Relazione al seminario di studio su "L'unità nazionale: memoria condivisa, futuro da condividere", Genova, 3 maggio 2010, in preparazione alla 46.ma settimana sociale dei cattolici italiani. L'autore è professore di storia contemporanea all'Università di Padova
di Gianpaolo Romanato
1. La riflessione che mi è stato chiesto di proporvi in questo seminario preparatorio alla prossima Settimana Sociale di Reggio Calabria (14-17 ottobre 2010) non può non partire dal famoso discorso che Giovanni Battista Montini tenne in Campidoglio il 10 ottobre 1962, alla vigilia dell’apertura del Concilio Vaticano II e un anno dopo la celebrazione del centenario dell’unità d’Italia. Con quel periodare che gli era caratteristico, che nella elaborata complessità delle espressioni quasi rifletteva la complessità dei problemi in discussione, l’arcivescovo di Milano, che meno di un anno dopo sarebbe diventato sommo pontefice, sostenne che il 20 settembre del 1870 la “Provvidenza” aveva ingannato tutti, credenti e non credenti.
Aveva ingannato i credenti, che dalla fine del potere temporale temevano il crollo dell’istituzione ecclesiastica, e aveva ingannato i non credenti, che dopo la presa di Roma quel crollo desideravano e attendevano. Accadde infatti, osservò Montini, che perduta “l’autorità temporale”, ma acquistata “la suprema autorità nella Chiesa”, il papato riprese “con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo” (1). Non avvenne, dunque, il disastro annunciato – temuto o sperato che fosse – ma si schiuse al papato una stagione di ritrovata credibilità e alla Chiesa tutta un capitolo di profondo rinnovamento.
Chi vi sta parlando – cioè uno studioso laico, che è abituato a ragionare laicamente – non può far ricorso alla parola Provvidenza come categoria interpretativa dei fatti storici. E si trova quindi spiazzato davanti all’evidente paradossalità di quanto accadde un secolo e mezzo fa. Da un evento che la Chiesa del tempo, sia pure con significative eccezioni, visse come catastrofico, e che alimentò una drammatica e annosa rottura con lo Stato italiano, nacque una stagione di vitalità cattolica e di prestigio per il papato indubbiamente più felice e rigogliosa di quella che ci si era lasciati alle spalle. Un caso esemplare, potremmo dire, di eterogenesi dei fini.
C’è dunque un risultato positivo del 20 settembre, che va ricordato. Il papato si liberò dell’ingombrante fardello del potere temporale ed entrò nella modernità finalmente libero da un impaccio che rendeva la Chiesa, in piena epoca liberale, un’anacronistica sopravvivenza dell’ancien régime prerivoluzionario.
Ma ricordando questo risultato, non possiamo fare a meno di riflettere sul fatto che a produrlo fu la pressione degli eventi italiani, cioè un fattore esterno e contrapposto alla Chiesa, e non un’autonoma scelta ecclesiastica. Né possiamo ignorare che ciò che Montini chiamerà evento provvidenziale e liberatorio, la Chiesa del tempo lo visse in tutt’altro modo: come un dramma di proporzioni apocalittiche che alimentò una frattura politica e sociale le cui conseguenze non si sono ancora, a ben guardare, del tutto e totalmente rimarginate. Non possiamo fare a meno di notare, insomma, negli eventi che accompagnarono il compimento dell’unificazione, un aspetto contraddittorio che fatichiamo anche oggi, a distanza di quasi un secolo e mezzo, a comprendere.
È vero, potremmo aggiungere, che alla dimensione statuale la Santa Sede non ha mai rinunciato, e l’ha riottenuta con gli accordi del 1929 e la conserva tuttora saldamente. Ma è evidente che ciò non può essere in alcun modo una giustificazione a posteriori della grande rottura ottocentesca. Tra lo Stato pontificio anteriore al 1870 e quello Stato reale ed effettivo, ma territorialmente simbolico e sostanzialmente privo del potere civile che è l’odierna Città del Vaticano, corre una differenza immensa, che a nessuno può sfuggire.
Perché, dunque – questa, credo, è la domanda che un secolo e mezzo dopo non possiamo non porci, portando a conclusione il ragionamento del card. Montini –, perchè la Chiesa del tempo subì anziché provocare essa stessa un mutamento che, alla lunga, si rivelò un guadagno? Perché non rinunciò essa stessa allo Stato temporale che già in occasione della guerra federale del 1848 era apparso un peso e una contraddizione?
