzia si ha l’impressione di veri e pro­pri bollettini di guerra. La struttura fa­miliare già in forte crisi, anche se ma­scherata, nel periodo sovietico, si è let­teralmente disintegrata negli anni del­la caotica transizione al capitalismo, segnando il boom di divorzi e aborti e il crollo esponenziale della natalità. Dei 150 milioni di abitanti censiti nel 1991 si è passati a 142 milioni nel 2008.
Il governo ha cercato, tardivamente, di correre ai ripari aumentando i sussidi familiari e raddoppiando il bonus per il se­condo figlio fino a 300 mila rubli (oltre 7 mila eu­ro). In questo modo nel 2009, per la prima vol­ta dalla fine dell’Unione So­vietica, il tasso di natalità ha supe­rato quello di mortalità (un incremento dovuto so­prattutto alle famiglie degli immigra­ti). Ma le previsioni continuano a esse­re negative, anche perché la speranza di vita in Russia è allo stesso livello del Bangladesh (61 anni per i maschi). Ai ritmi attuali, si calcola che nel 2025 la Federazione Russa scenderà a 130 mi­lioni d’abitanti e toccherà quota 100 milioni nel 2050.
Ma c’è qualcosa che è ancor più grave della catastrofe demografica ed è la di­sastrosa condizione dell’infanzia. Se­condo quanto ha dichiarato alla Duma il capo della commissione parlamen­tare per la famiglia, in Russia ci sono più 'orfani' oggi che non durante la Seconda Guerra Mondiale. In realtà si tratta, per la maggior parte, di bambi­ni abbandonati e lasciati al loro desti­no. Spesso abbandonati due volte: pri­ma dai genitori biologici e poi da quel­li adottivi. Un tempo c’erano gli 'In­ternat', i famigerati istituti sovietici do­ve venivano rinchiusi gli orfani e i ra­gazzi sbandati. Si trattava di orribili la­ger per l’infanzia che, giustamente, vennero chiusi all’inizio degli anni No­vanta. Ma nella Russia dominata dal capitalismo selvaggio nessuno si preoc­cupò della loro sorte. Rigettati o in fu­ga dalle famiglie migliaia di bambini sono sprofondati nel girone infernale di droga, prostituzione, furti e omicidi, spesso comprati e usati dalla mafia.
Cose ormai note, si dirà. Ma il reporta­ge che pubblichiamo a pagina 6 ci di­ce che in vent’anni le cose sostanzial­mente non sono cambiate. E questa è certamente una notizia. Una bruttissi­ma notizia, come quella che è stata da­ta dal commissario di Mosca per i di­ritti dell’infanzia, Pavel Astakhov, se­condo cui, solo l’anno scorso, in Rus­sia oltre 100 mila bambini sono stati vittime di sorprusi, violenze e abusi ses­suali. «Aituare e rivalutare la famiglia» è la nuova parola d’ordine del Cremli­no che ha messo a punto un piano per il rilancio demografico della Russia.
Meglio tardi che mai.

