DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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La profezia di Del Noce, la nostra è la società più “marxista” di tutte. A vent'anni dalla morte del grande filosofo

mercoledì 30 dicembre 2009

Augusto Del Noce – del quale si ricorda il decennale della morte, mentre nel 2010 si celebrerà il centenario della nascita – ha avuto uno strano destino dal punto di vista dell’incidenza culturale e politica: durante la sua vita, è stato abbastanza isolato e solitario nel panorama intellettuale e filosofico italiano ed è stato marginale anche rispetto alle correnti dominanti del mondo cattolico (al quale egli pur si sentiva di appartenere intrinsecamente), se si esclude l’accoglienza cordiale, densa di stima e amicizia, ricevuta dal movimento di Comunione e Liberazione e da lui ampiamente ricambiata.

Da alcuni anni, invece, la sua figura e il suo pensiero sono fatti oggetto di studio, danno luogo a molti approfondimenti e ricevono consensi da destra, come da sinistra. Per molto tempo è stato visto, nel bene e nel male, come un ideale Anti-Bobbio, anche se tra i due non c’era certamente animosità, né tampoco inimicizia, al di là delle letture sicuramente differenti della realtà culturale italiana e degli sbocchi filosofici della contemporaneità. Oggi si può dire che il suo isolamento, più che allo stile certamente arduo e complesso o all’erudizione di cui erano intrise le sue pagine, anche quelle che avrebbero dovuto apparire più “leggere”, sia dovuto soprattutto a un fatto: in molte questioni è stato profetico.

In anni in cui il marxismo era ritenuto inevitabilmente vincente, permeava di sé le analisi sociali e politiche ed era ritenuto un ingrediente indispensabile per ogni riflessione culturale, sicché anche molti cattolici, vedendo in esso solo un’eresia cristiana, cercavano vie e forme per un dialogo filosofico e per una (più o meno compromissoria) collaborazione politica, Del Noce, attraverso un’analisi puntuta e implacabile, ne preannunciava la crisi e prevedeva come esito non una società più giusta e solidale, ma un nichilismo consumistico, pago di sé e privo del senso del peccato.

Dei molti spunti, che si potrebbero richiamare per la riflessione attuale, mi limiterò a ricordarne solo alcuni: il metodo di indagine, la valutazione del pensiero moderno e della sua parabola e il giudizio sul marxismo, decisivo per comprendere i successivi sviluppi della società italiana.

Del Noce non appartiene alle tradizionali correnti dei pensatori cristiani, non la neoscolastica e neppure lo spiritualismo, né si cimenta direttamente con i tradizionali problemi della metafisica, quali l’esistenza e la natura di Dio, la spiritualità o l’immortalità dell’anima, ma a tali questioni perviene attraverso un lungo percorso di storia delle idee, in cui cerca di ricostruire le movenze del pensiero moderno o i suoi esiti novecenteschi, adottando un metodo che potremmo definire “essenzialistico”, in quanto nei pensatori e nelle correnti esaminati le sue analisi afferrano la struttura essenziale di fondo e ne colgono le connessioni quasi necessarie con i successivi sviluppi e gli esiti finali, i quali spesso sono contrari a quelli che ci si sarebbe attesi, grazie a un processo che vichianamente viene chiamato di “eterogenesi dei fini”.

Egli ricostruisce così evoluzioni di lungo periodo, attento anche alle ricadute politiche e sociali di molte prospettive filosofiche, giacché ritiene che nel Novecento la storia sia diventata storia filosofica, in quanto è stato proprio il marxismo a voler non solo interpretare il mondo, ma anche e finalmente cambiarlo. L’indagine sulla storia diventa, allora, analisi dei motivi teorici e filosofici secondo cui essa va trasformandosi, sicché le considerazioni di Del Noce giungono alle tematiche metafisiche, studiando le impostazioni filosofiche che animano il proprio tempo, ne consentono un’interpretazione e cercano di rispondere ai suoi interrogativi.

Guardando al pensiero moderno e ai suoi inizi con Cartesio, Del Noce rileva come due grandi linee si siano dipartite da quell’origine: una, che è stata dominante ed è più nota, ha portato attraverso razionalismo ed empirismo all’idealismo, e al suo immanentismo, secondo un esito ateistico che il marxismo ha esplicitato e tentato di realizzare. Un’altra linea, più marginale e meno nota, conserva però aspetti capaci di trasmettere e approfondire un messaggio assai diverso: essa passa per Malebranche, Pascal, Vico e perviene a Rosmini e a un umanesimo cristiano, attento alla trascendenza e all’intimità con Dio e capace anche di impegnarsi sul piano etico-politico nella lotta contro il male.

