di Marcel Gauchet
Pubblichiamo alcuni stralci del
saggio “Se vogliamo crescere un
bambino immaginario” pubblicato
sul numero del mensile Vita e Pensiero
in uscita il 5 maggio.
Ellen Key, in un libro del 1900 che
fece molto scalpore, profetizzò
che il XX secolo sarebbe stato “Il secolo
dei fanciulli”. La profezia, probabilmente,
si è avverata al di là di quello
che lei stessa poteva immaginare.
La tendenza si è approfondita, a tal
punto che l’inizio del nostro XXI secolo
si annuncia con gli stessi auspici,
addirittura rafforzati. (…) se il XX secolo
è stato quello della scoperta del
bambino reale, il XXI si apre nel segno
della “sacralizzazione del bambino
immaginario”. La situazione attuale
ci offre l’esempio di una crisi delle
rappresentazioni collettive e di una
multiforme mistificazione dell’infanzia
che finisce per rappresentare un
notevole ostacolo per l’impresa educativa.
E’ in funzione di questa preoccupazione
che mi sforzerò di circoscrivere
i contorni e di interrogare la
genesi di queste immagini tanto potenti
da divenire tiranniche. (…) si
tratta di mettere in luce ciò che, in
questo immaginario sociale dell’infanzia,
fa da schermo alla realtà dell’esperienza
infantile, visto che è proprio
questo l’elemento che abbiamo
perso di vista. (…)
All’interno di un quadro così definito,
non è necessaria la dettagliata ricostruzione
di ciò che ha significato la
scoperta del bambino reale; scoperta
della quale il XX secolo merita di essere
accreditato. La si può riassumere
in tre parole, nei nomi delle tre discipline
divenuteci ormai così familiari
da farci dimenticare la novità che rappresentarono:
pediatria, psicologia,
psicoanalisi. Ciascuna a modo suo,
hanno tutte rivoluzionato la nostra
precedente visione dell’infanzia e della
vita concreta dei bambini. (…) Siamo
ormai così abituati a considerare
la morte di un bambino come uno
scandalo che non ci ricordiamo più fino
a che punto, ancora solo un secolo
fa, fosse considerata una cosa banale.
Dobbiamo alla medicina pediatrica,
grazie al controllo della mortalità infantile,
l’essere riuscita a completare
la transizione demografica. Il bambino
è così divenuto un essere per la vita,
invece di rimanere, com’era sempre
stato, quell’essere sospeso tra la
vita e la morte in quel tempo di prova
che l’infanzia rappresentava prima di
ogni altra cosa. Si trattava di sapere se
sarebbe sopravvissuto; si tratta oggi di
prepararlo a una esistenza data come
certa (…). Insieme al superamento della
precarietà vitale, che appariva come
l’elemento irrinunciabile delle fasi
iniziali dell’esistenza, nel XX secolo,
grazie alla psicologia, si è assistito
alla specificazione scientifica della
genesi del processo intellettivo e delle
sue tappe. Non consideriamo mai
abbastanza quanto questa scoperta
abbia fornito prestigio alla pedagogia,
disciplina che fino a quel momento
non si sapeva bene se considerare empirica,
speculativa o, all’occorrenza,
semplicemente utopica. Ha cambiato
statuto, radicandosi nella conoscenza
positiva della “differenza” del bambino
e fornendo una solida base alla tecnica
che avrebbe assicurato i progressi
del suo sviluppo cognitivo. Alla psicoanalisi,
infine, dobbiamo l’avere
svelato, accanto a questa genesi cognitiva,
lo sviluppo psichico e affettivo
del bambino in tutti i suoi stadi. Si
può anche discutere il contenuto della
ricostruzione proposta da Freud e
dai suoi discepoli; ciò non toglie che il
principio stesso della genesi soggettiva
sia ormai un dato indiscutibile.
Questo vale a maggior ragione per l’altra
scoperta prodotta dal metodo psicoanalitico,
quella dell’impronta indelebile
lasciata da tale genesi sulla personalità
adulta. (…) La nostra infanzia
resta in noi per sempre e, con le sue
metamorfosi, le sue esperienze e i
suoi traumi, ci accompagna indefettibilmente.
E’ senza dubbio l’elemento
più importante tra quelli introdotti
dalla psicoanalisi, l’irreversibile cambiamento
nel nostro sguardo: la dimensione
infantile è divenuta una dimensione
costitutiva dell’umano in generale,
e rispetto alla quale nessuno
può credere di potersi affrancare.
