DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

IL PECCATO CARNALE IRLANDESE. Inchiesta dove tutto è ri-cominciato. Non sembra una patologia cattolica

di Francesco Agnoli
Alzi la mano chi non ha letto che violenza
e pedofilia erano “endemici”
nelle istituzioni religiose d’Irlanda tra gli
anni Trenta e Novanta del Novecento. Chi
non ha visto il film “Magdalene”, subito
premiato, naturalmente, al Festival di Venezia,
e non si è sentito civilissimo, bravissimo,
illuminatissimo, nello stigmatizzare
le malvagità di preti e suore. Chi non ha
sentito spiegare che per forza, quelli là
fanno professione di castità, vivono “contro
natura”, e poi fanno sesso coi ragazzini,
o li picchiano per sfogare le loro frustrazioni.
Santa indignazione, unita alla
consapevolezza di una superiorità morale!
Unita a una certa goduria in moltissimi
Catoni odierni che fiondano giudizi definitivi,
categorici, assoluti. Non tanto sui
peccati, come sarebbe anche giusto, ma
sui peccatori. Non sui peccatori, come singoli,
come esempi della fallibilità umana
e della nostra miseria, bisognosa sempre
di perdono e di salvezza, ma come emblemi
e simboli di una categoria, quella sì,
tutta intera, condannabile e colpevole:
quella dei sacerdoti, dei religiosi, dei seguaci
di Cristo, in generale. Eppure, ancora
una volta, la realtà sfugge alle semplificazioni
ideologiche, alle strumentalizzazioni,
alle generalizzazioni ed alle indignazioni
a senso unico, in cui l’obiettivo è
deciso a priori, per odio ideologico.
Anzitutto, per giudicare con un po’ di
conoscenza, non sull’onda dell’emotività
scatenata da denunce, amplificazioni giornalistiche
o da film come “Magdalene”,
ma con un minimo di volontà di inquadrare
i fatti nella storia, occorre ricordare,
con Vittorio Messori, che le Industrial
School, i riformatori e i Magdalen’s Institutes
irlandesi, “prima ancora che case religiose,
erano riformatori giudiziari, case
di correzione minorile, in diretto collegamento
con il ministero della Giustizia e la
magistratura della Repubblica d’Irlanda.
La gestione, affidata a congregazioni religiose
(avviene tuttora anche in Italia, dove
le suore sono ancora presenti nelle carceri
femminili e in molti altri, civilissimi
paesi del mondo), era sottoposta al controllo
degli ispettori dello stato, che esigeva
dalle suore rigorosa sorveglianza e disciplina
sulle ospiti e riteneva le monache
responsabili in caso di fuga o rivolta”
(Corriere della Sera, 14/9/2002).
Case di correzione, soprattutto minorile:
nei riformatori finivano i giovani condannati
per reati penali; nelle Industrial
School, le workhouse irlandesi, i figli rifiutati,
abbandonati, orfani, non criminali
ma potenzialmente tali; nelle Magdalene
ragazze povere, respinte dalle stesse famiglie,
magari con problemi di alcol, prostitute
o a rischio di cadere nella prostituzione…
persone assai problematiche. Come
alternativa alla strada, alla delinquenza,
alla disperazione, alla galera.
Come erano nate queste case con un fine
simile tra loro, sebbene diverse? Le case
di correzione, divenute presto case di
lavoro (workhouse), nascono nell’Europa
del XVI secolo, dopo la Riforma, nel mondo
protestante e calvinista. Il medioevo
aveva guardato alla povertà con profondo
rispetto, insistendo sulla povertà di Cristo
stesso. Tale elogio della povertà era anche
degenerato, talora, in pauperismo. In seguito
alla Riforma, alla diffusione della
mentalità calvinista, che lega predestinazione
e ricchezza, salvezza eterna e successo
materiale, la povertà diviene invece
sempre di più una maledizione, una colpa,
un reato contro l’ordine pubblico. Che
le città, gli stati puniscono duramente. Anche
Lutero, ideologo dei principi tedeschi
nella lotta contro i contadini, nella prefazione
al “Liber vagatorum”, rappresenta i
vagabondi come alleati del diavolo. Poveri,
delinquenti, vagabondi, orfani divengono
oggetto di repressione anche per l’affermarsi
della mentalità borghese e capitalista.
Da questo momento in poi, hanno
scritto Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero,
in “Il carcere in Europa” (Bertani,
1983), “gli stracci del diseredato non simboleggiano
più le piaghe di Cristo, ma il
marchio dell’accidia”.
