DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

LA RIFORMA DELLA LIBERA COSCIENZA La zona grigia dell’agenda progressista sui temi della scienza, della vita e della morte

di Paolo Rodari
Non c’è solo la richiesta di maggiore
collegialità nell’esercizio del governo
della chiesa. E nemmeno tutto è racchiuso
nelle formule “no al celibato”, “sì alle
donne prete”, “nuova dottrina cattolica
per gli omosessuali”. L’agenda progressista
per la chiesa dell’oggi è dettagliata anche
nel settore più delicato quanto al rapporto
tra chiesa e modernità: la bioetica.
Aborto, scelte di fine vita, la nuova eugenetica,
ingegneria genetica, trapianti,
obiezione di coscienza, procreazione medicalmente
assistita e sperimentazione
sull’uomo sono i punti caldi. E sempre in
evoluzione.
Da una parte c’è la chiesa che sostiene
la non piena disponibilità e programmabilità
della vita: la chiesa dei princìpi
“non negoziabili”, come li ha definiti Benedetto
XVI poco dopo essere salito al soglio
di Pietro. Dall’altra chi anche nella
chiesa pensa che la vita possa non essere
indisponibile: c’è sempre un momento in
cui è possibile fare un passo indietro, cedere,
mediare. Beninteso: qui il cardinale
arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn
non c’entra nulla. La sua posizione
in merito è chiara. Già nel celebre articolo
del 2005 scritto per il New York Times
nel quale elaborò una dura critica all’evoluzionismo
darwiniano aprendo anche alla
teoria del “disegno intelligente”, aveva
messo in guardia dall’influenza che l’evoluzionismo
come ideologia ha nei campi
del neoliberalismo economico, in quello
della pedagogia in Europa, e nelle questioni
di bioetica dove rischia di dare vita
a nuove teorie eugenetiche. E poi anche
un anno dopo al Meeting di Rimini di Comunione
e liberazione tornò sull’argomento:
“La chiesa cattolica oggi si trova
spesso da sola a difendere la dignità assoluta
dell’uomo dal concepimento sino alla
morte naturale. Nonostante le critiche,
la chiesa continua a credere fermamente
che vi sia un linguaggio del Creatore e
pertanto un ordine eticamente vincolante
nella creazione che continua a rimanere
criterio fondamentale”.
Ma, se non è Schönborn a rappresentare
un problema, la stessa cosa non la si
può dire degli altri vescovi del suo paese.
E’, infatti, nell’episcopato austriaco, come
anche in quello tedesco, che le idee circa
la bioetica sono espresse sovente in modo
scivoloso. Del resto l’ha spiegato, in tempi
recenti, pure il cardinale Carlo Maria
Martini. Nel libro del 2008 “Colloqui notturni
a Gerusalemme” dove si definisce
“un ante Papa”, ovvero “un precursore e
preparatore per il Santo Padre”, Martini
apre il fuoco contro l’enciclica di Paolo VI
del 1968 sul matrimonio e la procreazione
Humanae Vitae e, nel farlo, rivela le sue
fonti. O meglio, i suoi ispiratori. Dice: “Dopo
l’enciclica Humanae Vitae i vescovi austriaci
e tedeschi, e molti altri vescovi, seguirono,
con le loro dichiarazioni di
preoccupazione, un orientamento che oggi
potremmo portare avanti”. Un orientamento
che esprime “una nuova cultura
della tenerezza e un approccio alla sessualità
più libero da pregiudizi”. Un
orientamento, tuttavia, più volte sconfessato
dai Pontefici. Tante le udienze ad limina
nelle quali i due episcopati hanno
subìto un richiamo all’ordine. Tra queste,
una memorabile avvenuta nel 1987. Giovanni
Paolo II disse ai vescovi dell’Austria
che più volte si erano espressi in modo
ambiguo sulla contraccezione: “L’invito
alla contraccezione vista come una modalità
di relazione tra i sessi che si suppone
‘innocua’ non costituisce soltanto
un’insidiosa negazione della libertà morale
dell’uomo. Incoraggia infatti un’interpretazione
spersonalizzata della sessualità
che viene ristretta principalmente al
momento dell’unione fisica e promuove,
in ultima analisi, quella mentalità dalla
quale emerge l’idea dell’aborto e dalla
quale viene continuamente nutrita”.
