DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L’EUROPA? UNA CITTA’ TERMALE Impietoso Semprún. La politica vola basso e il Vecchio Continente ormai si è come addormentato

di Olivier Guez
Signor Semprún, lei ha mantenuto la nazionalità
spagnola, scrive in francese e ha
ricevuto numerosi premi letterari europei,
soprattutto in Germania e in Italia. Insomma,
è un intellettuale europeo; ma esiste
veramente una cultura europea?
Certamente; ma non è facilmente definibile.
La cultura europea è, innanzitutto,
il frutto di esperienze e storie comuni
al nostro continente. La nostra eredità
greca, romana, cristiana, rinascimentale,
umanistica e illuministica ne costituisce
il fondamento comune. Una certà unità
europea esisteva già all’epoca romana.
Nel medioevo era rappresentata dalla comune
fede religiosa, che, nell’età moderna,
ha lasciato il posto alla cultura: arte,
letteratura, filosofia, musica…, in altre
parole alla realizzazione dei valori supremi
nei quali gli europei si riconoscono e
si identificano. Aggiungiamo, nel Ventesimo
secolo, la lotta contro il nazismo, il
fascismo, il comunismo e le dittature.
L’Europa del Dopoguerra si è costituita
nell’opposizione a ogni totalitarismo.
Queste esperienze sono condivise, pur in
gradi diversi, da tutti gli europei. E da
questa comune esperienza è nato un corpus
di valori che fondano la cultura europea
contemporanea.
A quali valori pensa in particolare?
A tutto ciò che ruota attorno all’idea di
democrazia, la quale, dai greci in poi, costituisce
l’alfa e l’omega della cultura europea:
i diritti dell’uomo, il pluralismo
politico, lo spirito critico, la libertà d’opinione
e di religione… Noi europei possediamo
anche una grande tradizione letteraria
che attinge ai più profondi valori
europei. Si tratta, in particolare, della
forma del romanzo, una straordinaria invenzione
europea. Kundera ha scritto in
proposito pagine magnifiche, nelle quali
sottolinea come il romanzo rappresenti
la sfera privilegiata dell’analisi, della lucidità
e dell’ironia in opposizione al mito
e all’epopea, i cui protagonisti sono sempre
degli eroi sovrumani. Il romanzo europeo
è, nella sua stessa essenza, profondamente
democratico. E c’è infine l’umorismo,
che secondo me nasce con Cervantes,
e rappresenta la grande invenzione
dell’età moderna.
Il fatto che la cultura europea non sia
ancorata a un territorio preciso e non sia
veicolata da una lingua comune non costituisce
un problema?
Senza dubbio. Una delle caratteristiche
peculiari della nostra cultura europea
è proprio la sua diversità. Ancora
Kundera, che ha riflettuto a lungo su questo
tema, ritiene, molto giustamente, che
il principale valore europeo sia “il massimo
di diversità nel minimo spazio”. Lo
stesso discorso vale anche per le lingue
dell’Europa. Negli anni Trenta Julien
Benda scrisse un testo magnifico, “Il discorso
alla nazione europea”, nel quale
proclamava che il francese sarebbe rimasta
la lingua europea par excellence, come
nei secoli precedenti. Ma si era sbagliato.
Oggi, la lingua franca dell’Europa
è l’infestante inglese. Ma si può essere un
grande scrittore europeo anche se si scrive
in sloveno. Umberto Eco ha perfettamente
ragione quando dice cha la lingua
d’Europa è la traduzione. Insomma, direi
che la cultura europea si impernia sulle
nostre esperienze e sui nostri valori comuni
entro una diversità estremamente
feconda e si sviluppa grazie a scambi costanti
e plurisecolari. L’Europa è il romanzo,
il cinema e l’aereo!
Lei ha ricordato le terribili lotte combattute
contro i totalitarismi. La costruzione
dell’Europa del Dopoguerra è partita proprio
da qui. Ma la memoria di questa epica
battaglia non permette più all’Europa di
progredire. Che cos’è che oggi fa avanzare
l’Europa e la cultura europea?
E’ proprio questa la vera domanda. La
mia generazione ha costruito l’Europa
combattendo contro i grandi totalitarismi
– ciò che Kant chiamava il male radicale
– ma anche contro le dittature di Franco
in Spagna, di Salazar in Portogallo e dei
colonnelli in Grecia, che impedivano
ogni forma di sviluppo morale e intellettuale.