E’ l’Inghilterra anglicana e secolarizzata
ad aprire le danze: i beni della chiesa
vengono sequestrati, migliaia di poveri
che vivevano grazie ad essi rimangono
senza sussidi e aiuti, perché la Corona in-
camera tutto ciò che può e rivende a ricchi
e mercanti. Così Enrico VIII emette
l’editto contro il vagabondaggio, col quale
vengono impiccati 75 mila vagabondi. Dopo
Enrico VIII le cose, se possibile, peggiorano:
per i mendicanti sono previsti la
gogna, la fustigazione, il marchio di ferro
rovente, il taglio degli orecchi; con Edoardo
VI la riduzione in schiavitù, con Elisabetta
la morte. E’ proprio Elisabetta I, la
feroce nemica dei cattolici, a istituire nel
1576 le “Houses of correction”, imitata a
breve da altri paesi protestanti, in Germania,
in Svizzera, in Olanda. Nelle case, che
hanno una funzione di rieducazione attraverso
il lavoro, sono previste sanzioni rigide,
corporali, fustigazioni, bastonate sulla
schiena. Del resto si tratta di luoghi che
assomigliano un po’ a case di recupero, un
po’ a prigioni: una sorta di via di mezzo,
insomma, in cui è prevista la durezza della
prigione, ma anche il tentativo di redimere
in qualche modo gli internati.
Sono gli anni in cui in Inghilterra i reati
contro la proprietà crescono ogni giorno,
insieme alle pene. La classe dirigente borghese
e nobiliare, lanciata sempre più verso
la privatizzazione delle terre, con relativo
sfratto dei piccoli contadini, e l’industrializzazione,
piega il mondo alla sua visione.
I bambini orfani, poveri, finiscono
spesso sfruttati sin dai quattro anni di età:
lavorano duramente, ore e ore al giorno.
Solo nel 1834 il Parlamento inglese vieta il
lavoro ai bambini sotto i nove anni, ma
senza grossi risultati. Questa è l’atmosfera
del tempo nel paese della rivoluzione industriale.
Nelle workhouses la commistione
tra poveri, delinquenti, vagabondi e
bambini, espone quest’ultimi al rischio di
abusi di ogni tipo, anche sessuali.
Si annuncia l’Ottocento, il secolo nero
delle donne e dei bambini, triturati nelle
miniere, nelle fabbriche, nella workhouse.
“Persino i vecchi e gli ammalati”, scrive
George M. Trevelyan nella sua “Storia
d’Inghilterra”, quando non avevano tetto,
finivano nelle workhouses, “trattati con
la stessa durezza che se vi fossero entrati
per loro colpa”. Di queste istituzioni parla
con toni durissimi Karl Marx; vi fa riferimento
Charles Dickens, nel suo “Oliver
Twist”, storia di un bambino orfano maltrattato
e sfruttato in una di queste strutture;
anche John Ruskin nel suo “La lampada
della memoria”, ci dà notizie non
lusinghiere su questi luoghi. Non pochi
storici parlano di una vera e propria
mentalità schiavista, a danno delle classi
meno abbienti, e dei diseredati, difesa e
sostenuta dal potere e da molti intellettuali.
Del resto tutto va calato nei tempi,
e se l’Ottocento ha visto di tutto, in nome
del progresso e dell’arricchimento, il Novecento
vedrà altri luoghi di correzione
“attraverso il lavoro”, ben peggiori: i lager,
i gulag, i laogai.
Dall’Inghilterra anglicana e secolarizzata,
si diceva, le workhouse si diffondono
anche altrove. Soprattutto nei paesi protestanti
e nordici: Germania, Svizzera, Scandinavia.
In Olanda nel 1596 viene inaugurata
ad Amsterdam la Rasphuis, casa di
lavoro per la dilagante corruzione giovanile.
Qui mendicanti, giovani malfattori,
ladri e vagabondi vengono sottomessi al
lavoro forzato: in condizioni dure, certamente,
ma con la possibilità di sopravvivere,
e come pena intermedia tra la semplice
multa o la pena di morte. La rigidità
del calvinismo, e della mentalità borghese
olandese, non permette certo uno
sguardo molto attento e positivo, sui poveri
e gli emarginati.