Da Paolo VI a oggi la battaglia è chiara:
da una parte coloro che vogliono fare proprie
le idee che, a detta di Martini, vennero
inaugurate anni fa dagli episcopati austriaci
e tedeschi contro l’Evangelium vitae
dei pontificati da Pacelli a Wojtyla fino
a Ratzinger. Dall’altra chi non vuole
cedere. Scrive ancora Martini: dopo Paolo
VI venne Giovanni Paolo II, che “seguì
la via di una rigorosa applicazione” dei
divieti dell’enciclica. “Non voleva che su
questo punto sorgessero dubbi. Pare che
avesse perfino pensato a una dichiarazione
che godesse il privilegio dell’infallibilità
papale”. E dopo Giovanni Paolo II è
venuto Benedetto XVI. Da lui Martini
scrive di aspettarsi non tanto un ritiro
dell’Humanae Vitae, quanto la scrittura
di un nuovo testo dove “i propri errori” e
“la limitatezza delle proprie vedute di ieri”
vengano ammesse.
Ratzinger pone alla base d’ogni discussione
l’accettazione dei principi “non negoziabili”.
In molti chiedono di partire da
un altro approccio. Stefano Ceccanti si è
formato nella Fuci (ne è stato presidente)
e su queste tematiche riflette in qualche
misura il pensiero di quel mondo. Dice:
“Trattandosi di problemi obiettivamente
aperti, che chiamano in causa sia la coerenza
con princìpi e valori sia la valutazione
puntuale di singole proposte, anche
sperimentali, è impensabile una rigida distinzione
di ruoli interni alla comunità ecclesiale,
sia nel senso di richiedere ai sacerdoti,
ai vescovi e allo stesso Papa un silenzio
in materia con l’idea di un’autonomia
assoluta dei laici cristiani, sia, all’opposto,
una forma disciplinare così stringente
che annulli il ruolo di questi ultimi.
Come dice don Severino Dianich, animatore
e presidente per lunghi anni dell’Associazione
teologica italiana, tutti devono
operare in quest’ambito consapevoli di
muoversi ‘sul mobile terreno dei tentativi,
contingenti e rischiosi, di vivere il vangelo
nella situazione, con l’intenzione di
rendere all’uomo il miglior servizio possibile,
che poi la storia e non il dogma giudicherà’”.
Più esplicito è Giovanni Avena. Dirige
l’agenzia di stampa Adista, punto di riferimento
del cattolicesimo del dissenso.
Dice: “La chiesa non può trattare il no all’aborto
e all’eutanasia, il no ai contraccettivi,
alla masturbazione etc., come se
fossero dei dogmi. I dogmi sono altri. Sono
l’esistenza di Dio, la santissima Trinità,
il mistero dell’incarnazione. Questi sì che
devono essere messi come punti fermi la
cui non accettazione porta all’esclusione
dalla chiesa. Ma il resto no”. Perché?
“Semplice: non si può fare fuori la libertà
di coscienza in questo modo. Il credente
deve essere lasciato libero di decidere in
coscienza cosa fare. L’aveva detto benissimo
padre Bernard Häring, tra i più grandi
teologi morali del XX secolo, le cui tesi
furono seriamente osteggiate dal
Sant’Uffizio. Criticò apertamente l’Humanae
Vitae per la condanna della contraccezione.
Secondo lui la chiesa doveva salvaguardare
la libertà del credente di scegliere
la trasgressione, il peccato. E poi,
eventualmente, la redenzione tramite la
confessione”.
Problema serio quello della libertà di
coscienza. Già il cardinale John Henry
Newman ebbe a dire: “Brindo al Papa,
ma prima alla coscienza”. E anche Ratzinger
disse la sua in merito quando ancora
era alla guida della Dottrina della
fede. Si trovava per una conferenza a Siena.
Disse: “Quanto avrebbe da guadagnare
la chiesa dall’esistenza nel mondo cattolico
di uomini liberi come erano nel
medioevo santa Caterina, Dante o Antonio
da Padova, veri figli di Dio i quali sanno
che non si serve Dio con la menzogna,
con l’omertà e col servile vassallaggio di
un certo clericalismo. Quanti fatti orrendi
sarebbero stati evitati, risparmiando
alla chiesa la vergogna e l’onta”. Perché
“al di sopra del Papa, come espressione
della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica,
resta comunque la coscienza
di ciascuno, che deve essere obbedita prima
di ogni altra cosa, se necessario anche
contro le richieste dell’autorità ecclesiastica.
