DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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CONTRO I FALSI MITI DI PROGRESSO - Incontro con Mario Adinolfi, padre Maurizio Botta, Costanza Miriano e Marco Scicchitano.




Roma, Auditorium Antonianum 19 maggio 2014



Gli adolescenti. Passeranno con gli anfibi sulle nostre certezze. Costanza Miriano




Sono una mamma di un adolescente, un preadolescente e due bambine, e grazie alla mia rispettabile esperienza ho una forte, incrollabile, solida certezza: ho totalizzato fino a oggi almeno sedicimilasessanta errori educativi. E questo nella migliore delle ipotesi, cioè nell’auspicabile caso di avere sbagliato una sola volta al giorno con ciascuno dei figli. Nella realtà potrebbero essere molti di più ma preferirei non indagare.
Nonostante conosca i limiti con cui mi occupo dei figli (dopo le ansie dei primi tempi ho eletto a mio stile un’allegra trascuratezza), mi aggiro nel mondo con incoscienza. È che io so che non sono io, né lo è mio marito, il garante della riuscita della nostra prole. Il loro Padre è un altro, ed è in cielo anche la loro vera Madre. Noi siamo supplenti, con un incarico a t.d. e pure abbastanza limitato nel tempo.
Io credo infatti che non ci sia una vera e propria tecnica educativa, pur avendo comprato a chili manuali sull’educazione delle più varie ispirazioni (e a posteriori posso dire che alcuni erano non solo inutili, ma anche decisamente dannosi, ma purtroppo non ho un caminetto), se quello che si deve insegnare è la vita. Anzi, mi viene persino il dubbio che non si possa proprio insegnare nulla di veramente fondamentale, a parte allacciarsi le scarpe possibilmente del piede annesso alla scarpa, usare forchetta e coltello senza cavare occhi a fratelli, non buttare tostapane attaccati alla spina dentro vasche da bagno piene d’acqua e sorelle. Oltre, è chiaro, alla regola base della vita (mai scarpe blu con vestito marrone).
Io penso che i figli abbiano soprattutto diritto e bisogno di due cose.
Prima di tutto vogliono essere amati. Non è scontato. Amare davvero non è facile. Vuol dire prima di tutto accettare ognuno dei figli per come è. Spettinato, puzzolente, precisino, caotico, grasso, scheletrico, antipatico, pesante o bellissimo, simpaticissimo, dolce e servizievole. Il figlio perfetto non esiste, e se è molto ordinato magari non è creativo, è simpatico ma distratto, è obbediente ma duro e giustizialista, è allegro ma capriccioso. A volte è tutte le cose insieme. A volte sa fare e dire sempre la cosa che ci fa saltare i nervi (nessuno ci conosce come loro), a volte lo vorremmo più simile a noi e riconosciamo invece in lui i difetti dell’altro genitore per i quali facciamo più fatica. Altre volte lo vorremmo diverso da noi, e ci dispiace che ci somigli nei nostri difetti, in quelli che meno vorremmo avere. Insomma, anche se persino “noi che siamo cattivi sappiamo dare cose buone ai nostri figli”, darle sempre, queste cose buone, non è affatto facile. Anche con i figli, nel caso dell’amore più istintivo e quasi animale – soprattutto per le madri – la capacità di amare davvero, con il cuore libero, capace di accogliere e di lasciare liberi, di non proiettare attese e rivendicazioni, questo amore bello, forte e pulito, questo viene solo da Dio. Solo a lui possiamo chiedere che ci insegni a guardare ai nostri figli.
Soprattutto durante gli anni dell’adolescenza, quando dovranno necessariamente andare a sperimentare la loro Babilonia, a ribellarsi, a fare le loro cavolate, a vedere se davvero quello in cui credono i loro genitori è roba buona e solida. Dovranno salire con gli anfibi sopra le nostre certezze per vedere se sono di cartongesso o di marmo, prendere a calci l’albero sotto il quale da piccoli li abbiamo portati a riposare, per vedere se è marcio dentro. In quei momenti: no panic. È tutto previsto. Passerà. Basta che reggiamo noi, e se abbiamo seminato torneranno. Arriverà un momento in cui faranno qualcosa anche se gliela abbiamo consigliata noi. Allora saranno adulti.
L’importante è che il padre rimanga a casa quando il figliol prodigo va a sperperare i suoi averi, e non si unisca alla compagnia, non vada col figlio a prostitute, rimanga a custodia della casa e non la faccia andare in malora. È il momento in cui il ragazzo se ne va con la carovana, è capitato a Maria e Giuseppe, capiterà anche a noi di stare a cercarlo per tre giorni. Aspettare in panchina, non scendere in campo, pregare per la sua felicità nella libertà, quella cosa che persino Dio ha più cara della nostra stessa salvezza.
Magari ci sono dei momenti in cui ci provoca per vedere fino a che punto possiamo volergli bene, e ancora una volta l’unica cosa da fare è alzare lo sguardo a Dio e vedere come ci ama lui. Tanto, tantissimo, anche quando facciamo delle schifezze.
La seconda cosa di cui hanno bisogno i figli è la bellezza. Sapere che la vita è una cosa bella, che vale la pena viverla nonostante tutto, sempre. Vedere in noi questa certezza, respirarla nella nostra contentezza, convincersene nella nostra fiducia.
La nostra certezza ancora una volta non può che fondarsi in Dio, perché senza di lui ho qualche dubbio sul fatto che la vita sempre valga la pena. Alla fine, dunque, quello che serve per essere buoni genitori, soprattutto nella tempesta dell’adolescenza, è quello che serve a essere santi. Esattamente lo stesso equipaggiamento. E quindi se ci preoccupiamo della nostra conversione educheremo senza nessuno sforzo aggiuntivo i nostri figli. Se vedranno che sappiamo perdere qualcosa a cui teniamo per un fratello, se vedranno che non facciamo i furbi ma anzi rischiamo pure di passare per scemi perché ci facciamo difendere dal Padre, che preghiamo seriamente, che crediamo davvero ai sacramenti, se respireranno il sacro, potranno fare tutte le esperienze che vorranno, ma torneranno a casa. Non torneranno per imparare da noi, ma da quello dal quale impariamo anche noi.
Costanza Miriano
per cinquepassi.org