Diversa è la condizione in Italia, dove
la mentalità cattolica fa sì che i luoghi di
rieducazione siano meno improntati al lavoro
forzato, alla produttività, e di più alla
rieducazione vera e propria. Sorgono
dovunque ordini religiosi dediti alla creazione
di scuole e ospedali. Non sono neppure
paragonabili le workhouses anglosassoni
o olandesi, alle istituzioni italiane,
di solito proprio perché dietro queste
ultime vi è, prima del profitto o della necessità
di tutelare l’ordine sociale, la carità
cristiana, almeno tentativamente. Le
vicende di don Pavoni, di don Bosco, di
santa Maddalena di Canossa, della Contessa
di Barolo, di santa Tersa Verzeri, tutti
fondatori di scuole e di luoghi per l’assistenza
di poveri, orfani, ragazze “pericolanti”,
ci dicono proprio che di fronte alla
emergenza povertà e delinquenza, propria
dell’Ottocento, il cattolicesimo rende
più miti le pene e non vede nel lavoro
coatto il principale strumento di redenzione
per i corrigendi, né, nella loro produttività,
il rimedio alla loro inutilità. Il
desiderio di cercare il loro ravvedimento
è superiore alla volontà di renderli produttivi.
Lo si sa, e spesso gli accusatori del
cattolicesimo elogiano il rigido calvinismo
nordico, deprecando l’improduttivo
“assistenzialismo cattolico”. Del resto non
sarà l’inglese, ateo, darwiniano, vittoriano,
Francis Galton, il cugino di Darwin, a
proporre la sterilizzazione dei poveri, perché
non vi siano più poveri, e quella dei
delinquenti, degli alcolizzati, dei miseri,
perché non vi siano più delinquenti?
Avesse diretto una workhouse non sarebbe
stato molto tenero.
Ebbene, se torniamo all’ Irlanda cattolica,
le case di correzione ottocentesche vi
nascono sul modello inglese e scozzese.
Non dimentichiamo che l’Irlanda giace
sotto la Corona inglese; che vive un periodo
drammatico, di povertà spaventosa, di
carestia e quindi, anche, di forte delinquenza
e devianza, che durerà a lungo. “I
quartieri poveri di Dublino – scrive Engels
– sono dal canto loro quanto di più orrendo
e ripugnante possa vedersi al mondo”.
Povertà, prostituzione, sfruttamento
minorile, sono normali, qui come in Inghilterra,
o ancora di più. E’ la povertà totale,
in Irlanda, a essere endemica.
E’ in questo contesto che occorre collocare
i riformatori, le Industrial School e
le Case di Maddalena irlandesi: in una società
pericolosa, difficile, dura. In queste
case, di solito dello stato, lavora personale
religioso, cattolico o protestante: quello
giudicato più adatto, anzitutto dal popolo
e dallo stato stesso, a fare il possibile
per rendere le case non vere e proprie
prigioni, ma qualcosa di diverso. Ma proprio
la natura di questi luoghi e quella degli
ospiti, ci può far capire quanto possa
essere stato difficile viverci, non solo per
i reclusi, ma anche per le suore e i religiosi,
chiamati a fare i secondini. Ve ne furono
di indegni? Di impreparati? Ve ne furono
di quelli/e che abusarono, che vennero
meno alla carità cristiana, che si
macchiarono di colpe orrende? Senza
dubbio, purtroppo. Come in tutte le prigioni,
come in tutti gli educandati laici,
statali, come in tutti i riformatori del mondo
e di ogni tempo. Anzi, credo di meno.
Il rapporto Ryan del 2009, che condensa
il lavoro della Child Abuse Commission
istituita nel 2000 dall’allora premier
irlandese Bertie Ahern, molto duro nei
confronti della chiesa, non dimentica di
accennare, sebbene brevemente, anche
alla “filantropia religiosa”, alle opere nate
da “volontary contributions and, often,
volontary labour”. Lo stesso rapporto denuncia,
su 25 mila allievi di collegi, riformatori
e orfanatrofi nel periodo che esamina,
“253 accuse di abusi sessuali da
parte di ragazzi e 128 da parte di ragazze,
non tutte attribuite a sacerdoti, religiosi o
religiose, di diversa natura e gravità, raramente
riferite a bambini prepuberi”
(Massimo Introvigne).
Gli abusi sessuali, denuncia il rapporto,
erano endemici “nelle istituzioni per ragazzi”,
sebbene sia impossibile determinare
l’estensione del fenomeno e distinguere
tra “toccamenti” e violenze: si trattò
cioè di rapporti omosessuali, tra impiegati,
inservienti, talora laici talora sacerdoti,
e ragazzi. Violenze orribili, dunque, su
persone indifese.