Non ho risposte da dare a questo interrogativo, che ripropone, in tutta la sua drammatica e irrisolta complessità, il nodo difficile e sempre riaffiorante del rapporto della Chiesa con il tempo e la storia, una storia che essa vorrebbe dominare e dalla quale invece, non infrequentemente, è dominata, e non sempre, aggiungo, ricevendone un danno.
Il pensiero corre quasi per forza agli eventi tristi di queste ultime settimane. Anche oggi è la pressione esterna, probabilmente tutt’altro che disinteressata, che ha fatto emergere la piaga della corruzione morale di una parte del clero e ha costretto l’istituzione a voltar pagina. Oggi però a capo della Chiesa c’è un pontefice il quale, anziché subire gli eventi, quasi li precorre, imponendo alla Chiesa universale una linea di condotta non di arroccamento attorno alla propria giurisdizione ma di totale rispetto e adeguamento alle giurisdizioni pubbliche e civili. La svolta che Benedetto XVI sta oggi imprimendo all’istituzione ecclesiastica costituisce una rivoluzione di portata epocale, una svolta che non tutti hanno ancora compreso, né dentro né fuori della Chiesa.
Una rivoluzione che suggerisce qualche interrogativo circa l’esito che avrebbero potuto avere gli eventi risorgimentali se anche un secolo e mezzo si fossero anticipati i fatti anziché subirli. Interrogativo naturalmente senza risposta, ma che serve a farci capire come una memoria condivisa del nostro passato debba necessariamente passare attraverso un serio ripensamento critico anche da parte cattolica, dei fatti che accompagnarono l’unificazione nazionale.
Ripensamento critico che se dovesse coinvolgere anche l’altro dei due contendenti di allora, cioè lo Stato, non potrebbe tralasciare di affrontare il nodo rappresentato dalla guerra alla Chiesa che si volle ingaggiare allora. Guerra che produsse l’effetto di demolire l’unico sentimento che accomunava gli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartenessero e in qualunque degli stati preunitari vivessero: il sentimento religioso, il senso di appartenenza alla Chiesa. A me pare che il vuoto, anche civile, che si è aperto allora, non sia stato ancora colmato.
2. E ripensando i fatti di allora c’è un secondo problema sul quale vale la pena di soffermarsi. L’arroccamento attorno alla protesta del papato isolò il cattolicesimo italiano, quasi lo staccò dal flusso degli eventi nazionali, lo rinchiuse dentro le proprie istituzioni. All’ombra della cultura intransigente nacquero in Italia giornali, scuole, istituti di credito ed enti con finalità sociali, nuove congregazioni religiose e inedite proiezioni missionarie, mentre le vecchie forme religiose cambiavano e si rinnovavano in profondità. La parrocchia, da luogo di culto devozionale divenne in centro propulsore di molteplici attività e il sacerdote, per così dire, scese dall’altare entrando nel vivo delle questioni del tempo.
I cattolici si abituarono a pensarsi come una realtà civile e politica distinta e separata dal resto del Paese, protetti e riparati dalle proprie istituzioni, dalla propria ideologia, da una cultura dell’assedio che dava forza ma limitava inesorabilmente gli orizzonti. E dalla separazione alla contrapposizione il passo fu breve. Fu una grande trasformazione, che riceverà ulteriori impulsi quando l’enciclica "Rerum novarum", nel 1891, aprirà all’azione del cattolicesimo organizzato gli spazi sterminati della questione sociale.
Il risultato di tutto ciò fu una generale politicizzazione dei cattolici i quali, loro malgrado, si trovarono ad essere un partito, cioè una parte rispetto al tutto della nazione, inevitabilmente contrapposta alle altre, e una parte che scendendo nell’agone politico diventava antagonista e competitrice nella lotta per il potere.
La trasformazione fu colta perfettamente da Luigi Sturzo nel celebre discorso che pronunciò a Caltagirone nel 1905, ben prima della fondazione del popolarismo, allorché affermò: “Io suppongo i cattolici non come congregazione religiosa (…), nè come l’autorità religiosa (…), né come la turba dei fedeli (…), né come un partito clericale (…), ma come una ragione di vita civile informata ai principi cristiani nella morale pubblica, nella ragione sociologica, nello sviluppo del pensiero fecondatore, nel concreto della vita pubblica”. E aggiunse che i cattolici erano ormai “i rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del vivere civile” (2). Erano diventati cioè un partito, che attendeva solo il momento opportuno per costituirsi come tale e scendere nell’agone parlamentare. Ciò avverrà, come sappiamo, dopo la prima guerra mondiale, evento che aprì una fase nuova, interrotta dall’irruzione del fascismo e ripresa alla caduta del regime per durare fin quasi alla fine del secolo scorso.