Questa battaglia è stato un formidabile
elemento unificatore. E’ proprio per
questo che ho continuato a sentire un
certo “affetto”, almeno intellettuale, per
Buchenwald. Attorno al suo forno crematorio
si possono ancora scorgere le tracce
del nazismo, ma anche, sebbene lo si dimentichi
troppo spesso, dello stalinismo,
nei resti del piccolo campo cosiddetto
della quarantena. Buchenwald si trovava
entro la zona d’occupazione sovietica, e il
campo fu riaperto nel settembre del 1945.
Da allora servì come campo speciale della
polizia politica e vi furono dapprima
internati alcuni membri della gioventù
hitleriana e, poco dopo, gli avversari del
comunismo, in particolare i socialdemocratici.
E’ rimasto in funzione fino al 1950.
Sulla collina di Ettersberg, dove sorgeva
il campo di Buchenwald e dove un tempo
Goethe amava lavorare, o a Weimar, la
città più vicina, ci si trova nel cuore dell’Europa,
della sua grandezza così come
della sua più terribile turpitudine. E’ stato
contro il fetore della guerra totalitaristica
e dei forni crematori che la vecchia
Europa ha intrapreso la costruzione di
una comunità sovranazionale di stati indipendenti,
per la quale ogni stato è stato
pronto a condividere buona parte della
propria sovranità nazionale. Oggi non
c’è più un nemico comune di tale portata
per cementare gli europei di buona volontà.
E il terrorismo islamista che alcuni considerano
una nuova forma di fascismo?
Mi sembra una cosa diversa. Non è meno
pericolosa, ma è certamente diversa.
L’islamismo radicale è un movimento più
diffuso, con una dimensione e una potenza
che non possono essere paragonate a
quelle di un paese come la Germania nazista,
che si era votata al Male e che in esso
credeva di aver trovato la propria missione.
Questo rischio non esiste più o almeno
è meno concreto di un tempo.
In mancanza di una minaccia esistenziale,
che cosa potrebbe fa ripartire il motore,
ora grippato, dell’Europa contemporanea?
Ci sono, innanzitutto, l’economia, il
commercio, i rapporti d’affari. L’Europa
si è costruita così e continua a farlo. Si arriva
progressivamente a un’entità economica
sempre più coesa e integrata, sebbene
ci sarebbero molte cosa da dire sulla
governance economica europea, come dimostra
la recente crisi greca. Ma non ci si
può accontentare della sola sfera economica:
l’attuale situazione di stallo ne è la
prova più lampante. E’ necessaria anche
una dimensione spirituale. Il sostegno di
una coesione spirituale è assolutamente
indispensabile. Torniamo a Benda e al
suo discorso sulla nazione europea: questo
grande intellettuale era perfettamente
consapevole del fatto che il problema
europeo era innanzitutto un problema di
natura morale e che l’Europa non doveva
essere soltanto il frutto di una trasformazione
economica o politica. Per Benda,
l’Europa poteva esistere realmente soltanto
se avesse adottato un certo sistema
di valori morali ed estetici, se avesse promosso
un determinato modo di sentire e
di pensare, e se avesse glorificato alcuni
eroi della sua storia. Insomma, Benda voleva
dare all’Europa un sistema di valori.
E aveva perfettamente ragione!
Perché oggi non si riesce a trovare quel
sostegno di coesione spirituale di cui avete
appena parlato? Perché è così difficile
dare un po’ di sostanza concreta a quest’Europa?
Bisogna darne la colpa agli attuali
leader politici?
Si sono già succedute almeno due generazioni
di leader europei. Quella dei
padri fondatori, naturalmente, ma anche
quella di Delors, González, Kohl e Mitterrand:
grandi ed eccezionali leader, idealisti
e realisti allo stesso tempo. Oggi non
vedo alcun leader europeo della stessa
statura. Tutti continuano a giocare la partita,
ma perseguendo esclusivamente i
propri ristretti interessi nazionali. Basta
guardare il modo in cui è stata affrontata
la crisi greca! A mio giudizio, non si tratta
soltanto di salvare la Grecia ma l’Europa
tutt’intera, della quale si deve ripensare
completamente il funzionamento.
Riscontra questa sorta di usura anche in
Spagna, il cui ingresso nella Comunità europea
risale soltanto al 1986?
Ortega y Gasset, il più grande filosofo
spagnolo del Ventesimo secolo, diceva,
già molto tempo prima che Franco salisse
al potere, che se la Spagna aveva un
problema, la sua soluzione si trovava in
Europa. La Spagna post-franchista, quella
della transizione democratica di Felipe
Gonzales, ha fatto propria l’idea di Ortega
y Gasset. Non soltanto per incrementare
il proprio benessere, attraverso il sostegno
dei fondi strutturali, ma anche, e
soprattutto, perché l’Europa rappresentava
un formidabile fattore di democratizzazione.