Nelle scuole per donne, invece, gli abusi
erano rari e per lo più a opera di “impiegati
o visitatori o quando le ragazze
erano in posti esterni” agli istituti. Aggiunge
il rapporto che l’abuso sessuale
sulle ragazze da parte di laici fu generalmente
preso sul serio dalle suore e il personale
laico fu dimissionato, quando venne
scoperto colpevole. Non altrettanta severità
fu usata verso i religiosi colpevoli.
Inoltre “le ragazze che subirono abuso riportarono
che ciò accadeva soprattutto
quando venivano mandate da famiglie
ospiti per il weekend, per lavoro o per ferie”
(rapporto Ryan, “Conclusions”, 6.18,
6.19, 6.28). E sebbene aggiunga che spesso
le suore non credevano alle storie raccontate
dalle ragazze, si deduce quello che
doveva essere intuibile: che nell’Irlanda
ridotta alla fame e abbrutita dalla miseria
di allora, le violenze fisiche sulle donne
erano più facili fuori, che dentro le strutture
protette gestite dalle suore.
Quello su cui si sofferma di più il rapporto
Ryan, in verità, è il ricorso a punizioni
corporali, a volte dure e violente. Valutiamo
l’accusa, non per sminuirla, ma
per comprenderla: che ex internati in case-
carceri denuncino di non essersi trovati
bene, lo possiamo immaginare. Una
donna italiana, allevata in un educandato
statale italiano, recentemente affermava
di aver vissuto “come in prigione”, e di
aver visto brutture e drammi terribili, come
il suicidio di un’amica, che “aveva
molti problemi in famiglia e non riusciva
a parlarne” (La voce della Campania, ottobre
2002).
Forse, di fronte a tali denunce dovremmo
anzitutto chiederci: quanto esse sono
“inevitabili”? Inoltre: sono tutte “vere”?
Quanto considerano che la durezza del
luogo in cui si trovavano non doveva essere
poi tanto peggiore, anzi!, da quello che
avrebbero vissuto fuori, sulla strada, tra
prostituzione, miseria e criminalità?
Quanto le accuse tengono conto della difficoltà
del compito affidato agli educatori
stessi, costretti a fare in qualche modo i
secondini per tutta la vita? Tanto più se,
come è successo in Irlanda, dietro la denuncia
di abusi e violenze subite, vi era la
possibilità offerta dal governo nel 2002 di
ottenere dei risarcimenti in denaro. Tanto
più se chiedere questi risarcimenti poteva
giovare a chi non viveva certamente
condizioni agiate.
Ricordava alcuni anni fa Andrea Galli:
“Lo stato (irlandese), che deve ancora finire
di pagare tutti, si calcola che alla fine
avrà di gran lunga superato il miliardo di
euro negli esborsi. Immancabili gli ‘inciuci’
del sistema. Pochi giorni fa è nata una
polemica quando si è saputo che il Redress
Board ha versato 83,5 milioni di euro
agli studi legali che avevano assistito i
denuncianti, alcuni dei quali messisi dal
2002 in cerca di ex alunni delle Industrial
Schools finiti anche in Nuova Zelanda, Canada
o Stati Uniti, per far conoscere loro
l’interessante proposta statale” (Avvenire,
12/8/2007). In secondo luogo, pur riconoscendo
e stigmatizzando l’esistenza di abusi
e violenze, odiosi e deprecabili, si può
fingere che la cosa riguardi solo i luoghi
gestiti da religiosi cattolici, come si sta facendo?
E gli stessi istituti retti da protestanti?
E la sorveglianza dello stato? Cosa
avrebbe garantito, lo stato irlandese di allora,
per orfani, diseredati, prostitute, minori
condannati, senza l’aiuto di volontari
religiosi? Si può, ancora, fingere che tutte
le suore e tutti i religiosi siano stati approfittatori,
sadici e delinquenti, come avviene
per esempio nel film “Magdalene”?
Quanto alle punizioni corporali, anche
qui sarebbe opportuno distinguere, cercare
di capire. Immaginare ad esempio quale
logorio rappresenti fare ogni giorno il
guardiano, il secondino, magari con tutto
l’amore possibile, ma anche con tutta la
miseria che ci portiamo addosso. Non sarebbe
difficile capirlo, se solo si volesse.
Se non vi fosse nella nostra cultura quell’odioso
pregiudizio illuminista che ci porta
a guardare sempre tutto con aria di sopracciò,
e di superiorità.