L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza
si fa innanzi come supremo e ultimo
tribunale, e che in ultima istanza è
al di là di ogni pretesa da parte di gruppi
sociali, compresa la chiesa ufficiale, stabilisce
inoltre un principio che si oppone
al crescente totalitarismo”. Oggi molti tra
coloro che ai “princìpi non negoziabili”
in campo morale contrappongono il diritto
alla libertà di coscienza si fanno forti
di questa frase di Ratzinger. Anche se, a
onore del vero, la libertà di coscienza
evocata da Ratzinger presuppone la verità
e soltanto in questo senso indica alla
volontà il cammino che deve percorrere.
Il richiamo alla coscienza di Ratzinger,
insomma, non può giustificare qualsiasi
scelta dell’uomo anche perché “extra ecclesiam
nulla salus”.
Al contrario la pensano altre vulgate.
Tra queste quella ravvisabile tra le righe
di due testi che hanno fatto molto parlare
di sé. Le interviste-confessioni del cardinale
Martini: non solo “Conversazioni notturne
a Gerusalemme” con Georg Sporschill,
ma anche “Siamo tutti nella stessa
barca” con don Luigi Verzé. Scrive Roberto
de Mattei: “Sono di impronta rahneriana,
per l’universalismo salvifico e la ‘morale
debole’. Martini, come Rahner, ritiene
che la missione della chiesa sia aprire
le porte della salvezza a tutti, compresi
coloro che si discostano dalla fede e dalla
morale cattolica”.
Stefano Semplici insegna Etica sociale
all’Università di Roma Tor Vergata. Il suo
pensiero in merito è articolato. Dice: “Il
Papa ha ribadito nella sua ultima enciclica
– e dunque proprio nel contesto di
un’ampia riflessione sulle grandi questioni
dell’economia, della giustizia sociale e
del rispetto dell’ambiente – che il ‘campo
primario e cruciale’ nel quale ‘si gioca radicalmente
la possibilità stessa di uno
sviluppo umano integrale’ è quello della
bioetica. Mentre si può discutere delle soluzioni
migliori per affrontare il problema
della povertà, qui ci si trova insomma
di fronte a un aut aut decisivo, perché si
tratta di decidere ‘se l’uomo si sia prodotto
da se stesso o se egli dipenda da Dio’.
La chiesa fa bene a incalzare la versione
semplificata e ridotta del valore della libertà
che la fa coincidere con un’idea
astratta di autodeterminazione. E’ condivisibile
il richiamo anche insistente alla
cura della relazione, alla responsabilità
per i doveri che vengono insieme ai diritti
e forse prima di essi, all’esperienza che
la libertà non si produce, non si sostiene,
non si rende felice da sé. Che non la si
può volere e difendere senza volere, senza
lasciare che la vita sia. Questa posizione
‘forte’ sarebbe tuttavia pienamente
compatibile con la valorizzazione di due
sensibilità che hanno radici profonde
nella grande tradizione della Chiesa. La
prima è quella che, seguendo l’insegnamento
di Tommaso d’Aquino, riconosce
la specificità della ragione pratica nella
‘saggezza’ con la quale il principio si applica
alla situazione concreta, mettendo
in conto la possibilità dell’eccezione. La
seconda suggerisce di non cedere alla
tentazione di utilizzare l’argomento della
‘sacralità’ della vita come una sorta di
passepartout. La bioetica corrisponde in
realtà ad un fascio complesso e diversificato
di problemi. Si pensi solo alla differenza
radicale fra le questioni di inizio
vita che implicano la scelta appunto su
un’altra vita e quelle che coinvolgono solo
il desiderio di una persona di decidere
quando è arrivato per lei il momento
di non resistere più alla morte. Non si
chiede alla chiesa di ‘negoziare’, ma di riprendere
la linea tracciata per esempio
nella Dichiarazione sull’eutanasia del
1980, nella quale si riconosceva senz’altro
che spesso ‘la complessità delle situazioni
può essere tale da far sorgere dei dubbi
sul modo di applicare i princìpi della
morale’. E che in questi casi ‘prendere
delle decisioni spetterà in ultima analisi
alla coscienza del malato’, naturalmente
insieme alle persone che lo accompagnano
e lo amano. Basterebbe questo ad
orientare in modo diverso un confronto
come quello in atto in Italia sulle Dichiarazioni
anticipate di trattamento”.

(Fine. Gli articoli precedenti sono stati pubblicati
il 13 e il 15 maggio e sono su www.ilfoglio.it).

© Copyright Il Foglio 18 maggio 2010