© Copyright Avvenire 30 aprile 2010

Tredici anni, troppo amato, cioè maltrattato

La Stampa, giovedì 15 aprile

Il nonno, la nonna e la madre gli hanno dato troppo amore:
per questo li hanno condannati. Lui oggi ha 13 anni, e
vive a Ferrara. È un bambino molto intelligente: la sua
maestra dice che è il primo della classe. Ma fino a 7 anni
non camminava quasi e non riusciva nemmeno a salire le
scale. Solo adesso ha cominciato a camminare. Però, non
corre troppo bene.
Non ha mai fatto uno sport, niente, mai una gita, mai una
corsa nei prati con gli amici. Non ha mai frequentato nessuno
che non fosse la sua famiglia, suo nonno, la nonna e la
mamma. Quando non va a scuola, sta chiuso nella sua stanza
tutto il giorno, riempito di coccole e di amorevoli carezze,
che suscitano lampi di mesta allegria nei suoi occhi di
bimbo, neri come due bacche. Fuori, è come se tutto ribollisse
dell’essenza pericolosa della vita, del magma recondito
di una tragedia. Ha 13 anni, ma non riesce a fare la pipì
da solo. Deve avere sempre accanto o sua mamma o suo
nonno. E mangiare, può farlo soltanto a casa. Quando l’hanno
costretto alla mensa della scuola, s’è chiuso in uno sgabuzzino
senza nessuno, come ha raccontato Heinrich Stove,
l’avvocato di suo papà. Il fatto è che non ce la fa a mangiare
assieme agli altri compagni. Ha paura di loro, come ha
paura della vita, perché, semplicemente, nessuno potrà mai
amarlo come la sua famiglia.
Il troppo amore è una forma della vita. Molte volte l’abbiamo
conosciuto nella cronaca. Genitori adottivi che hanno
infranto le leggi, fidanzati impazziti che hanno perso il
senso della realtà. C’era stata una mamma che non aveva
mandato il figlio a scuola solo perché aveva paura che si
ammalasse. L’avevano condannata. Ma questa volta il tribunale
di Ferrara gli ha dato una connotazione penale ben
precisa: è un maltrattamento di minore. Da oggi, anche per
la Giustizia, il troppo amore è un reato, perché è un possesso
che esclude il distacco, un affetto che ammorba la vita.
Il nonno è stato condannato a tre anni e sei mesi, la
mamma a tre anni, la nonna a due: il giudice Silvia Marini
ha deciso pene molto più severe rispetto a quelle richieste
dalla Procura. In realtà, come poi andrà davvero a finire
questa storia, nessuno lo capisce ancora bene.
Il fatto è che il bambino ha paura di tutti, ma odia una sola
persona: suo padre. Da dieci anni va avanti questa vicenda,
e lui è convinto che è tutta colpa del babbo. La mamma
gli ha detto una volta che lo voleva mandare in un istituto
di handicappati. Lei non ha un lavoro e nemmeno una
rendita, e vive assieme al nonno, che ha una cascina con
l’aia alle porte di Ferrara: ci sono dei cani che ringhiano
molto furenti dietro al cancello per proteggerli da chiunque
voglia avvicinarsi. Lui, il papà, invece, è un signore distinto,
che fa il manager a Milano. Il loro matrimonio è andato
in crisi subito dopo la nascita del piccolo. È stato quasi
subito annullato dalla Sacra Rota. Da allora, in dieci anni,
l’uomo «è riuscito a vedere suo figlio soltanto tre volte,
e di nascosto», come racconta Heinrich Stove. Per forza, dice
che lo odia: gli hanno fatto una testa così. «Noi non volevamo
creargli dei problemi sulla sua pelle. Noi volevamo
liberarlo per il suo bene. Speriamo che quella famiglia si
renda conto che non gli sta facendo del bene, e che questa
sentenza permetta al Tribunale dei minori di intervenire».
Però, la verità è che per ora nessuno riesce ancora a portarlo
via da quella casa. Lui lo ripete in continuazione, a
tutti quelli che sono andati a trovarlo: «Io sto bene qui».
Tutti, meno i giornalisti: loro, li hanno cacciati con i cani.
Il parroco, invece, quando è venuto in aula a deporre, ha
difeso la famiglia: «Sono brava gente». E in effetti «sono
brava gente». Solo che stanno bene da soli. I loro difensori,
gli avvocati Dario Bolognesi e Elisa De’ Giusti, dicono
che «se il piccolo ottiene risultati così ottimi a scuola, questo
vorrà pur dire qualcosa. In realtà, i suoi problemi sono
quelli di molti bambini della sua età. E odia il padre non
perché qualcuno l’abbia plagiato, ma perché è lui che ha
voluto questo processo che gli sta rovinando la vita. Solo
per questo».
La causa è arrivata per la prima volta dentro ai tribunali
nel 2004, e dopo sei anni probabilmente non è ancora finita
qui. Fra denunce e controdenunce varie, ha vissuto pure
altre condanne. Questa però è la più pesante di tutte,
perché stabilisce che il piccolo «è stato vittima di un amore
malato, che lo ha iperprotetto senza permettergli di crescere,
come i suoi compagni e i suoi coetanei». Non sappiamo
se basterà davvero «a liberare» il bambino, se quando
si alzerà in piedi riuscirà a guardare con benevolenza i
volti intontiti e sazi degli spettatori, se saprà distinguerli, e
capire che l’unica cosa che non porta l’amore è la paura. È
una verità così semplice che siamo in tanti a non saperla.

