Pubblichiamo la lettera aperta che
il saggista cattolico americano George
Weigel ha scritto al teologo tedesco
Hans Küng, in rete dal 21 aprile 2010
sul sito web della rivista First Things.
Gentile Hans Küng, una quindicina
d’anni fa un suo ex collega, tra i più
giovani teologi progressisti del Concilio
Vaticano II, mi raccontò di un amichevole
avvertimento che le aveva dato all’inizio
della seconda sessione del Concilio. Di
quei giorni eccitanti, questo autorevole
studioso della Bibbia e sostenitore della
riconciliazione tra ebrei e cristiani ricordava
che lei lo aveva portato in giro per
Roma su una Mercedes rossa decappottabile,
secondo lui uno dei frutti del successo
commerciale che aveva ottenuto il suo
libro “The Council: Reform and Reunion”.
Questo tour automobilistico fu considerato
dal suo collega imprudente e inutilmente
autopromozionale, dato che alcune
delle sue opinioni più rischiose, così come
la sua dote per quello che in seguito fu
detto sound bite, il breve intervento mediatico,
stavano già facendo inarcare molte
sopracciglia nella curia romana. Quindi,
così come mi è stata raccontata la storia, il
suo amico un giorno la prese da parte e
disse, usando una parola francese di cui
entrambi comprendevate perfettamente il
significato: “Hans, stai diventando troppo
évident”.
Lei ha inventato in solitario un nuovo
personaggio globale – il teologo dissidente
come star dei media internazionali – e
dunque suppongo che non sia rimasto particolarmente
contrariato dall’ammonimento
del suo amico. Nel 1963 lei era già deciso
a ritagliare un percorso assolutamente
particolare per sé, ed era abbastanza saggio
per sapere che una stampa mondiale
ossessionata dalla storia del sacerdote-teologo
dissidente avrebbe dato un enorme
amplificazione alle sue parole. Penso anche
che sia stato deluso dal compianto
Giovanni Paolo II perché aveva cercato di
smantellare la sua versione della storia togliendole
il mandato ecclesiastico per l’insegnamento
della teologia cattolica. La
successiva e ringhiosa arringa sulla presunta
inferiorità intellettuale di Karol
Wojtyla, pubblicata in un volume di sue
memorie, ha rappresentato, fino a poco
tempo fa, il punto più basso di una carriera
polemica nella quale si è certamente distinto
nel modo più évident come un uomo
incapace di riconoscere intelligenza, onestà
e buona volontà nei propri avversari.
Ho detto “fino a poco tempo fa” perché,
nella sua lettera aperta del 16 aprile, indirizzata
ai vescovi di tutto il mondo, ha stabilito
un nuovo record in quella particolare
forma di odio nota con il termine di
odium theologicum, con una malvagia condanna
nei confronti di un vecchio amico
che, al momento di ascendere al papato, si
era mostrato generoso con lei, incoraggiando
persino alcuni aspetti del suo attuale
lavoro.
Prima di dedicarmi al suo attacco sull’integrità
di Papa Benedetto XVI, comunque,
mi permetta di osservare che il suo
articolo dimostra chiaramente che non ha
considerato con sufficiente attenzione la
questione sulla quale si è pronunciato con
un tono di infallibile sicurezza che farebbe
arrossire Pio IX.
Lei sembra del tutto indifferente al
caos dottrinale che sta opprimendo gran
parte del protestantesimo europeo e nordamericano,
e che ha creato una situazione
che impedisce un dialogo ecumenico
teologicamente serio. Lei si scaglia senza
pietà contro Pio XII, prendendo alla lettera
le sue posizioni, a quanto pare del tutto
ignaro che gli studi più recenti stanno
invece mettendo in luce il coraggio mostrato
da Pio XII in difesa degli ebrei
d’Europa (nonostante tutto ciò che si possa
pensare del suo atteggiamento improntato
alla prudenza). Lei travisa gli effetti
del discorso pronunciato da Benedetto
XVI a Ratisbona nel 2006, accusandolo
frettolosamente di avere fatto una “caricatura”
dell’islam. In realtà, il discorso di
Ratisbona riportava il dialogo islamicocattolico
alle due questioni attualmente
più urgenti: la libertà religiosa intesa come
diritto umano fondamentale e la separazione
dell’autorità religiosa da quella
politica nello stato del Ventunesimo secolo.