Del Noce, infatti, aderendo a una prospettiva, in largo senso, ontologista, rifiuta un razionalismo che non ammetta il mistero, il limite e la capacità umana di peccare. Proprio perché la natura umana è decaduta, essa può anche venire redenta, ma, soprattutto, non si dovrà perseguire, su questa terra e con le sole forze umane, l’ideale di un uomo nuovo e perfetto. Si cadrebbe in quel perfettismo, giustamente deprecato da Rosmini, che tanti danni ha prodotto, avendo dimenticato il peccato originale e avendo progettato nella storia l’avvento della pienezza dell’umano e della sua finale salvezza.

Infine, riflettendo a lungo sul marxismo, in particolare sul pensiero di Gramsci e sui suoi rapporti con il pensiero di Gentile, Del Noce sottolinea come nel marxismo si annidi una contraddizione intrinseca che lo condurrà alla dissoluzione: il materialismo, da un lato, porta alla decostruzione radicale della società borghese e soprattutto dei suoi ideali (morali, religiosi, metafisici), interpretati solo come menzogne e frutto dell’oppressione di classe; d’altro lato, la dialettica, dovrebbe traghettare a una società senza classi, priva però di un modello ideale secondo cui configurarsi. Ne risulta che, mentre la pars destruens riesce benissimo, mettendo in crisi i valori fondanti la società borghese, fallisce la costruzione di una società nuova, sicché la mera ricerca del benessere, il consumismo e l’egoismo di massa subentreranno ai vecchi ideali cancellati, e il nichilismo costituirà l’esito non programmato, né atteso, ma inevitabile sul più diffuso piano sociale e umano. L’opzione per un razionalismo esclusivo porta a esiti nichilistici, connessi anche con il processo di secolarizzazione, che si registra nella società occidentale.

Alcune correnti del cristianesimo contemporaneo, valorizzando il processo di secolarizzazione come processo di autenticazione della vera fede, che uscirebbe purificata da tutte le scorie stratificate nel tempo, hanno, secondo Del Noce, snaturato il messaggio cristiano, in quanto hanno distorto il rapporto tra natura e grazia e hanno rivendicato l’autonomia dell’umano da ogni legame con il trascendente, con il Dio creatore e redentore: destinandosi a un esito fallimentare.

Secondo Del Noce, questo, che è un risultato inevitabile, non è uno sbocco insuperabile; decisivo potrà essere l’apporto costruttivo e vivificante della Chiesa cattolica, in virtù del quale va recuperato l’intrinseco nesso tra natura e soprannatura, il legame costitutivo tra cristianesimo e razionalità, così come il valore dell’apporto del pensiero greco alla riflessione cristiana: perché la tradizione non significa l’impossibile ritorno a un’epoca passata, idealizzata e astratta, ma richiama e sottrae dall’oblio una verità eterna, che è capace di attualizzazioni sempre diverse e varie, pur rimanendo in se stessa identica, poiché è sovrastorica.


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Paideia: don Giussani, Hadjadj e San Paolo