Ricordo quando insegnavo in una scuola
professionale e avevamo di questi ragazzi,
figli della prostituzione, talora senza
genitori o con altri drammi alle spalle:
vivevano in case laiche, gestite da laici,
con soldi e impiegati statali. Un giorno
una di queste ragazze estrasse una lametta
e tagliò tutto il braccio di una professoressa.
Non era una ragazza facile: chi la
accudiva tutti i giorni, talora avrà perso la
pazienza, ne sono certo. Talora avrà urlato,
o alzato le mani. Senza essere un mostro.
Non era un mostro neppure Vincenzo
Muccioli, che ha dato la sua vita per
salvare migliaia di drogati dal degrado
più nero. Eppure quanti hanno voluto dipingere
San Patrignano, per motivi ideologici,
come un lager, come una prigione,
perché, in una simile realtà, successero
violenze e soprusi.
Ma, soprattutto, inquadriamo questi
fatti, l’uso cioè di pene dure, corporali, di
punizioni severe, nel loro contesto storico.
Lo stesso Peter Mullan, regista del
film “Magdalene”, ha esplicitamente affermato
che i metodi utilizzati in Irlanda
erano gli stessi della Gran Bretagna. Non
solo nelle workhouses, ma anche nei col-
ANNO XV NUMERO 113 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 14 MAGGIO 2010
legi “bene” delle élite inglesi. Non era
così anche da noi, sino a 40-50 anni fa? Le
pene corporali, le punizioni severe, le
bacchettate sulle mani, erano considerate
normali non dico nei riformatori, ma
nelle scuole di ogni ordine. E se allarghiamo
lo sguardo possiamo pensare a
quello che succedeva nei nostri manicomi
statali, non al Cottolengo gestito dalle
suore, prima che la legge Basaglia privatizzasse
i drammi: violenze, botte, abusi,
reclusioni. Anche qui, però: non di tutti,
anzi, forse di una minoranza. Perché dimenticare,
come si fa di solito, quanti servirono
con amore i malati di mente, e lo
fecero nonostante la durezza del loro impegno
quotidiano?
Possiamo, ancora, pensare ai lager per
bambini orfani dell’est europeo, gestiti
dallo stato laico e anche ateo: imparagonabili,
per brutalità, con qualsiasi altra
struttura per bambini della storia. Oppure,
per fare un altro esempio, ai “figli dello
stato”, come li chiama Michael D’Antonio
nel suo “La rivolta dei figli dello stato”
(Fandango), in cui si racconta come in
un centinaio di istituti americani nel Novecento
(sino al 1974) migliaia e migliaia
di bambini (150 mila circa), spesso normali,
abbiano subito violenze, abusi sessuali,
“lavori forzati”, elettrochoc, sterilizzazioni
chirurgiche, sperimentazione di farmaci,
promosse dall’ateissimo movimento
eugenetico e dallo scientismo galtoniano
che consideravano i piccoli alla stregua di
oggetti di ricerca.
Possiamo rammentare, ancora, un caso
attuale, di cui chissà perché non si parla:
le laicissime e “liberissime” scuole
Odenwald, il liceo delle élite tedesche
sessantottine, in cui, come ha dichiarato
l’attuale preside, si sono consumati, in anni
recentissimi, “violenze dei professori
sugli allievi e degli allievi più grandi sui
più piccoli. Stupri di gruppo consumati
con la complicità dei supervisori. Maestri
che provvedono a distribuire alcol e droga.
Studenti costretti a prostituirsi nel fine
settimana per soddisfare qualche visitatore
amico degli insegnanti…” (Tempi, 5
maggio 2010).
Quando si insiste sull’Irlanda cattolica,
sulle sue suore e i suoi sacerdoti, per
screditarne in toto la storia, dunque, non
è la sacrosanta condanna dei colpevoli,
che disturba. Si dicesse che preti e suore
che hanno abusato meritano pene terribili,
non ci sarebbe certo da obiettare. Lo
ha detto chiaramente Benedetto XVI, collegando
queste miserie e atrocità ad una
innegabile crisi della chiesa. Quello che
disturba è l’ipocrisia, il tentativo di generalizzare,
il voler fingere che esista un’umanità
senza peccato che può additare
come reproba un’altra parte dell’umanità,
colpevole, per colpa originaria ed
indelebile, di seguire Cristo, talora con
grandezza, talora tradendone e smarrendone
l’insegnamento.