Pierangelo Sapegno

Bimbi obesi, la cura si chiama affetto. di Claudio Risé

Tratto da Il Mattino di Napoli del 19 aprile 2010
Tramite il blog di Claudio Risé

Uno dei segni più chiari dell’amore per i bambini è l’attenzione dei genitori a che mangino cose buone, che non fanno male, ed in quantità equilibrata, né poco né troppo.

Da questo punto di vista (e da altri), non sembra che l’Occidente ami davvero i suoi figli.Dovunque infatti, in Europa e Nord America una buona percentuale di loro è soprappeso, quando non obesa, perché mangia troppo, e male. Un’abitudine che rischia di ridurre di molto (circa il 30%), il loro potenziale di vita.In Italia, un quarto degli allievi di terza elementare è sovrappeso, e più della metà di questi sono obesi.Nell’insieme della popolazione infantile, uno su tre ha problemi derivanti da alimentazione eccessiva, e di cattiva qualità.Come mai i bambini sono così voraci, e scelgono così male i loro cibi? E perché noi non li aiutiamo a mangiare meglio?I due problemi sono legati tra loro, e la loro origine è comune, ed è legata al sentimento. Nell’iperalimentazione dei bambini (come in quella degli adulti), c’è una forte componente affettiva: i bambini (come gli adulti) mangiano troppo quando non si sentono sufficientemente e/o adeguatamente amati. Ciò li spinge anche a mangiare male, e a prediligere quei cibi, come le merendine e gli snack più pericolosi, ricchi di zuccheri, grassi, e sostanze euforizzanti, che “alzano” il tono dell’umore e creano dipendenza: senza di loro il bambino diventa triste e appare privo di energia.È il toxic child, il bambino tossico, dipendente fin da piccolo dalle sostanze e additivi di cui è sapientemente farcita l’alimentazione industriale fast food. Di lui si sta occupando l’attuale Amministrazione americana del Presidente Obama per cambiarne le abitudini alimentari e diminuire così l’enorme spesa sanitaria derivante dalla diffusione del diabete e delle malattie cardiovascolari fin dalla giovinezza, forse la conseguenza più vistosa di questo mangiar troppo, e male.D’altra parte, una delle prime manifestazioni dell’amore per i figli, presente anche fra gli animali (i quali sono peraltro aiutati da una più forte capacità istintiva nell’evitare i veleni), è appunto la cura nell’insegnare ai piccoli a mangiare bene, e nella misura giusta.È dunque per insufficienza di affetto verso di loro che i ragazzini mangiano troppo, e per la stessa ragione gli adulti si occupano poco e male del cibo dei figli: un circolo vizioso che non aiuta certo a migliorare la situazione.L’affettività, scarsa e di qualità scadente, della società postindustriale spinge tutti, giovani e adulti, a cercare di “compensare” la frustrazione emotiva con molto cibo consolatorio e immediatamente eccitante, senza però migliorare la qualità dei propri rapporti affettivi, cosa che ci chiederebbe di ingozzarci meno e concentrarci di più sull’ascolto dell’altro.Questa insufficiente presenza di cuore da parte degli adulti verso di loro rischia di portare i ragazzini, quando saranno più grandi a problemi di insufficienza cardiaca. Così come la lentezza e debolezza dell’attenzione dei grandi rischia di produrre nei ragazzi, quando saranno cresciuti, problemi circolatori e diabete: eccessi di grassi e zuccheri e difficoltà ad assimilarli e trasformarli.È il problema delle società avanzate, dell’Occidente: troppo grasso cattivo, ed eccessiva zuccherosità, nello stile di vita e nelle relazioni. Per mascherarne la sostanziale aridità affettiva, la mancanza di passioni e autentiche tensioni, capaci di trasformare l’abbondanza in energia.Un problema alimentare, che nasce da un deficit affettivo, e produce una condizione esistenziale. Poco piacevole, e pericolosa.






