DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Una psicologia del cristianesimo delle origini. Il temperamento di San Paolo

Gerd Theissen, Vissuti e comportamenti dei primi cristiani. Una psicologia del cristianesimo delle origini, Queriniana, Brescia 2010, pp. 688, euro 65.

Dal sito della casa editrice:

«Il testo intende descrivere, inquadrare, comprendere e spiegare il comportamento e l’esperienza religiosa dei primi seguaci di Gesù, mediante il ricorso a un’analisi psicologica del loro vissuto al tempo delle origini cristiane. Ne nasce un’opera pionieristica di estremo interesse per le scienze bibliche, per la storia del cristianesimo e per la teologia.

Com’è nato il cristianesimo? Come poté un piccolo gruppo, sorto in seno al giudaismo, cambiare così tanto la storia del mondo? Gerd Theissen descrive qui il comportamento e l’esperienza religiosa vissuta dei primi cristiani. La sua Psicologia del cristianesimo delle origini mette ordine nell’affascinante molteplicità dell’esperienza cristiana primitiva di sé e del mondo e la rende comprensibile ai lettori del nostro tempo. Nel corso di questa documentata ricerca il grande biblista mette in luce come nei più antichi testi cristiani ci sia più vita e vitalità di quanto non permetta di riconoscere il loro successivo uso nella teologia e nell’amministrazione della chiesa.

Inoltre, nella sua considerazione psicologica del cristianesimo delle origini, Theissen tiene conto anche della grande “eresia” del II secolo, della gnosi, e la interpreta come una forma di esperienza mistica e come parte della ricchezza della religione cristiana di quel periodo».


Il temperamento di Paolo

Non è raro imbattersi in tentativi di comprendere psicologicamente la personalità di Paolo.

Eppure, al di là di qualche suggestiva trovata romanzesca, o di sporadiche e talora persino involontarie annotazioni psicologiche, l’appassionato di esegesi che non sia completamente digiuno di studi storici sul mondo antico resterà deluso, o almeno sorpreso, nel constatare l’enorme quantità di ritratti biografici dell’apostolo che si fondano, talora del tutto acriticamente, sui metodi offerti dalla psicologia del profondo, dalla psicanalisi o da analoghe discipline.

Il rischio è sempre quello di proiettare, su una personalità vissuta due millenni or sono, categorie analitiche che funzionano esclusivamente (quando funzionano) sui “moderni”. E il gioco non vale affatto la candela. Va da sé che esistono felici eccezioni, ma è raro ch’esse trovino considerazione al di fuori dei circuiti strettamente accademici.

Potremmo citare il caso di Klaus Berger, che con la sua Psicologia storica del Nuovo Testamento, un testo apparso in Germania nel 1991, ci ha offerto uno dei migliori esperimenti esegetici degli ultimi vent’anni. Lo studioso tedesco, in questo lavoro, ha infatti cercato di ricavare le proprie categorie direttamente dai testi presi in esame, evitando qualunque accomodamento dei dati alla sensibilità moderna.

Ma si potrebbero fare anche altri nomi, come quello di Gerd Theissen, oppure di Bruce Malina e John Neyrey, che in coppia hanno scritto un volume che ci piacerebbe fosse reso accessibile al lettore italiano: si tratta di Portraits of Paul. An Archeology of Ancient Personality, pubblicato nel 1996, e tutto dedicato a un esame dei criteri che Paolo, in quanto uomo “mediterraneo” del I secolo, poteva utilizzare per definire e comprendere se stesso all’interno del proprio orizzonte sociale.

È un libro curioso, forse un po’ troppo disinvolto e “americano” nell’esposizione (lo dico per i palati fieramente europei), ma che presenta elementi di sicuro interesse anche per chi non sia direttamente interessato al cristianesimo delle origini. Se c’è un limite in esso, è però individuabile nel suo eccessivo tenore “sociologico” (è sostanzialmente un saggio di psicologia sociale) e nella sua tendenza a trasformare i modelli utilizzati in realtà.

I due autori, ad esempio, ritengono che la personalità di Paolo non possa essere compresa al di fuori della logica in-group / out-group, senza cioè un riferimento al gruppo sociale di appartenenza: nelle società mediterranee antiche, di fatto, la personalità di un individuo era sempre e comunque orientata sulla base di una collettività. Ma c’è qualcosa che gli autori trascurano di far rientrare nel loro schema: ed è la percezione che ogni essere umano poteva avere, e tuttora può avere, di ciò che lo distingue non come uomo dagli altri animali, né come individuo nell’ambito di un gruppo dagli altri individui appartenenti al gruppo o ad altri gruppi, ma come singolo uomo dagli altri singoli uomini, da un punto di vista meramente fisiologico, “naturale” (e sappiamo bene come, nel quadro della fisiologia antica, poteva rientrare anche la psicologia, in quanto studio delle caratteristiche spirituali di un essere umano).

L’individuo Socrate, detto alla buona, non si distingue dagli altri uomini per il suo essere un animale sociale, né si distingue soltanto perché è riconosciuto da alcuni come “sofista”, da altri come “maestro”, o dalla sua adorabile moglie come “ubriaco tutte le sere”: Socrate, allora come oggi, si distingue innanzitutto perché la sua interiorità e la sua esteriorità sono sue, e soltanto sue. A cambiare, nei diversi contesti storico-culturali delle società, non possono quindi essere soltanto i ruoli sociali, ma anche i criteri di classificazione delle caratteristiche personali che ciascun individuo possiede.

In questa prospettiva, sarebbe più corretto uno storico che si limitasse a parlare di Paolo come di un “temperamento collerico” (seguendo l’antica teoria degli umori), rispetto a uno storico che si prefiggesse il compito di dimostrare quanto l’apostolo fosse in verità un ossessivo compulsivo con spiccate tendenze misogine e sado-masochistiche (i termini sono superati, lo so, ma accade ancora di udirli). E questo a prescindere dal fatto, ovviamente, che il secondo storico avrebbe torto marcio e il primo ragione.




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