Obbedire è meglio: il segreto della felicità secondo Costanza Miriano



Il titolo del nuovo libro di Costanza Miriano, Obbedire è meglio, è di quelli provocatori, almeno quanto quelli dei primi due libri Sposati e sii sottomessa Sposala e muori per lei, che hanno destato lo scandalo di tanti intellettuali così tanto politically correct nei confronti del linguaggio e dell’uso delle parole quanto scorretti nei confronti della persona della Miriano, di cui probabilmente non hanno letto neppure i primi capitoli delle opere.
La Miriano, però, rinuncia fin da subito a qualsiasi merito nell’invenzione di un titolo così originale addebitando la creazione dell’aforisma al più grande dei  creatori, il Signore stesso: la frase è, infatti, tratta dalla Bibbia. Ma se i detrattori della Miriano che vorrebbero colpirla con l’ostracismo, lasciato da parte il loro giudizio iconoclasta, leggessero queste pagine si renderebbero conto che lei scrive di persone, di vita e di amore e che i clichèsideologici che le sono stati affibbiati sono tanto distanti da lei quanto l’urbanizzazione dalla Luna.
Miriano ci attesta di aver trovato il segreto della felicità. E in che cosa risiede? Sentiamo direttamente lei quando introduce l’opera: «Ecco, un libro sul portare i propri pesi e magari quelli degli altri non andrà esattamente a ruba, lo so […]. Eppure credo che riguardi un sacco di gente. Basta vedere la gente in giro. Basta ascoltare, guardare, parlare con quelli che incontriamo. Il mistero della fatica, del non amarsi, del dolore, della sofferenza, in generale il mistero del male, ci riguarda, tutti». In mezzo a questa condizione umana, qual è la modalità per essere felici? «Essere agnelli. Prendere su di sé anche il male degli altri, oltre al proprio, non entrare in risonanza con le malignità, porgere mitemente il collo. L’agnello […] lo fa quando ha un pastore buono che gli vuole veramente bene e si prende cura di lui».
Nel mondo di oggi dell’autosufficienza e dell’autodeterminazione in cui essere adulti è divenuto sinonimo di indipendenza e di autonomia, la parola «obbedienza» è inaudita. L’obbedienza della Miriano è sinonimo di «amore» e, forse, la sintesi più compiuta del nuovo libro è quanto scriveva Testori qualche decennio fa: «Non sbaglierà, nonostante tutti gli errori, chi avrà voluto bene alla realtà, ossia alla creazione. Amando la realtà, ci sei dentro, ci vivi già dentro e abbracci il tuo tema, la vita, senza bisogno di astrazioni. Basta amare la realtà, sempre, in tutti i modi, anche nel modo precipitoso e approssimativo che è stato il mio. Ma amarla. Per il resto non ci sono precetti». Il nostro tema, come racconta la scrittrice con la consueta familiarità e simpatia che la contraddistingue, è la nostra vita, la vocazione, la famiglia, il lavoro, i figli, gli amici.
«L’obbedienza non è passività, […] anzi è il massimo della forza: è conformazione a qualcosa di più grande. È capire che la nostra sola determinazione non è da sola un valore». Ciò significa che è un valore relativo, non assoluto. L’unico valore assoluto è la verità e la verità è un rapporto, una relazione. Pensiamo come il Dio uno e trino cristiano documenti bene questa dimensione. L’autodeterminazione, infatti, diventa spesso solitudine e isolamento, poi tristezza e, nel tempo, cattiveria, mentre l’io è per sua natura relazione con un altro, in particolare con quell’Altro da cui dipendi. A ciò richiama costantemente l’amicizia, quella che Miriano chiama la «compagnia dell’agnello». «Io e la mia amica» scrive «cerchiamo di farci compagnia anche in questo, perché prese dal miliardo di cose urgenti da fare rischiamo di dimenticarci quelle importanti». La vera amicizia ci fa compagnia lungo la strada al Destino ridestandoci all’essenziale.
Il matrimonio, la condizione di marito e di moglie, argomento dei primi libri, necessitano per essere vissuti di un ambito più ampio, quello di un’amicizia fraterna. Se è vero, come ha ricordato papa Francesco nell’incontro con il mondo della scuola del 10 maggio, che «per educare un bambino ci vuole un intero villaggio» (proverbio africano), è altrettanto vero che la famiglia, torrente che scorre nell’alveo di un fiume più grande, necessita della sorgente che le dia vita. Questa sorgente, documenta la Miriano con tante storie personali, è la presenza reale di Cristo, nei sacramenti, nella chiesa, nella Compagnia dell’agnello che il signore le ha messo a fianco nella quotidianità per ricordare l’essenziale e riconoscerlo.