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Gli abusi che non fanno scandalo. di Giulio Meottio

Sperimentazioni di anticoncezionali e pianificazione familiare forzata hanno fatto crollare il tasso di fertilità delle donne di Porto Rico. “Merito” di programmi che dagli anni Venti entusiasmano il New York Times

Per loro non c’è stata alcuna richiesta di risarcimento. Nessuno al New York Times si è stracciato le vesti per quei giovanissimi corpi violati, feriti e marcati per sempre. Nessun grande avvocato liberal ha portato in giudizio gli esecutori e i finanziatori di questa strage silenziosa. A Porto Rico un terzo delle donne in età fertile è stato sterilizzato. È l’isola con il più alto tasso al mondo di donne che non possono avere figli. In America si assiste da settimane a una nuova puntata della “Mani pulite di Dio”. Sono le inchieste sulla pedofilia nella Chiesa cattolica. Ma a fronte degli abusi sessuali sui minori da parte di sacerdoti, che stando alle ultime ricerche indipendenti sarebbero meno dell 0,5 per cento del totale di abusi in tutta l’America, ci sono legioni di donne e bambine americane e caraibiche sterilizzate senza approvazione. Spesso senza neppure che lo sapessero. E di questo capitolo oscuro della medicina contemporanea il New York Times, che oggi tira le fila dell’attacco durissimo alla Chiesa cattolica sulla pedofilia, è stato una bandiera. Lo descrive bene Fatal Misconception, la prima storia globale del controllo della popolazione, pubblicato dalle prestigiose edizioni di Harvard a firma dello storico liberal Matthew Connelly. Il Wall Street Journal ha scritto che per la prima volta uno studio storico serio fa luce sui disastri della “filantropia biologica”.
Nella piccola isola cattolica di Porto Rico arrivarono legioni di umanitaristi, medici, industriali, femministe e progressisti per trasformare la cinquantunesima “stella” degli Stati Uniti in un laboratorio della contraccezione di massa. E il New York Times allora stava orgoglioso dalla parte degli sterilizzatori perché l’editore di famiglia, i gloriosi Sulzberger, erano nel board della Fondazione Rockefeller che finanziava sul campo il malthusianesimo a Porto Rico. Quando negli anni Venti dall’Inghilterra piovvero critiche sui programmi statunitensi di sterilizzazione degli “inadatti a vivere”, il quotidiano se la prese con l’“attacco inglese alla nostra eugenetica”. Eugenetica che il New York Times non esitò a definire una fantastica “nuova scienza” (come denunciò anche lo scrittore G. K. Chesterton) e che era foraggiata dalla Rockefeller Foundation. L’ultimo stato che ha rimosso le leggi eugenetiche è stata la Virginia nel 1979. E proprio il New York Times aveva descritto le sterilizzazioni della Virginia come “estinzioni graziose”. Sul numero del 22 gennaio del 1934 i consulenti del ministero dell’Interno nazista lodavano il «buon esempio fornito dagli Stati Uniti». Era l’anno in cui Hitler avviava la sua politica di eugenetica di massa, che avrebbe portato alla morte di 70 mila persone in diciotto mesi. Malati di mente, “promiscui”, albini, alcolizzati, talassemici, epilettici, tantissimi immigrati, dagli irlandesi agli italiani del sud, afroamericani e messicani.