Lei non comprende in alcun modo che
cosa oggi permette di impedire un’ulteriore
diffusione dell’Aids in Africa, e rimane
abbarbicato allo screditato mito della “sovrappopolazione”
proprio quando i tassi
di natalità stanno precipitando in tutto il
mondo e l’Europa sta per entrare di sua
volontà in una fase di congelamento demografico.
E sembra altrettanto ignaro
delle prove scientifiche che sostengono la
chiesa nella sua difesa dello status morale
dell’embrione umano, accusandola falsamente
di opporsi alla ricerca sulle cellule
staminali.
Perché non è a conoscenza di tutte queste
cose? Lei è senza dubbio un uomo intelligente.
Un tempo ha dato un contributo
fondamentale nel campo della teologia
ecumenica. Che cosa le è successo?
Ciò che le è accaduto, a mio giudizio, è
che lei è uscito sconfitto dal dibattito sul
significato e la corretta interpretazione
del Concilio Vaticano II. Questo spiega
perché ha seguito imperterrito per cinquant’anni
nella sua ricerca di un cattolicesimo
protestante liberale, proprio nel
momento stesso in cui il progetto del protestantesimo
liberale sta collassando per
la sua stessa incoerenza teologica interna.
Ed è per questo stesso motivo che lei è ora
impegnato in una velenosa diffamazione
di un altro ex collega al Concilio Vaticano
II, Joseph Ratzinger. Ma prima esaminare
questa diffamazione, vorrei dire ancora
qualche parola sull’interpretazione del
Concilio.
Sebbene lei sia l’esponente più autorevole
sul piano teologico di ciò che Benedetto
XVI, nel suo discorso del Natale
2005 rivolto alla curia romana, ha definito
l’“ermeneutica della rottura”, lei è anche,
senza ombra di dubbio, il membro internazionalmente
più conosciuto di quel
gruppo ormai piuttosto anziano di persone
che continua a sostenere che il periodo
1962-1965 ha rappresentato un punto di
svolta decisivo nella storia della chiesa
cattolica: il momento di un nuovo inizio, in
cui la Tradizione sarebbe stata detronizzata
dalla sua posizione preminente di fonte
primaria per la riflessione teologica, e
sarebbe stata sostituita da un cristianesimo
che avrebbe destinato sempre più “al
mondo” il compito di stabilire l’agenda
della chiesa (come recitava allora uno slogan
del Concilio mondiale delle chiese).
Lo scontro tra questa interpretazione
del Concilio e quella sostenuta da padri
conciliari come Ratzinger e Henri de Lubac,
ha spaccato in mondo teologico cattolico
postconciliare in agguerrite fazioni
con tanto di riviste militanti: Concilium
per lei e i suoi colleghi progressisti, Communio
per coloro che continuate a chiamare
“reazionari”. Il fatto che il progetto
di Concilium si sia fatto, nel corso degli
anni, sempre più impraticabile, e che la
nuova generazione di teologi, soprattutto
in America del nord, sia gravitata nell’orbita
di Communio, non deve certo essere
stata un’esperienza facile da superare. E
deve essere stato un duro colpo anche il
fatto che Communio abbia potuto influenzare
in modo decisivo le deliberazioni
prese in occasione del Sinodo straordinario
dei vescovi tenutosi nel 1985, e indetto
da Giovanni Paolo II per celebrare i risultati
ottenuti dal Vaticano II e per definire
la sua piena attuazione nel ventesimo anniversario
della sua conclusione.