Questa riconsiderazione del posto
della dimensione infantile nell’umano
mi sembra, in ogni caso, il punto di riferimento
implicito intorno al quale
negli ultimi anni lo scenario è cambiato.
Il diffuso, ma potente, riconoscimento
dell’infanzia in ciascuno di noi
ha finito per rappresentare il vettore
di una mitizzazione dell’infanzia. E’
possibile definire tutto ciò come un vero
e proprio rovesciamento copernicano.
Per molto tempo, com’è noto, gli
adulti non hanno “visto” i bambini, nel
senso che non li vedevano come tali e
in quanto tali. Non cercavano di conoscerli
nella loro differenza, considerata
come non significativa in virtù del
fatto che il punto di riferimento continuava
a essere la compiuta umanità
dell’adulto. Bastava aspettare, preparando
al meglio quel pieno raggiungimento
della verità della condizione
umana. (…) Un luogo immaginario:
questo, dunque, il posto del bambino.
Ma anche una volta acquisita, nel XX
secolo, la scoperta dell’infanzia, anche
una volta riconosciuta la sua specificità,
il bambino restava ciò da cui era
compito dell’adulto emanciparsi. (…)
Oggi è possibile affermare che gli
adulti si vedono attraverso i bambini;
si proiettano in loro, in funzione della
loro differenza riconosciuta, addirittura
sottolineata, esaltata, ma letta attraverso
un prisma che, non per questo,
lascia necessariamente spazio alla verità
di questa differenza. Al punto di
arrivo non è certo che i bambini ci abbiano
davvero guadagnato da questo
allucinato sovrainvestimento, da questa
regalità immaginaria alla quale sono
stati promossi, senza che con questo
si vogliano sottostimare gli immensi
miglioramenti dei quali ha beneficiato
la loro esistenza. Quello che mi
sembra certo, in ogni caso, è che la visione
adulta dell’infanzia ormai affermatasi,
a causa dell’incomprensione
che produce, costituisce un ostacolo
epistemologico e pratico all’impresa
educativa. (…) Questo nuovo essere
mitologico è nello stesso tempo un figlio
del desiderio, del privato, dell’uguaglianza,
un figlio come ideale del
sé e come utopia politica.
1. Il bambino immaginario figlio del
desiderio. Esso è innanzitutto il prodotto
di quella rivoluzione ben conosciuta,
ma le cui conseguenze antropologiche
devono ancora essere tirate e
meditate, che consiste nel controllo
della procreazione. Una frattura incalcolabile
nella storia della condizione
umana. (…) Il bambino è diventato
un figlio del desiderio, del desiderio
di un figlio. Era un dono della natura
o il frutto della vita attraverso di noi,
certo, ma senza di noi o malgrado noi.
D’ora in poi non potrà che essere il risultato
di una volontà espressa, di una
programmazione, di un progetto. (…)
Questa situazione ha facilitato quella
che possiamo definire l’appropriazione
dell’infanzia da parte degli adulti.
I bambini sono oggi figli dei loro genitori
a un livello senza precedenti, sono
l’emanazione del loro essere più
intimo, con le implicazioni di ogni genere
che questo comporta.
2. Il bambino immaginario figlio
del privato. La valorizzazione di questo
figlio del desiderio si accompagna
alla valorizzazione della sfera privata;
si lega alla rivoluzione della famiglia.
Il figlio del desiderio è il simbolo
vivente della trasformazione dei legami
familiari. Nel quadro della vecchia
famiglia-istituzione, dedita alla
funzione sociale della perpetuazione
del lignaggio, la famiglia faceva il
bambino; nel quadro delle nuove famiglie
affettive, che trovano la loro
giustificazione nella ricerca emotiva
dei loro membri, è il bambino che fa
la famiglia. Precisiamo: è la presenza
di un figlio che la consacra come ambito
sociale distinto, dedito alla realizzazione
di valori specifici che, rispetto
alla sfera pubblica, non sono
solo distinti, ma preminenti – valori
che, in quanto portatori della realizzazione
personale, sono opponibili a
quelli della sfera pubblica. Di qui tutta
una serie di pressioni che, in nome
dei propri valori, le famiglie operano
sulla scuola, della quale tendono a rifiutare
la dimensione istituzionale
perché considerata responsabile di
un’impersonalità alienante. (…)
3. Il bambino immaginario figlio
dell’uguaglianza. Il figlio del desiderio,
chiamato a realizzarsi nel quadro
della famiglia privata, è un bambinopersona,
un bambino riconosciuto nella
sua integrale individualità. Di più,
per attribuire al fenomeno la sua reale
portata, è necessario definirlo come
un bambino dell’uguaglianza. In effetti,
è il prodotto del parallelo compiersi
di quella rivoluzione di cui Tocqueville
ha colto il principio, con il nome
più adeguato di uguaglianza delle
condizioni, e che, a dispetto della sua
ammirevole preveggenza, non immaginava
certo che si sarebbe spinta così
lontano. Il cuore di questa rivoluzione
sta nel principio di somiglianza,
nella similitudine d’essenza tra gli esseri,
al di là di quali siano le differenze
di superficie che presentano – differenze
relative alle loro funzioni, alle
loro posizioni o condizioni sociali,
ma anche differenze di sesso e d’età.