Oggi la Spagna ha una democrazia
solida, senza dubbio ancora imperfetta,
ma nondimeno solida. E come altrove,
per esempio negli stessi stati fondatori
dell’Unione europea, mi accorgo che l’interesse
per la costruzione europea risulta
meno forte. Continua senza dubbio ad
esserci un sentimento di debito e gratitudine
nei confronti dell’Europa, ma l’infatuazione
dei primi anni è scomparsa. Il
voto pro europeo, sebbene resti sempre
maggioritario, è fortemente calato. L’attuale
presidenza spagnola dell’Europa fa
un lavoro meritevole, ma non si distingue
per un particolare impegno. Fa anch’essa
il proprio dovere, ma nulla di più.
La maggior parte dei dirigenti europei è
nata negli anni Cinquanta. Non hanno conosciuto
la guerra, ma non hanno neppure
potuto approfittare di alcuni benefici garantiti
dall’integrazione europea, come, per
esempio, gli scambi di studenti. Ritiene
che la generazione dei trenta e quarantenni,
che ha beneficiato invece dei primi programmi
Erasmus, sarà di conseguenza più
audace e intraprendente?
Le generazioni più giovani vivono l’Europa
ogni giorno: all’università, all’interno
dello spazio di Shengen, con l’euro,
studiando le lingue del continente…
L’Europa è diventata fonte d’amicizie e di
amori: è una straordinaria comodità. Ma
hanno davvero coscienza di questa Europa
e dei benefici che ci ha portato? Questi
vantaggi, questo spazio di straordinarie
opportunità sembra essere diventato
un fatto scontato, mentre si tratta di una
vera e propria rivoluzione! Quando ho conosciuto
la Francia, ancora prima della
guerra, i giovani francesi chiamavano i tedeschi
les boches! Il problema è che oggi
praticamente nessuno, giovani compresi,
passa attraverso un percorso di pedagogia
europea. Una delle possibili spiegazioni
di questo fenomeno sta nel fatto che
non ci sono più partiti politici francamente
filoeuropei sui quali appoggiarsi. I sistemi
politici europei sono diventati bipartisan:
tutti i partiti di governo sono filoeuropei,
ma senza impegno ed entusiasmo.
Il problema fondamentale non sta forse
nel fatto che lo scopo dell’Europa rimane
incerto e impreciso?
Sì, senza dubbio. Ma anche se non riesce
a definire chiaramente il proprio scopo,
l’Europa potrebbe almeno avere l’ambizione
di contare maggiormente nelle vicende
mondiali. E’ un’esigenza fondamentale
in un momento in cui le sfide da
affrontare (cambiamento climatico, immigrazione…)
sono collettive e in cui stanno
emergendo nuove superpotenze in un
mondo ormai multipolare e in fase di
profondo mutamento. Per fare solo un
esempio, l’Unione europea potrebbe svolgere
un proprio ruolo accanto a Washington
e Pechino, e proporre specifiche soluzioni
per l’insieme del pianeta. Infatti, gli
europei hanno elaborato un proprio metodo
e tipo di approccio alla regolamentazione
delle vertenze, di cui la forma
“De velours” è, a mio giudizio, rivoluzionaria.
E’ davvero stupefacente che l’Europa
non lo faccia. E, soprattutto, inquietante.
Non sarà forse perché gli europei sognano,
in sostanza, di diventare una grande
Svizzera? Insomma, di uscire in qualche
modo dalla storia?
Trasformare l’Europa in una città termale?
In una grande Vichy?
Vichy mi sembra un po’ troppo connotata…
D’accordo. Diciamo allora una grande
Evian! Senza dubbio. E’ la soluzione che
appare più facile: godere di una pace elvetica,
del segreto bancario, evitare i contraccolpi
della storia, sempre tragica, come
ben sappiamo… Sono in molti a sognarlo,
tenuto anche conto dell’invecchiamento
delle popolazioni. E’ proprio questo
il rischio che corriamo se l’Europa,
nei prossimi anni, non saprà definire più
precisamente le proprie ambizioni. Non
è ancora stata fornita una risposta politica
e metafisica sulla reale finalità di questa
grande avventura. E’ per questo che la
crisi greca mi ha lasciato così amareggiato.
Per quale motivo esattamente?
Dopo aver spento l’incendio della crisi
finanziaria, gli europei avevano una perfetta
occasione per definire le nuove
priorità, ossia creare nuove istituzioni e
nuovi meccanismi per rilanciare il motore
dell’integrazione. La crisi greca tocca
l’essenza e l’anima stessa dell’Europa. I
greci sono persuasi che dovranno pagare
un prezzo altissimo per decisioni politiche
sulle quali non hanno voce in capitolo
e ritengono che gli europei li abbiano
abbandonati. D’altra parte, gli europei
considerano i greci come il vero cancro
del continente. Ecco cosa pensano molti
di loro: “Bisogna tirare fuori i soldi per
questi fottuti greci!”. L’Europa aveva l’occasione
di dimostrare la propria solidarietà.