Tuttavia, credo che la vera scintilla che
l’ha fatta esplodere si sia accesa il 22 dicembre
2005, quando l’appena eletto Papa
Benedetto XVI – vale a dire lo stesso uomo
che lei aveva contribuito a fare eleggere
nella facoltà teologica di Tubinga – rivolgendosi
alla curia romana proclamò
che la discussione era terminata e che la
“ermeneutica della riforma” conciliare,
che si fondava su una continuità con la
grande Tradizione della chiesa, aveva vinto
la battaglia contro la “ermeneutica della
discontinuità e della rottura”.
Forse, mentre sorseggiava birra insieme
a lui a Castel Gandolfo nell’estate del
2005, lei si è in qualche modo immaginato
che Ratzinger avesse cambiato opinione
su questo punto fondamentale. Ma ovviamente
non è così. Per me rimane francamente
un mistero come abbia potuto immaginarsi
che avrebbe accettato la sua
idea di ciò che comporterebbe un “continuo
rinnovamento della chiesa”. E la sua
analisi dell’attuale situazione in cui si trova
il mondo cattolico non diventa affatto
più comprensibile quando, nel suo ultimo
editoriale di invettive, si legge che gli ultimi
Papi hanno avuto un atteggiamento
“autocratico” nei confronti dei vescovi:
ancora una volta, viene da domandarsi se
ha considerato la questione con sufficiente
attenzione. Perché sembra del tutto evidente
che Paolo VI, Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI si sono mostrati dolorosamente
riluttanti – qualcuno direbbe disgraziatamente
riluttanti – a prendere
provvedimenti disciplinari nei confronti
di vescovi che si sono rivelati incompetenti
o disonesti e hanno per questo perduto
il diritto di insegnare e guidare i fedeli:
una situazione che molti di noi sperano
possa presto cambiare, specialmente in
considerazione delle recenti controversie.
In un certo senso, naturalmente, nessuna
delle sue rimostranze sulla vita del
mondo cattolico postconciliare appare
nuova. Sembra tuttavia cosa sempre più
inaspettata e incomprensibile per chi abbia
veramente a cuore il futuro della chiesa
cattolica intesa come testimone della
verità di Dio al fine della salvezza del
mondo che si possa seguire la via sulla
quale lei si affanna a condurci: che, in altre
parole, un cattolicesimo credibile si
avvierà sulla stessa strada percorsa negli
ultimi decenni da varie comunità protestanti
che, consapevolmente o no, hanno
seguito sostanzialmente il suo consiglio di
adottare un’ermeneutica di rottura con la
grande Tradizione cristiana. Eppure, è
proprio questa la risoluta posizione che
ha assunto fin da quando uno dei suoi colleghi
l’ha ammonita sul rischio di diventare
troppo évident; e poiché questa posizione
le ha permesso di rimanere sempre évident,
perlomeno sulle prime pagine di
quei giornali che condividono la sua interpretazione
della tradizione cristiana, ritengo
che sarebbe davvero illusorio aspettarsi
che lei possa cambiare, o anche soltanto
rettificare, le sue opinioni, persino
quando tutte le testimonianze empiriche
a disposizione indichino che la via da lei
proposta è la via che porta alla scomparsa
delle chiese.
Ciò che ci si può ragionevolmente
aspettare, invece, è che lei si comporti con
almeno un minimo di onestà e decenza
nelle controversie in cui si impegna. So
perfettamente cos’è l’odium theologicum,
ma, in tutta sincerità, devo confessarle che
nel suo recente articolo ha oltrepassato
una linea invalicabile, in particolare con
queste parole: “Non si può in alcun modo
negare che il sistema mondiale di insabbiamento
dei crimini sessuali compiuti da
sacerdoti è stato elaborato e messo in opera
dalla Congregazione per la Dottrina
della Fede sotto la guida del Cardinale
Ratzinger”.