Tempi.it 



C'è sottomessa e sottomessa. Di Costanza Miriano



di Costanza Miriano  Il Foglio 18 dicembre 2013
Pensa che c’ero caduta anche io. Col fatto che da un mesetto rispondo a giornalisti stranieri che mi chiedono “perché sottomessa?” (in molteplici varianti tra cui “cos’è la sottomissione?” e, la più stupida, “chi lava i piatti a casa sua?”), e lo faccio in varie lingue (itagnolo, inglano) con abnegazione e grande padronanza di me, cercando di evitare alterazioni isteriche del tono di voce, mi ero ingenuamente convinta che fosse la parola sottomessa a disturbare nel titolo del mio libro.
A far scomodare addirittura la ministra della sanità e delle pari opportunità, Ana Mato, che ha chiesto il ritiro in Spagna del mio libro “Cásate y se sumisa” dal commercio. A far parlare l’intero parlamento spagnolo (sono contenta di sapere che tutti i problemi più urgenti del paese siano stati finalmente risolti, tanto da poter mettere all’ordine del giorno il libro di una sconosciuta moglie e mamma italiana che scrive lettere alle sue amiche per convincerle a sposarsi: pare che il prossimo tema di discussione sarà la sfumatura delle casacche di Topolino nei fumetti degli anni ’50). A farmi finire in vari programmi della BBC (strano, in Italia nessuno si è accorto che un governo stava chiedendo la censura di un’italiana, ma in Inghilterra si sono scandalizzati), tra cui le News Night, in cui mi sono buttata a spregio del pericolo col mio inglese da lesson number two (the book is on the table), tanto per la soddisfazione di citare John Paul the second sul programma di punta della terra anglicana.BBC3
Pensavo anche, in un ingenuo attacco di comprensione, che la parola sottomissione potesse avere evocato, in qualche donna più grande e più insicura di me, lo spettro di antichi ricordi di tempi in cui si doveva lottare per affermare la pari dignità tra uomo e donna, dignità che oggi nessuna ragazza europea normale sente realmente messa in discussione.
Poi ho fatto la scoperta. Ci sono diversi libri in vendita in Spagna con la parola sumisa nel titolo. Per esempio Aprendiendo a ser sumisa, o La formaciòn de la mentalidad sumisa, e molti altri ben più espliciti. Occhieggiano tranquillamente dagli scaffali delle librerie – e ci mancherebbe – senza che nessuno abbia trovato nulla da ridire.
Allora il problema, mi dico, non è quello. Gridano tutti che il mio titolo è offensivo. Deve essere dunque per forza la parola Casate, sposati. Strano, perché il ministro che ne chiede la messa al bando per incitazione alla violenza sulle donne è del PPE, partito che una volta fu cattolico, anche se la signora non avverte la contraddizione di essere titolare di un ministero responsabile di centinaia di migliaia di aborti all’anno (uccisioni almeno presumibilmente anche di bambine: ma quella pare non sia violenza sulle donne).
Dunque va bene sottomettersi, ma sia ben chiaro, solo sessualmente, a un amante, sottomettersi in cinquanta sfumature a un passante, a chiunque, anche all’idraulico che viene a controllare la caldaia. Libri così non vengono avvertiti come offensivi della dignità della donna. Proporre invece un atteggiamento interiore (per la seicentesima volta: sì, le donne possono lavorare, e no, non sono una casalinga, ma una giornalista tv), una disposizione spirituale di dolcezza, di accoglienza, di obbedienza a un solo marito, sempre allo stesso, a un uomo che sarà pronto a morire, cioè a dare tutto alla sposa senza risparmiare niente, questo invece viene percepito come offensivo per la dignità femminile, ma talmente offensivo da far ravvisare addirittura la possibilità di un reato: istigazione alla violenza sulle donne (dove? In quale frase, parola, virgola, o retropensiero la violenza viene vagamente incoraggiata, giustificata, scusata, o anche solo nominata, nel mio libro? Dove?). Il punto è che la dolcezza femminile disinnesca la parte peggiore dell’uomo, e lo rende nobile. Non ha nulla a che vedere con la violenza, anzi, al contrario.