Anche questa quasi secolare vicenda – una vicenda definitivamente conclusa o solo interrotta? propongo un interrogativo che credo non sia privo di qualche aspetto di interesse… – si presta a diverse letture, ad un ripensamento critico che finora è stato troppo condizionato dalla conclusione ingloriosa in seguito alle ben note vicende di Tangentopoli. L’esperienza partitica dei cattolici presenta indubbiamente un bilancio positivo che è doveroso ricordare, a partire dal giudizio che un grande storico, Federico Chabod, diede della nascita del popolarismo: “L’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo” (3).
Perché quel giudizio è ancora valido, benché pronunciato mezzo secolo fa? Per dirla in breve: perché allora si sanò una frattura drammatica; perché si ricompose il rapporto fra corpo sociale e rappresentanza politica, cioè fra Paese legale e Paese reale, come si diceva nell’Ottocento, significando con tale espressione come una parte cospicua del Paese vero, quello che vive concretamente la vita d’ogni giorno, dall’Unità fino al 1919 fosse rimasta esclusiva, priva di rappresentanza e di voce; perché furono immesse nel circuito politico idee destinate a fare molta strada. Ricorderò le principali: la riforma agraria e la necessità di creare la piccola proprietà contadina; l’adozione della proporzionale in luogo del maggioritario; il decentramento amministrativo e la valorizzazione dell’ente locale, inclusa la regione; la riforma tributaria fondata sulla progressività delle imposte; il superamento del nazionalismo e l’avvio di un ordinamento internazionale capace di imbrigliare gli stati-nazione.
3. Poche di queste idee si realizzarono allora. Bisognerà attendere il secondo dopoguerra e l’assunzione del governo da parte della Democrazia Cristiana, alla fine del 1945, per vedere attuato più largamente quel programma. Io credo che a questo partito, del quale oggi, con poca equanimità, si ricordano le infelici circostanze della morte più che la lunga vita, tutto sommato operosa e positiva, si debbano riconoscere almeno due meriti.
Il primo è quello di aver reso la democrazia costume diffuso, pratica accettata e condivisa, di aver superato quella cultura politica delle separazioni e delle contrapposizioni – di classe, di ceto, di interessi, di ideologie – che aveva segnato la storia nazionale tanto nel periodo liberale quanto nel tragico quadriennio prefascista quanto poi nel ventennio del fascismo.
Per più di ottant’anni c’erano state due Italie che si erano contrapposte, quella del potere e quella dell’antipotere, democratico, mazziniano, garibaldino, cattolico, socialista, fascista o antifascista che fosse. Il sogno di un’Italia diversa ha alimentato la fantasia di generazioni di italiani. Con i giudizi dei delusi e degli sconfitti – giudizi critici, sprezzanti, frustrati, dolenti, arrabbiati – si potrebbe riempire un’antologia, da Alberto Mario, il vecchio garibaldino repubblicano, uno dei padri del Risorgimento, secondo il quale (siamo nel 1880) “sussistono più relazioni tra la luna e la terra che fra Montecitorio e l’Italia, perchè alla luce del pensiero nazionale non riesce mai di penetrare nell’atmosfera che avvolge Montecitorio” (4), a Giovanni Amendola, che su "La Voce", la rivista di Prezzolini, sentenziava lapidario nel 1910, un anno prima delle celebrazioni cinquantenarie: “L’Italia come è oggi non ci piace”, aggiungendo che “la nazione è poco più di un mito che tramonta e di una speranza che sorge” (5). Insomma: un mito infranto e una vaga speranza nel futuro. Perché stupirci allora dello scarso entusiasmo che suscitano le prossime celebrazioni centocinquantenarie? È una vecchia storia che si ripete…
Se vogliamo parlare concretamente e non astrattamente della memoria storica che ha costruito la nostra identità non possiamo prescindere dal ricordare questa secolare divisione fra le due Italie, né dobbiamo stupirci davanti al fatto che anche oggi essa riaffiori. La spaccatura che ne derivò fu all’origine di molte tragedie nazionali, dall’ingresso nella prima guerra mondiale alla guerra civile, come ormai viene comunemente chiamata (6), che insanguinò questo Paese prima e dopo il ventennio fascista.