Pensiamo al film di Mullan. Perché lo
scozzese e marxista Mullan ha fatto un
film sulle Magdalene irlandesi e cattoliche
e non, per esempio, su una workhouse
scozzese e protestante? O su un orfanotrofio
dell’est di oggi? Perché lo ha fatto
così parziale, manicheo, di parte? Basta
leggere alcune sue dichiarazioni per capirlo,
per comprendere che all’origine di
quello che vuole essere un documentario
storico oggettivo, vi è invece un fortissimo
pregiudizio di fondo: la “chiesa… non differisce
troppo dai talebani, istiga alla crudeltà
anziché alla compassione, trascinando
la società in una spirale di follia
collettiva” (Corriere della Sera 31/8/2002)!
Mullan, il suo film, i suoi numerosi e ardenti
discepoli, in verità servono a nutrire
odi e pregiudizi, più duri da spezzare
delle pietre. Ad alimentare la falsificazione
e l’inganno.
Penso al libro di Kathy O’Brien che narra
di terribili violenze che lei avrebbe subito
nelle Magdalen Laundries: un best
seller da 350 mila mila copie, spacciato come
vero ma smentito prima dalle suore
(“La O’Brien non è mai stata da noi”), poi,
con sdegno, dalla stessa famiglia dell’autrice,
ed infine anche da un giornalista,
Hermann Kelly del Mail on Sunday, che
ha dedicato un intero libro, “La vera storia
di Kathy”, per smontare l’operazione
mediatica ed economica della scrittrice.
Penso a sacerdoti innocenti, come padre
Kinsella o padre Brendan Lawless, vittima
di una donna che era pronta ad accusarlo
pubblicamente di violenza, se egli non le
avesse dato del denaro (vedi: Indipendent.
ie, 22/7/2007); penso ai numerosi casi
di religiosi ingiustamente accusati al fine
di estorcere denaro, cui Joe Duffy, conduttore
di Rte Radio 1, ha dedicato una trasmissione
di oltre un’ora alcuni anni fa;
penso a Paul Anderson, “condannato a
quattro anni di carcere per avere accusato
Padre X, un sacerdote dell’arcidiocesi
di Dublino rimasto anonimo, di aver abusato
sessualmente di lui 25 anni fa, durante
la preparazione alla prima comunione.
Il giudice Patricia Ryan ha spiegato nella
lettura della sentenza come Anderson, segnato
da tossicodipendenza, tendenze suicide
e debiti personali, avesse costruito
racconti infamanti contro Padre X per un
fine molto semplice: estorcere quattrini alla
chiesa” (Avvenire, 2/8/2007).
Penso ancora, al clamoroso caso di suor
Nora Wall. Quest’ultima è un’anziana ex
suora della congregazione delle Sisters of
Mercy, condannata all’ergastolo per lo stupro
di una minorenne, nel 1997: la sua colpevolezza
era stata affermata in seguito a
ricordi emersi confusamente nel corso di
una psicoterapia della presunta vittima!
Nora è stata poi assolta due anni dopo,
una volta constatata la sua assoluta innocenza.
Per due anni ella fu per gli irlandesi
la suora pedofila, la religiosa che procurava
bambini ai sacerdoti pedofili, il
mostro dell’Irlanda, il “diavolo Wall”,
sbattuta in tv e sui giornali con assidua
frequenza (vedi: Irish Independent, 23 novembre
1999 e l’articolo “Final conversion
from monster to martyr”, di Ann Marie
Hourihan, comparso sul Sunday Tribune,
1° febbraio 2004).
Alla sua assoluzione i giornali parlarono
di “the state’s most extraordinary miscarriages
of justice”. Penso, infine, agli
otto vescovi irlandesi, su ventisei, accusati
ingiustamente di pedofilia, come dimostra
Rory Connor (www.irishsalem.com) e
alla battaglia di Florence Horsman Hogan,
una infermiera protestante, cresciuta
in una specie di Magdalene Laundry
delle Sisters of Mercy, che ha creato una
associazione, “Let our voice emerge”, con
cui vuole ricordare anche il bene fatto da
tante suore a ragazze molto problematiche,
come era lei: anche perché, ha dichiarato,
le vere vittime, le cui terribili ferite
non possono che generare profonda
compassione, non siano confuse con gli
approfittatori, i furbi, con coloro che cercano
solo fama o risarcimenti economici,
o che sono pronti a cavalcare gli scandali
per motivi di pura avversione ideologica.

© Copyright Il Foglio 14 maggio 2010