Articolo di Amicone sul Foglio


di Luigi Amicone


Caro direttore, avendo noi ricevuto nel nostro piccolo torrente entrambe, in un certo senso, le acque giussaniane e, via il suo mentore direttore, quelle straussiane (al che viene da pensare che gli opposti si incontrino, e cioè lo sfacciatamente veritativo Rio delle Amazzoni e lo scetticismo protettivo dei fiumi carsici che scorrono sotto il teatro di vanità e persecuzione che è il mondo), al suo interrogativo polanskiano la nostra modesta esperienza dice questo. Visto che lo ha citato lei, noterei innanzitutto che don Giussani, di cui mi picco di aver avuto una certa consuetudine di filiazione e dialogo, non ci ha mai e poi mai parlato di sesso. Solo in un paio di occasioni ascoltai da lui qualcosa in proposito, e solo per richiesta a cui il Giuss parve concedersi annoiato. Una volta quando accennò con fare compassionevole all’attivismo e alle solitudini del manager, che si capisce, vado a memoria, “stancano, così che il sesso poi non è nient’altro che una valvola di sfogo”. Un’altra, in privato, alla presenza della nostra amica Carmen di Madrid, su mia espressa domanda che nasceva proprio dalla considerazione che lui non parlava mai di sesso, e anche in quell’occasione egli sbuffò e liquidò l’affare come “una tenda che viene giù di colpo”. Non solo, Giussani aveva una tale concetto superiore del “pensiero dominante” leopardiano e degli “scambiati oggetti”, che tra le tante citazioni ricorrenti gli piaceva ricordare con Cesare Pavese che “il sesso è un incidente: ciò che ne riceviamo è momentaneo e casuale; noi miriamo a qualcosa di più riposto e misterioso di cui il sesso è solo un segno».
Ciò detto, come era implicita nella sua paternità la considerazione della grande attrattiva che attrezza tutta la persona umana, compreso la biologia e la caratura ormonale, verso la Felicità! Ora, di tutto ciò non si trova traccia nella moderna e postmoderna medicalità, fitness e sciatteria con cui si parla a scuola, in famiglia, nei rotocalchi, nel cinema (non a caso ormai rassegnato a compulsarne solo la perversione) e negli ospedali; nessuna traccia nelle comunicazioni con cui si lubrifica, si strizzano i cervelli e si possono mettere i peni perfino dentro i buchi delle serrature (direbbe Hadjadj), la vagina perfino in un Campari (dice l’advertising), senza arrivare neppur lontanamente a sfiorare la materia, il significato, la jussance del sesso vissuto non casualmente (non cavalcare sellini causali, girl) e perciò come “segno”. Di Strauss, del quale ammetto di saper poco o niente, mi par di sorprendere l’asciuttezza del richiamo alla struttura consapevole e classica greca, da te, se ho capito bene, mi pare accennata, direttore. E cioè il sesso come sereno e consapevole esercizio della parte nel tutto, al di là di quella sciocchezza idolatrica, orgiastica e dionisiaca, che sembra essere stata colta e accentuata solo da noi moderni - e su tutti Nietsche - mentre anche per i pagani quella ricerca di una particolare esperienza orgasmica (“unione e pazzia divina”) sembra facesse parte di una delle tante forme di ritualità e iniziazione alla pratica della prostituzione.
Tant’è che i pratici romani sapevano che “non a tutti è consentito andare a Corinto”. Nel senso che la prostituzione sacra che in Corinto si praticava esigeva un portafogli gonfio, non altri busillis di liberazione sessuale o di emancipazione culturale. Dunque, in un certo senso, si potrebbe osservare che, in materia di sesso, nonostante la fantasia, la vera propria ossessione e l’infinita casistica della sua perversione in cui, a partire da quel boy scout di De Sade, noi moderni o noi postmoderni ci siamo cimentati, modernità e postmodernità sono serie B rispetto alla grande esperienza e conversazione (e in certi casi vera e propria fusione) intavolata tra greci, romani, cristiani ed ebrei religioso (mentre mi pare che ebrei assimilati ed ebrei agnostici si sono genialmente divisi tra Freud e i mille rivoli della secolarizzazione).
Per dirla tutta, perfino quel Paolo, che una tradizione bigotta e clericale, ritiene un “moralista”, un “misantropo” e un “maschilista”, molto realisticamente richiamava le chiese primitive, dove continuavano a praticarsi certi “peccati” (anche “sodomiti” e anche “c’è qualcuno tra voi che giace con la donna di suo padre”), semplicemente al “segno”, cioè al fatto che “tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo”. Insomma, quando MacKenzie Phillips – è successo due settimane fa - dichiara all’Oprah Winfrey’s Show che, “come servizio pubblico”, voleva che tutti sapessero che aveva fatto sesso consenziente con suo padre, John Phillips, uno dei fondatori del gruppo rock the Mamas and the Papas, morto nel 2001 (mi informa Lorenzo Albacete che «la Phillips sta promuovendo il suo nuovo libro aperto “High on Arrival.” Senz’altro scritto come servizio pubblico»), non dice più niente di nuovo. Se non che l’asticella continua a spostarsi e che il femminismo è roba da vecchine del pleistocene. Ora, come si sa dai tempi in cui al catechismo insegnavano che una lieve e devota palpatina sì, ma il petting no, quando tutto il sesso si risolve in asticelle e in trasgressione all’asticella precedente, siamo al muro del moralismo. Da cui modernità e postmodernità non riescono a cavare né un ragno dal buco, né un sesso come Dio comanda.