Per capire quanto il potere fosse lontano dall’Italia vera, profonda, quanto poco interpretasse il Paese che governava, bisogna andare a rileggere le pagine dimenticate dell’Inchiesta Jacini sulle condizioni dell’agricoltura in Italia. Era trascorso poco più di un ventennio dall’unificazione e il ritratto delle campagne italiane che ci presentano studiosi e analisti di scuola liberale, non socialista o rivoluzionaria, è a dir poco spaventoso, soprattutto nel Veneto, la parte d’Italia che oggi ci si chiede perché sia così lontana da Roma. Se tornassimo a meditare gli atti di quell’indagine, capiremmo qualcosa di più degli stati d’animo che hanno prodotto e alimentato nel tempo, già a partire dal momento dell’annessione (1866), i sentimenti di estraneità d’una regione contadina che sarà poi costretta a sopportare tutto il peso della Grande Guerra e nella quale per troppi anni il Governo si fece riconoscere quasi soltanto con il volto nemico del gendarme, dell’esattore, della cartolina precetto.
4. Credo sia un dovere di equanimità e non un giudizio di parte affermare che la lunga stagione dei governi a guida democristiana ha sanato quella frattura, ha stemperato le distanze fra governanti e governati e fra gli stessi governati, ha contribuito a rendere più omogeneo, unito e compatto un Paese che fino ad allora aveva conosciuto più contrapposizioni e discordie che motivi di unione. Gli anni della guida degasperiana, benché coincidenti con la fase più acuta e lacerante della guerra fredda, sono stati in questo senso esemplari. Forse per la consapevolezza della fragilità del nostro tessuto sociale, consapevolezza che nello statista trentino, nato austriaco e non italiano, era maggiore che negli uomini nati e cresciuti sempre in Italia.
Tale consapevolezza in lui si aggiungeva a quella della condizione di minoranza del cattolicesimo in Italia, come scrisse lucidamente e direi quasi profeticamente all’indomani dei Patti Lateransi, in una lettera dell’8 giugno 1929: “Ritengo che la fonte principale dei guai è e sarà la premessa storicamente non vera che l’Italia sia uno Stato cattolico. La dittatura non offre particolari vantaggi per vedere in fondo, ma il fondo è che i cattolici sono in minoranza, non avanzano ma regrediscono” (7).
Il secondo merito che, a mio giudizio, va riconosciuto alla Democrazia Cristiana, consiste nel fatto di avere proposto e imposto all’Italia una politica estera finalmente lineare e coerente, abbandonando quei sogni di grandezza, troppo sproporzionati rispetto alle nostre deboli forze, che a suo tempo ci trascinarono nella sciagurata avventura coloniale e poi in entrambe le guerre mondiali. Il crollo della nostra immagine internazionale, frutto di molte scelte sbagliate e di troppi cinici voltafaccia diplomatici, è tristemente ritratto nel giudizio che diede di noi il segretario di Stato americano Donald Acheson nel marzo del 1949 quando propose al presidente Truman di non accoglierci nella nascente Alleanza atlantica – proposta poi accantonata grazie alle pressioni francesi in nostro favore – perché, scrisse, “nelle due guerre mondiali l’Italia ha dimostrato di essere un alleato inefficace e infido avendo cambiato bandiera in entrambe le guerre” (8).
È da qui, quasi da un abisso, che dovettero ripartire De Gasperi e quanti lo coadiuvarono nel ricostruire la credibilità italiana, per ricollocare e poi mantenere il nostro Paese in un quadro di relazioni internazionali, dall’alleanza atlantica all’unione europea, con tutti gli oneri che ne derivarono, al quale da allora siamo sempre rimasti saldamente e coerentemente ancorati.
5. È tempo di concludere. Nella complessa storia italiana la questione cattolica è passata attraverso tre fasi. La prima fase è stata quella dello scontro e dell’opposizione, per riprendere una vecchia espressione di Spadolini. La seconda fu quella del popolarismo, che pose semi fecondi ma si concluse troppo in fretta, prima che quella seminagione potesse dare risultati. La terza fase, quella del governo del Paese, composta di luci e di inevitabili ombre, terminò malamente, come sappiamo, in circostanze che hanno enfatizzato solo gli errori e le colpe, oscurando tutto il positivo di una storia che si era prolungata per quasi mezzo secolo.