Centomila persone sacrificate
Eccole le vittime della sterilizzazione negli Stati Uniti. E parliamo di 100 mila esseri umani. Donne afroamericane, donne indioamericane, donne sudamericane e donne bianche povere inglobate in programmi di sterilizzazione obbligatori. Un vero e proprio asse del male composto da organizzazioni umanitarie, filantropiche, educative, scientifiche e demografiche. La divisione del lavoro è stata geografica e funzionale: la sezione demografica dell’Onu ha fatto della “popolazione mondiale” un fatto politico, la Fondazione Rockefeller ha fornito ricercatori e fondi, il Population Council ha creato nuovi contraccettivi e insieme alle università e alle Nazioni Unite ha educato nuovi “esperti”, mentre il New York Times tesseva gli elogi dell’eugenetica. Quando Indira Gandhi divenne prima ministro dell’India, nominò suo figlio Sanjay responsabile del controllo delle nascite sotto l’egida dell’Onu e del Population Council di Rockefeller. Le donne venivano sequestrate, deportate in massa, piegate con la forza alla sterilizzazione, in nome di teorie partorite a migliaia di chilometri di distanza, a Washington, a Londra, a Stoccolma. Nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. A Porto Rico la sterilizzazione delle donne era così diffusa che veniva genericamente chiamata “la operacion”. E nessuno al New York Times protestò quando si scoprì che il dottor Pincus scelse proprio Porto Rico come laboratorio per la sperimentazione della pillola anticoncezionale. Si scoprirà che un terzo delle donne portoricane non era a conoscenza della sterilizzazione. Il New York Times non ha mai smesso di strizzare l’occhio all’eugenetica. Pochi mesi fa in un’eloquente intervista al quotidiano Ruth Bader Ginsburg, l’unico giudice donna della Corte Suprema degli Stati Uniti, ha detto: «Francamente ero convinta che ai tempi della decisione Roe (sentenza che legalizza l’aborto in America, ndr) vi fosse preoccupazione per la crescita demografica e in particolare per la crescita della parte più indesiderata della popolazione». Nel board of trustees della Rockefeller Foundation l’editore del New York Times, il signor Arthur Sulzberger, è stato una voce importante dal 1939 al 1957, negli anni in cui l’eugenetica ha mostrato il suo volto più sanguinario e totalitario. Si dà il caso che la fondazione Rockefeller abbia finanziato gran parte delle campagne per la sterilizzazione in America.

La sintonia col nazismo
Non furono i nazisti infatti a ideare le camere a gas. Fu (prima della conversione al cristianesimo) il premio Nobel Alexis Carrel (1873-1944), autore di L’homme, cet inconnu, il quale diceva che «criminali e malati di mente devono essere umanamente ed economicamente eliminati in piccoli istituti per l’eutanasia, forniti di gas. L’eugenetica è indispensabile per perpetuare la forza. Una grande razza deve propagare i suoi migliori elementi. L’eugenetica può esercitare una grande influenza sul destino delle razze civilizzate ma richiede il sacrificio di molti singoli esseri umani». Ricercatore presso il Rockefeller Institute for Medical Research, Carrel abbracciò l’eugenetica nazista in una lettera del 7 gennaio del 1936, quando alla Rockefeller siedevano già i membri della famiglia Suzlberger: «Il governo tedesco ha preso energiche misure contro la propagazione dei difettosi, contro le malattie mentali e i criminali. La soluzione ideale sarebbe la soppressione di questi individui non appena abbiano dimostrato di essere pericolosi».
La Rockefeller Foundation finanziò anche molti ricercatori tedeschi. Tra di essi il dottor Ernst Rudin, che avrebbe organizzato lo sterminio medico degli handicappati ordinato da Adolf Hitler. E uno dei direttori del New York Times, Eugene Black, da membro della Rockefeller divenne cofondatore del Population Council, l’organizzazione americana di ricerca che ha portato avanti molte campagne per la sterilizzazione di popolazioni indigene nel mondo. Compresa Porto Rico. La famiglia Sulzberger era generosamente impegnata a finanziare anche le attività di Margaret Sanger, la quale venne così incensata da Orson Wells nel 1931: «Quando la storia della nostra civiltà sarà scritta, sarà una storia biologica e Margaret Sanger la sua eroina». Il nome Sanger è il collante fra eugenetica e femminismo. Fondatrice della American Birth Control League (1916) e della International Planned Parenthood Federation (1952), diresse una rivista, The Birth Control Review, che divenne col tempo il più importante laboratorio teorico per la selezione della specie, al grido di slogan come «noi preferiamo la politica della sterilizzazione immediata per garantire che la procreazione sia assolutamente proibita ai deboli di mente». Sanger costruì la sua prima clinica per il controllo delle nascite nel quartiere di Brownsville a New York, uno dei più poveri della città. Così poteva estirpare meglio “il peso morto dei rifiuti umani”. La sua eredità è arrivata fino a noi. Fu Sanger a procurare i finanziamenti a Gregory Pincus per la ricerca anticoncezionale. E Pincus la sua pillola andò a sperimentarla sui “negri” di Porto Rico. Mentre oltreoceano Papa Paolo VI metteva a punto l’enciclica Humanae Vitae che condannava proprio l’antinatalismo praticato nella sperduta isola caraibica. È così che si chiude uno sconosciuto e tragico ciclo che coinvolge il più rispettato giornale d’America, le più note e ricche famiglie della East Coast, interi pezzi della medicina del Novecento e una piccola isola dei Caraibi, che a oggi vanta non soltanto il miglior Pil della regione, ma anche il più alto tasso al mondo di donne sterilizzate.