(…) L’integrazione delle donne, dei
giovani e poi dei bambini nel cerchio
dell’individualità: questa la trasformazione
capitale all’origine dell’integrale
realizzazione della società degli individui.
Nel caso del bambino, tale individualità
ha la particolarità di aver
bisogno degli adulti per esistere. Ma,
a quanto pare, poco importa: lungi
dall’essere un ostacolo, questa necessità
sembra essere un incoraggiamento
ad accordargli un tale status. (…) Da
questo punto di vista il bambino è paradigmatico:
rappresenta quell’individuo
che è necessario volere come tale
per farlo esistere. Niente di più notevole
e significativo, in questo senso,
degli sforzi prodotti in tutte le direzioni
per incoraggiare la sua autonomia.
In compenso, questa posizione strategica
nell’immaginario sociale non è
necessariamente la migliore consigliera
per chiarire la realtà della condizione
infantile, che si tratti di prendere
in considerazione ciò che distingue
il bambino dalla persona, intesa
nel rigore del termine, o che si tratti
del giusto apprezzamento delle vie
grazie alle quali si accede per davvero
all’autonomia. Il bambino può essere
una persona dal punto di vista del
riconoscimento sociale, questo non significa
che abbia gli strumenti cognitivi
per agire come una persona (…).
La finta attribuzione di un’autonomia
astratta rappresenta un ostacolo all’acquisizione
dei mezzi reali per raggiungerla.
Se c’è oggi una questione
aperta per la filosofia dell’educazione,
è proprio questa: cos’è l’autonomia,
cosa significa divenire autonomi,
e a quali condizioni? (…) si tratta di
concepire nel bambino un’umanità allo
stesso tempo pienamente costituita
e tuttavia ancora da definire.
4. Il bambino immaginario come
ideale del sé. (…) Nelle nostre società
si parla di continuazione di “giovanilismo”,
dell’ossessione di “restare giovani”
che abita gli adulti. Quello che
però, forse, non si è sufficientemente
analizzato è il contenuto di questo
ideale del giovane, figura immaginaria
ma dalle incidenze affatto reali. A
me sembra definito dalla combinazione
tra l’indipendenza adulta e uno
spirito infantile. Esattamente ciò che
ne fa un ideale culturale. Sul versante
negativo, questa promozione dello
spirito infantile va considerata insieme
alla doppia decostruzione delle figure
della maturità e della virilità.
Con la ridefinizione delle età della vita,
emergono motivi del discredito
della maturità in quanto ideale. (…)
Laddove le società aristocratiche, per
esprimerci come Tocqueville, tendevano
a rafforzare l’espressione delle
differenze naturali, come quella che
separa l’adulto dal bambino, le società
ugualitarie tendono a cancellarle.
L’immagine del maschio costruita
dalla presa di distanza dall’età puerile
non va più di moda. Sul versante
positivo, questa infanzia ideale senza
grandi punti di contatto con l’infanzia
reale risulta essere una miscela dalle
diverse componenti, le une più vecchie
e riattivate con significati nuovi,
le altre del tutto nuove. Ecco allora
che abbiamo assistito al riemergere di
un’immagine antica, l’innocenza infantile,
la cui esatta consistenza, in
questo nuovo utilizzo, andrebbe decifrata.
Ha rianimato l’orrifico fantasma
di una pedofilia onnipresente, riattivando
nuovi processi alle streghe. Il
fenomeno non può non sorprenderci:
assistiamo, contrariamente a quanto
ci aveva insegnato la psicoanalisi, a
una desessualizzazione dell’infanzia.