Su quella vicenda è calata una coltre di silenzio che a mio parere ha ingiustamente punito tutto e tutti e creato un’altra artificiale frattura nella storia nazionale. Si è così dimenticata un’esperienza di solidarietà politica fra cattolici e laici non comunisti – quell’esperienza fermamente voluta e quasi imposta da De Gasperi anche quando la Dc avrebbe potuto governare da sola – che ha dato molti positivi risultati, non ultimo dei quali è quello di aver saputo tenere a freno certe intemperanze integraliste della sinistra cattolica di matrice dossettiana (9). E si è dimenticata una stagione di pace, di progresso e di modernizzazione del nostro Paese che ha definitivamente inserito l’Italia nel campo ristretto dei paesi più civili e avanzati.
Ricordare tutto questo non significa promuovere o difendere una memoria di parte, ma ricomporre le tessere sparse di una memoria nazionale che esiste, ed è viva e feconda solo se riconosciamo che si compone di diversità storiche, ideologiche, sociali, culturali e politiche. È solo, a mio parere, dal riconoscimento e dal rispetto delle diverse memorie che compongono il nostro passato – posto che gli eventi trascorsi sono oggettivi, irrevocabili, e il loro ricordo inevitabilmente soggettivo – che sarà possibile guardare avanti e progettare un futuro di condivisione e non di ulteriori fratture.
Oggi il cattolicesimo non è più la realtà politica che è stato, non è più un partito. E sono convinto che questo sia un bene per tutti. Il sentire cattolico cerca nuove strade, nuove forme di espressione, che in questo momento sono rese difficili dall’evidente indebolimento del senso di appartenenza alla Chiesa e dai crescenti ostacoli con cui si scontra l’esperienza del credente di fronte alle sfide continue e sempre nuove della modernità. Ma questo seminario, che precede la prossima settimana sociale di Reggio Calabria, dimostra che l’Italia può ancora contare sull’apporto costruttivo e sincero dei cattolici, non più condizionato dagli interessi di parte ma orientato verso un futuro di convivenza e di solidarietà.
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(1) G.B. Montini, "Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963)", a cura di A. Rimoldi, Quaderni dell’Istituto Paolo VI, Roma-Brescia, 1983, pp. 170-171.
(2) L. Sturzo, "I discorsi politici", Istituto Sturzo, Roma, 1951, pp. 358-359.
(3) F. Chabod, "L’Italia contemporanea", Einaudi, 1961, p. 43.
(4) "Tra Risorgimento e Nuova Italia. Alberto Mario un repubblicano federalista", a cura di Pier Luigi Bagatin, Centro Editoriale Toscano, Firenze, 2000, p. 170.
(5) G. Prezzolini, "La Voce 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista", Rusconi, Milano, 1974, pp. 685-687.
(6) F. Fabbri, "Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo", 1918-1921, Utet, Torino, 2009.
(7) Maria Romana Catti De Gasperi, "De Gasperi uomo solo", Mondadori, Milano, 1964, p. 145.
(8) G. Mammarella-P. Cacace, "La politica estera dell’Italia dallo Stato unitario ai nostri giorni", Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 178.
(9) È interessante questa riflessione di Giuseppe Dossetti. “Nel 1948, quando noi avevamo avuto una maggioranza assoluta che ci consentiva di governare con governi stabili non si sono fatti i governi stabili, oppure si è fatto passare chi sosteneva i governi stabili, quelli efficienti, come un integralista che voleva il potere solo per la propria parte; non è che si volesse il 'potere', ma si voleva che la parte cattolica, avendo la responsabilità e il mandato da parte dell’opinione pubblica che aveva dato quei voti, adempisse questa responsabilità. Non l’ha voluta adempiere per il pregiudizio di De Gasperi – questo espressamente detto con me – che non si potevano escludere le correnti risorgimentali, quindi i liberali, i socialisti e i socialisti democratici, dal governo; che sarebbe stata maggiore la responsabilità del partito cattolico se fosse stato solo; e, terza cosa, che sarebbe stata meno facilmente removibile la pressione della Santa Sede su un governo di soli cattolici” (G. Dossetti, "La ricerca costituente. 1945-1952", Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 50-51).