Aveva la possibilità di dare un senso
alle proprie azioni e di definire più
precisamente i suoi obiettivi di lungo termine.
Ahimé: quest’occasione non è stata
colta, e ognuno ha pensato soltanto al
proprio tornaconto. Nessuno si è rimesso
in discussione o ha cercato di individuare
prospettive più ambiziose. Peggio ancora,
le nazioni europee, in particolare
Francia e Germania, hanno polemizzato
tra di loro.
Nel suo ultimo libro cita spesso un discorso
pronunciato da Edmund Husserl a
Vienna nel 1935, dedicato alla crisi esistenziale
dell’Europa. Husserl sosteneva che
“il pericolo più grande per l’Europa era il
lassismo”. Non siamo forse arrivati proprio
a questo punto?
Prima di rispondere a questa domanda,
vorrei richiamare alla memoria il testo
di questo discorso, che mi è molto caro.
Husserl, un ebreo tedesco, allora già
estromesso dall’università, evocava la figura
spirituale fondamentale dell’Europa,
ossia la ragione democratica, che ai
suoi occhi rappresentava la vera essenza
dell’Europa. Ho conosciuto questo discorso
a Buchenwald grazie a un altro
depotartato, Félix Kreisler, un suo amico
ebreo di Vienna, che aveva assistito alla
conferenza in cui Husserl l’aveva pronunciato.
Le parole di questo discorso lo
aiutavano a sopravvivere nel campo di
concentramento e hanno avuto un effetto
enorme anche su di me. Husserl tesseva
le lodi della sovranazionalità, un’idea
che non dobbiamo mai abbandonare. Oggi,
la situazione è naturalmente molto diversa
da quella del 1935 e la Germania,
in particolare, è diventata una grande
potenza democratica ed europea. Ciò
non toglie che, purtroppo, si possa percepire
un certo lassismo tra gli europei.
Molti sembrano disillusi. Ciò che predomina
è la mentalità del “a che pro?”. C’è
una certa usura della democrazia e della
costruzione europea. E’ senza dubbio
meno drammatica che negli anni Trenta,
ma questo spleen democratico è estremamente
insidioso. Viviamo in un periodo
in cui la democrazia è svalutata. Negli
ultimi tempi sono stati pubblicati parecchi
libri su questo argomento, nei quali
viene messa in luce proprio questa disaffezione
e questo lassismo delle popolazioni
europee. Da ciò deriva anche il recente
successo dei politici populisti, la
vertiginosa caduta nella partecipazione
elettorale, la rinascita di un certo bonapartismo
e cesarismo e, cosa ancora più
grave, di certe tesi leniniste propagandate
da intellettuali come Slavoj Zizek e
Alain Badiou… Questo ritorno del leninismo,
questo arcaismo – un’ipoteca ancor
più che un’ipotesi – la dice lunga sul periodo
che stiamo attraversando. E’ il segnale
di qualcosa che va oltre l’attuale
lassismo…
Poco fa ha parlato di Husserl. Anche la
scomparsa della cultura ebraica di lingua
tedesca dell’Europa centrale è stato un colpo
terribile per il pensiero paneuropeo.
E’ stato e continua ad essere un autentico
disastro, la causa di un vuoto irreparabile.
Si tratta di una perdita immensa,
che oggi si fa sentire in modo sempre più
profondo. Tutte le trasformazioni del pensiero
moderno nel Ventesimo secolo sono
state guidate da ebrei europei. I quali
hanno formato uno straordinario laboratorio
intellettuale. Basta pensare al celebre
trittico Freud-Marx-Einstein. O a Celan,
che ha rivoluzionato il pensiero tedesco.
O ancora a Bergson, ad Husserl o a
Jacques Brunschwig nel campo della filosofia…
O all’influenza fondamentale di
Eduard Bernstein sulla socialdemocrazia
europea. Questi pensatori avevano una
visione universale e cosmopolita ed erano
portatori di una profondità intellettuale,
di una capacità profetica e di una razionalità
critica che nell’Europa dei nostri
giorni sono pressoché scomparse.
Credo che la scomparsa della cultura
ebraica dall’Europa odierna sia uno degli
elementi più drammatici della situazione
in cui ci troviamo attualmente.

(traduzione di Aldo Piccato)

© Copyright Il Foglio 15 maggio 2010