(…) In ogni caso quello che emerge è
che, nel nostro mondo, si può dire tutto
tranne che quello della sessualità
sia un problema risolto. Ma c’è un’immagine
nuova che sembra giocare un
ruolo determinante in questa valorizzazione
dell’infanzia. (…) Se il nostro
principale dovere è quello di essere
costantemente in sintonia con il nostro
io più profondo, a dispetto dei codici
artificiali che la vita sociale ci impone,
allora è necessario che esista da
qualche parte un modo per manifestare
questa vera identità. In questo campo
il bambino è un maestro, lui che,
nella sua fragilità, conserva un contatto
immediato con l’essenziale. E ancora,
il bambino rappresenta più di tutto
l’accordo diretto e completo con il
proprio io, all’opposto delle lacerazioni
e dei conflitti dell’età adulta. In
questo senso incarna la figura della
felicità possibile. E’ per questa ragione
che i genitori desiderano così fortemente
che i loro figli siano felici qui
e ora, per la paura che la loro vita futura
possa risentirne. (…)
5. Il bambino immaginario come
utopia politica. Per finire, l’infanzia è
divenuta la nostra ultima utopia politica,
in un mondo dove quest’ultima
non ha più manifestamente un posto.
E’ investita, né più né meno, che della
nostra ultima speranza di vedere realizzato
un mondo diverso da quello
che conosciamo. (…) nel contesto di
crisi dell’avvenire installatosi a partire
dagli anni Settanta, l’avvenire è divenuto
qualcosa di irrappresentabile,
e l’infanzia ha finito per assorbirne
tutto l’immaginario. Si è progressivamente
imposta come l’unico canale
concepibile per le nostre proiezioni in
avanti: non possiamo che passare per
il suo tramite, solo grazie a lei siamo
ancora in grado di rendere concreto
un percorso in direzione del futuro.
Mi si potrebbe obiettare che le utopie
del passato non si preoccupavano un
granché dei bambini. Generalmente
contenevano un aspetto educativo,
spesso importante, ma è di un’altra cosa
che parliamo qui: è il bambino stesso,
e solo lui, che diviene il vettore
dell’utopia, il supporto esclusivo di un
progetto di differenza del futuro; un
futuro cui, del resto, è impossibile attribuire
un contenuto. Il bambino
compare nell’utopia, è in quanto tale
l’utopia. A questo bisogna aggiungere,
ed è un’altra significativa originalità
rispetto al passato, che lo diviene in
un modo implicito di cui gli attori sono
appena consapevoli, un elemento
che non impedisce all’utopia di cui è
investito di essere pregante, per quanto
indistinta possa restare. Se, come
giusto, si cerca di decifrarla, mi sembra
che la si possa ricondurre all’utopia
di una società di individui integralmente
realizzati. Che significa, da
una parte, un universo di individui
che scoprono se stessi da soli, per autocostruzione,
al di fuori di qualsiasi
pressione o vincolo sociale; dall’altra,
una modalità di coesistenza senza violenza,
dove ogni individuo è sufficientemente
realizzato in se stesso da poter
accettare la differenza degli altri.
Sia chiaro, quest’utopia che non si pone
come tale e che non è consapevolmente
rivendicata dagli attori in gioco,
nondimeno riveste un ruolo determinante
nel forgiare una certa idea di
educazione. Rappresenta la guida suprema
per le aspettative e le inclinazioni
collettive. Noi non ce ne rendiamo
nemmeno conto, ma riguardo al
mondo che vorremmo veder realizzato
è proprio ciò che ci aspettiamo dall’educazione
a condizionare il nostro
modo di pensare e di agire.
Gauchet
Gauchet, storico, filosofo e
sociologo nato in Francia nel 1946, è
direttore di studi all’École des Hautes
Études en Sciences Sociales di Parigi
e direttore della rivista Le Débat. E’
autore de “Il disincanto del mondo”
(1985; tradotto in italiano nel 1992 da
Einaudi), un classico del pensiero politico
francese. Tra gli altri suoi libri
ricordiamo: “L’inconscio cerebrale”
(1994, Il nuovo Melangolo); “La democrazia
contro se stessa” (2005, Città
Aperta); “Il religioso dopo la religione”
(con Luc Ferry, 2005, Ipermedium);
“Un mondo disincantato? Tra
laicismo e riflusso clericale” (2008) e
“La religione nella democrazia”
(2009), entrambi pubblicati da Dedalo.
Per le edizioni Vita e Pensiero è in
uscita un nuovo volume, “Il figlio immaginario”,
del quale il saggio riprodotto
in queste pagine anticipa i temi.
© Copyright Il Foglio 1 maggio 2010