Parliamoci chiaro: è il matrimonio il vero obiettivo della polemica, che continua con sorprendente tenacia da settimane, sulle prime pagine dei giornali e sulla rete, in televisione e in radio. E lo scandalo si allarga: i giornalisti ormai chiamano dalla Colombia, dall’Argentina, dal Messico, dalla Francia, dal Belgio, dall’Inghilterra, dalla Russia…
Cosa esattamente sconvolge nell’idea del matrimonio? Del matrimonio cristiano, precisamente?
Fondamentalmente l’uomo contemporaneo può accettare tutto tranne l’idea di ascoltare una voce che non provenga da se stesso. Non può accettare la possibilità che non sia sempre bene seguire le proprie emozioni, inclinazioni – i pensieri quando è già a uno stadio più progredito – la propria idea di bene e di male. È tutto lì il punto del cuore dell’uomo, dalla Genesi in giù: sono io che decido cosa è Bene e Male?
Il vero nodo della questione è che noi cristiani siamo contenti di obbedire perché sappiamo a chi obbediamo: abbiamo conosciuto, davvero, personalmente, un pastore buono, un pastore che pasce gli agnelli e non i lupi. È per questo che ci piace ascoltare la voce del pastore, non perché siamo repressi, ma perché siamo furbi. Abbiamo capito che quello è il meglio, che ci conviene seguirlo, perché lui è l’autore dell’universo, del dna, della fisica, dei movimenti degli astri. Figuriamoci se non sa come funzioniamo noi, suoi figli (che invece non solo non abbiamo idea di come funzioni l’universo, ma abbiamo problemi anche col tostapane. E con l’uomo, mistero a se stesso). Io capisco dunque l’odio che suscitiamo noi cristiani, stoltezza di fronte al mondo: è un mondo che non sa quanto è buono il Padre, e quindi lo vuole uccidere (lo ha idealmente accoppato già da tempo). Se togli l’amore di Dio, obbedire, sottomettersi, la croce, nulla di tutto questo ha senso.sposala
Qualsiasi cosa, anche morire (il mio secondo libro, Sposala e muori per lei, non ha fatto fremere di sdegno mezzo labbro) può essere accettata. Ma obbedire a qualcuno che non sia me stesso, quello no. Non si può tollerare.
Eppure per noi quello è il primo comandamento: ascolta, Israele. Non fidarti di te. Ascolta una voce che non provenga da te stesso. Sappi che il tuo cuore, ferito dal peccato originale, a volte è inaffidabile. Ascolta uno che ti ama e che spinge dalla tua parte più ancora di te stesso, che ti ama come un figlio unico.
Per questo la Chiesa propone agli uomini impegni definitivi che lo custodiscano da se stesso. “Il matrimonio cristiano – scrive per esempio papa Francesco nella Evangelii gaudium – supera il livello dell’emotività. Il matrimonio non nasce dal sentimento amoroso, effimero per definizione, ma dalla profondità dell’impegno assunto”. Per noi cristiani il matrimonio è una via di conversione, un laboratorio in cui l’uomo e la donna affrontano i loro peccati – o, laicamente, i difetti – principali: il desiderio di controllo femminile e l’egoismo maschile, esattamente ciò di cui parla san Paolo.