«Così hanno fatto del mio paese una cavia»

di Giulio Meotti

«Nel 1960 la questione del “controllo delle nascite”, il birth control, era anche politica perché negli Stati Uniti c’era la questione Kennedy e il timore ovunque nel paese che la sua elezione avrebbe significato il potere in America della Chiesa cattolica», spiega a Tempi monsignor Lorenzo Albacete, teologo statunitense originario di Porto Rico. «All’epoca delle sterilizzazioni mi trovavo a Washington, ma la mia famiglia era tutta sull’isola e vissero quei giorni terribili. La sterilizzazione delle donne e i numerosi test delle case farmaceutiche furono eseguiti a Porto Rico perché era molto “facile”. Nessuno avrebbe protestato, non c’era colonialismo perché l’isola era parte degli Stati Uniti. Inoltre usarono la questione della povertà degli abitanti di Porto Rico per legittimare le sterilizzazioni. Nessuno ha mai ricevuto alcun risarcimento, in termini economici o legali, per quanto fecero alle donne portoricane». Albacete è stato anche editorialista del New York Times e sa quanto la stampa liberal per decenni abbia coperto e legittimato le campagne eugenetiche. A proposito dello scandalo pedofilia che in questo periodo proprio il quotidiano liberal sta utilizzando per infangare il Papa, dice: «Nessuno oggi può negare quanto accadde e vedo tanta ipocrisia. Il New York Times è colpevole perché ci fu la connivenza fra la stampa liberal e l’eugenismo, questo però non deve dare ai cattolici alcuna scusa per non essere migliori di loro o per non fare chiarezza su eventuali abusi sessuali. E a sua volta questo non deve impedirci di chiedere giustizia per quanto fu fatto a così tante donne innocenti».


Qualche quesito ai megafoni del Nyt

di Tempi

Ecco le domande che emergono dalla ricostruzione di Meotti e dalla testimonianza del portoricano Albacete: che ne è delle donne che tra la metà del secolo scorso e la fine degli anni Settanta (giusto gli anni oggi rivangati per i casi di pedofilìa nella chiesa cattolica) sono state abusate per sperimentare sui loro corpi gli effetti di ogni genere di anticoncezionale e sterilizzate in massa a loro insaputa? Chi sono gli autori di questa orrenda pagina della storia contemporanea che nella sola Portorico conta almeno 100 mila vittime? Che ruolo ha avuto nel “genocidio” sessuale e riproduttivo di centinaia di migliaia di donne nere e papiste del continente sudamericano l’editore di quel New York Times che oggi dirige l’assalto del circuito mediatico internazionale contro papa Ratzinger? E come si spiega che coloro i quali hanno di fatto imposto alla Chiesa cattolica scotti miliardari (si pensi che solo l’arcidiocesi di Los Angeles ha versato risarcimenti per 774 milioni di dollari), non hanno scucito un solo penny alle centinaia di migliaia di vittime dei programmi genocidari delle fondazioni “liberal”? E ancora, con che faccia quegli stessi “liberal” che chiedono alla chiesa di coprirsi costantemente di cenere non hanno mai osato neppure dubitare della “democraticità” dei loro misfatti a Portorico? Ecco un promemoria per la Bibbia del giornalismo progressista. E per i suoi fan italiani che le campagne del giornale dei Sulzberger copiano e incollano come cagnolini addomesticati che camminano scodinzolando davanti al padrone con il Nyt in bocca.