Ma questo è semplicemente falso. Mi rifiuto
di credere che lei, pur sapendo che
era falso, l’abbia scritto lo stesso, perché
ciò significherebbe essersi consapevolmente
bollato come bugiardo. Se quindi
non sapeva che ciò è falso, significa che
lei non ha la minima idea di come si svolgessero
nella curia romana le procedure
di assegnazione dei casi di abuso prima
che Ratzinger se ne assumesse la responsabilità
e la affidasse alla competenza della congregazione
per la Dottrina della fede nel 2001:
pertanto, ha perso ogni diritto a essere
ascoltato su questo argomento, e anzi su
qualsiasi questione che riguardi la curia
romana e il governo centrale della chiesa
cattolica.
Anche se probabilmente non lo sa, sono
stato un tenace e, spero, responsabile critico
del modo in cui i casi di abuso sono
stati malamente affrontati da singoli vescovi
e dalle autorità della curia prima
della fine degli anni Novanta, quando l’allora
cardinale Ratzinger iniziò a fare forti
pressioni per un radicale cambiamento
nella gestione di questi casi (se è interessato
alla questione, può consultare un mio
libro uscito nel 2002: “The Courage to be
Catholic: Crisis, Reform, and the Future of
the Church”).
Parlo quindi con ben fondata sicurezza
quando dico che la sua descrizione del
ruolo avuto da Ratzinger non appare soltanto
ridicola a chiunque conosca sufficientemente
bene i dettagli della vicenda,
ma è anche contraddetta dalla stessa
esperienza dei vescovi americani che
hanno quasi sempre trovato Ratzinger
estremamente sollecito, pronto ad aiutare,
profondamente preoccupato per la
corruzione del sacerdozio a opera di un
piccolo numero di maltrattatori, e deluso
dalla incompetenza o dalla disonestà di
vescovi che prendevano le promesse della
psicoterapia in modo ben più serio di
quanto avrebbero dovuto o non aveva il
coraggio di affrontare ciò che doveva essere
affrontato.
So perfettamente che gli autori degli
editoriali non scrivono i titoli talvolta disgustosi
che li annunciano. Lei ha però firmato
un articolo al vetriolo – del tutto
inappropriato per un sacerdote, un intellettuale
o un gentleman – che ha permesso
ai redattori dell’Irish Times di pubblicarlo
con questo titolo: “Papa Benedetto
ha ulteriormente aggravato tutto ciò che
c’è di sbagliato nella chiesa cattolica ed è
direttamente responsabile per avere orchestrato
l’operazione di insabbiamento
globale sugli stupri commessi dai preti –
così si dichiara in questa lettera aperta indirizzata
a tutti i vescovi cattolici”. Questa
volgare falsificazione della verità serve
forse a dimostrare fino a che punto può
portare un uomo l’odium theologicum. Ma
rimane comunque una cosa vergognosa.
Mi si permetta infine di suggerirle che
dovrebbe delle pubbliche scuse a Papa
Benedetto XVI, per quella che, in tutta
obiettività, è una calunnia che mi auguro
sia stata formulata in parte per ignoranza
(sebbene per colpevole ignoranza). Posso
assicurarle che intendo profondere il mio
massimo impegno per realizzare una completa
riforma della curia romana e dell’episcopato,
due progetti che ho descritto
dettagliatamente nel mio saggio “God’s
Choice: Pope Benedict XVI and the Future
of the Catholic Church”, di cui sarò felice
di inviarle una copia nella traduzione
tedesca. Ma non esiste alcuna via per
un’autentica riforma nella chiesa che non
passi attraverso l’angusta e stretta valle
della verità. E proprio la verità è stata dilaniata
e macellata nel suo articolo pubblicato
su Irish Times. E questo significa
che ha fatto arretrare la causa della riforma.
Con la promessa di tenerla presente
nelle mie preghiere,
George Weigel
(traduzione di Aldo Piccato)
© Copyright Il Foglio 15 maggio 2010