Ma l’uomo contemporaneo, che ha dimenticato la visione giudaico cristiana della storia come lineare e non ciclica, è un bambino tutto emotività, assolutizza il comfort, il soddisfacimento dei propri bisogni immediati e superficiali, impedendosi di capire quelli più profondi. Impedendo per esempio alle donne di riconoscere che quello che le realizza profondamente è dare la vita per qualcuno, e darla facendo spazio, mettendo da parte la mania di controllo per affidarsi a un uomo solido e sicuro, riconoscendone la bellezza, rivelandola anche a lui stesso. L’uomo viene così restituito a se stesso – Dio affida l’umanità alla donna, scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem – e può così scoprire la bellezza di dare la sua vita per la sposa, morendo per lei, seppur giorno dopo giorno, a fettine, salvando il mondo una pratica alla volta.YOUNG POLISH WOMAN EMBRACES POPE JOHN PAUL II
La cultura dominante tenta in tutti i modi di abbattere il recinto del tempio della trasmissione della vita, e di tagliare tutti i vincoli che appunto legano il sesso all’unione indissolubile tra due anime che cercano per tutta una vita di diventare una sola carne (in unam carnem, moto a luogo). È questo che dicono i loro corpi e questo dicono – con i loro corpi fatti di geni e cellule impastati inscindibilmente – i figli che nascono da quell’unione. Dicono che l’intimità sessuale è sacra, ed è ciò a cui Dio ha affidato la trasmissione della vita: una visione magnifica e sconvolgente. Può essere sublime o terribile, ma non potrà mai essere neutra, né per l’uomo né per la donna. Mai il sesso potrà dunque essere normalizzato, banalizzato, ma avrà sempre a che fare con qualcosa di sconvolgente, con una dedizione che un giorno potrà anche sembrare non corrisponderci più, ma che ha toccato la nostra più profonda essenza.
Un uomo e una donna così sono reciprocamente sottomessi solo al loro cammino di conversione a Dio, e sono liberi dal pensiero dominante, dal totem della laicità, sono liberi e non manipolabili, e questo non è tollerabile dal pensiero unico.
È per questo che noi cristiani veniamo censurati. È per questo che in Francia ogni giorno decine di ragazzi finiscono in carcere nel silenzio generale, perché hanno indossato una maglietta con l’immagine di una famiglia, o perché hanno recitato il rosario fuori da una clinica dove si uccidono i bambini nel posto più sicuro del mondo, sotto al cuore della loro mamma. È per questo che le persecuzioni e le uccisioni dei cristiani nel mondo vengono sistematicamente taciute. È per questo che chi si oppone alle teorie del gender in alcuni paesi rischia il posto di lavoro, (forse leggendo l’incredibile decalogo che lUNAR, l’Ufficio nazionaleantidiscriminazioni razziali del Ministero delle Pari Opportunità vorrebbe imporre ai giornalisti, anche noi: esempio, dire “utero in affitto” sarà discriminatorio, occorrerà dire “gestazione di sostegno”) anche se le teorie di genere sono appunto teorie, e quindi andrebbero dimostrate, e comunque non imposte con la forza. È per questo che una giornalista norvegese, neanche particolarmente fervente, è stata rimossa dalla conduzione del tg perché indossava una croce di due centimetri al collo.
Noi cristiani invece non censuriamo. Noi viviamo in una casa bella, pulita, divertente, libera, dove si respira una buona aria. Dove tutto, persino il dolore, ha un senso. Noi se vediamo qualcuno che abita in un posto brutto sporco e triste non è che ci arrabbiamo, casomai ci dispiace per lui. Al limite lo invitiamo a casa nostra, per fargli vedere come si sta bene vivendo senza idoli, quando tutto sta al proprio posto. E se proprio siamo parecchio avanti nel cammino, ci offriamo anche di andare a casa dell’amico, a mettere a posto insieme a lui (non guardate me, io ho già i miei, di calzini da raccogliere, con dodici piedi in giro per casa).

