mercoledì 5 maggio 2010
La domanda è semplice. Perché la Chiesa, in particolare la Chiesa italiana (anche se i puristi direbbero “la Chiesa che è in Italia”) adesso è la più forte sostenitrice dell’unità di questo Paese, quando a suo tempo la visse come un sopruso? È impazzita? Ha cambiato la sua essenza e il suo giudizio? Lo fa per convenienza? O per che altro?
C’è una risposta che discende dall’amore per il popolo, per la sua ricchezza. Provo ad analizzare.
L’unità d’Italia fu cercata certo in nome - da parte di molti, anche da intellettuali cattolici - dell’amore per il suo destino, perché non fosse più in balia dello straniero. Ma la mossa politica e ideologica fu a partire da un disegno illuministico e massonico, tale per cui il popolo in grande maggioranza cattolico andava emancipato dal suo attaccamento a ciò che ostacolava un nuovo ordine, comandato da interessi finanziari di sottomissione della povera gente, e per strappare Dio dalla vita pubblica consegnandolo ad una sfera privata, senza peso nel costruire la società. E ostacolo a questo era il papato. Una chiesa fatta di carne, di iniziativa sociale costruita al di fuori del controllo dei poteri forti. I libri cosiddetti revisionisti ricordano come furono incarcerati vescovi e sacerdoti solo perché non agitarono il turibolo al nuovo Dio che era lo Stato. Il Papa fu fatto prigioniero in casa sua. I beni della Chiesa erano in realtà i beni del popolo. Furono confiscati e rivenduti, impoverendo in particolare il nostro Sud, da cui fu drenato il risparmio intero della Sicilia e del mezzogiorno. Il modello era quello napoleonico. Lo Stato come fonte di ogni diritto. La Chiesa invece, essendo contro il liberalismo che arricchiva i lupi, stava a favore della libertà.
Estremizzo, ovvio. Ma va detto. C’era Dio in prigione, come si faceva a stare dalla parte del suo aguzzino?
La Chiesa - e in particolare Pio XI - ha ottenuto alla fine quel che voleva: con il Concordato e soprattutto i Patti Lateranensi poté avere un minimo territorio (a lui bastava un metro quadrato) che fosse sottratto alla potestà temporale, con la facoltà di imbavagliarlo.
Il tempo passa. La storia si sviluppa. Il popolo - dopo le due grandi guerre - si è trovato dinanzi alla possibilità di dar forma democratica ai suoi ideali. Si è generata una solidarietà. Un sentimento patrio, l’idea di una comunanza basata proprio sul suo sentimento profondo cristiano. È stato questa percezione di sé a permettere la ricostruzione. Di queste cose ho molto discusso con un grande cattolico liberale e statista: Francesco Cossiga. Mi disse una volta: «Mi interessa l’Italia. Le volte che ho detto “Viva-l’Italia-Viva-la-Repubblica!” sono state tante. E ho sempre pensato allo Stato, a questo Stato, mentre lo dicevo. Ma anche a qualche cosa di più forte e intimo. All’Italia che senza questo Stato ora non ci sarebbe, eppure è più grande dello Stato. Ha un destino spirituale unico. C’è in questa Patria nostra, nei popoli che la costituiscono, un compito universale. Papa Giovanni Paolo II non ha mai compreso questa stranezza italiana. Questa frammentazione di popoli e la Chiesa che amava così tanto l’Italia da non desiderare l’unità nazionale. Un giorno, si decise a chiedermelo. “Senta, lei mi deve spiegare: come mai la Chiesa italiana era contro l’unità nazionale?” Per un polacco era inconcepibile. Io risposi: “Santo Padre, il giorno che Antonio Rosmini verrà fatto beato sarà una cosa molto più importante della conciliazione tra la Santa Sede e lo Stato italiano, perché sarà la conciliazione tra la nazione italiana e la Chiesa italiana”. Perché Rosmini aveva in mente un’Italia che fosse insieme Stato e la Chiesa non fosse libera “in” esso. Ma libera “con” lo Stato. Così come il popolo non era da lui fatto coincidere con lo Stato. È stato fatto beato Rosmini. La Chiesa ora riconosce pienamente l’Italia, si è riconciliata anche simbolicamente con la nazione italiana». Fin qui Cossiga. Da parte mia sto con Fëdor Dostoevskij, citato dal cardinal Giacomo Biffi. Ricordo che Joseph Ratzinger ha definito questo meraviglioso genio russo come “il più grande letterato cristiano del XIX secolo”. E non era certo papista, da slavofilo ortodosso.
In una sua pagina tratta dal Diario di uno scrittore scrive: “L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro e che cosa vedete? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa ha ottenuto al suo posto? (…) è sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa assolutamente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti e soprattutto soddisfatto di essere un regno di second’ordine. Ecco la creazione del conte di Cavour”.
Io credo che l’Italia debba ricordarsi di essere questa intensità unica al mondo. Essere piccoli rispetto a tanti numeri, ma coscienti di essere il luogo dove il particolare può diventare universale: nell’arte, nella scienza, anche nella visione politica.
Continua a irrorare ogni italiano, credente o ateo, di questo spirito universale. Qualche idiota vorrebbe strappare questo segno dall’Italia. Invece è questa presenza che può renderci unici, alla maniera intuita da Dostoevskij. Anche quando il Papa è polacco o tedesco, il Papato è italiano in essenza e per saecula saeculorum. Ed incarna e diffonde quell’idea e quella pratica di universalità, di cuore grande, di mente che non si ferma a Chiasso o a Capo Passero, ma come Ulisse che era di una piccolissima isola, però andava al largo, era mosso da qualcosa di impalpabile per cui gli batteva il petto: così noi. Ulisse voleva tornare a casa, ma non resisteva al desiderio più forte della volontà di prendere vento, e andare, andare come dei pazzi, come Cristoforo Colombo, come Amerigo Vespucci. Come Dante negli inferi e in cielo. Pensando allo Stato, a questo Stato, che oggi ha bisogno dell’unità, dentro una forma federale, ma conservando insieme unità e slancio universale. Per questo sentiamo l’appello del cardinale Angelo Bagnasco all’unità d’Italia come la cosa più bella sentita di questi tempi sul nostro Paese e sul suo futuro.
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