Barra a dritta. Di Costanza Miriano

“L’uomo ha per natura un più vigoroso discernimento di ragione” dice san Tommaso (la citazione la devo a Don Luigi Moncalero, che ha scritto un articolo sul tema su La tradizione cattolica). In piena emergenza di Murphy, posso scrivere solo una piccola riflessione per dire che il filosofo medievale anche qui l’aveva vista giusta, e spero che il fatto che io sia d’accordo con lui non lo allarmi.


La ragione a casa nostra la discerne senz’altro mio marito. Ogni tanto mi avvicino a lui chiedendogli: “ma questo secondo te che è? Un brufolo o un tumore?”. Lui neanche si gira a guardarmi. Quando al primo malore di un figlio – guaribile generalmente con l’acquisto dell’ultimo numero de Gli incredibili X men deluxe – gli chiedo con voce strozzata se sia meglio portarlo dalla pediatra o direttamente al pronto soccorso è lui a mantenere la calma (non mi risponde).

Quando io rendo una giornata in casa uno sport di ultraresistenza, quando attraversare il mio corridoio ingombro di ogni sorta di oggetto richiede capacità atletiche sopraffine, quando preparo i bagagli per partire coprendo tutte le gamme dei possibili climi previsti all’interno della mesosfera terrestre, quando mi lascio prendere dalla frenesia di socializzazione e rischio di dimenticare i nomi dei miei figli (ce n’è una con la L, ma adesso non mi viene) per ascoltare le amiche, quando c’è un ospite e cucino come se l’invitato avesse annunciato che arriverà con tutti i parenti fino al quarto grado, quando sono terrorizzata dai compiti in classe sulle frazioni, quando sento l’esigenza impellente di comprare regali sconsiderati ai pargoli che mi infinocchiano con una faccetta da attori (detti Oscar goes to), è lui a mantenere salda la barra della ragione. Dandomela anche in testa, all’occorrenza.

E anche se io, per scegliere qualcosa che gli piace e avere una qualche speranza di indovinarci prendo quello che mi sembra più lontano dal mio gusto – siamo praticamente opposti – confermo che “se l’uomo è il capo, la donna è il cuore”, come dice Pio XI (grazie Don Luigi) nell’enciclica Casti Connubii. Io sarò anche il cuore, ma se fossi sola sarei davvero una catastrofe ecologica di portata devastante.

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