Nel dibattito pubblico, sulla stampa, in radio e televisione, non è raro leggere o ascoltare parole critiche nei confronti della Chiesa e del suo ruolo nella società contemporanea. Considerazioni spesso generiche, che possono però essere anche occasioni di dialogo. La pensa così l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Fabio Colagrande gli ha chiesto se è sorpreso della durezza di certe critiche:
R. – Per certi versi direi di no, perché anche la mia stessa esperienza è ininterrottamente in contatto con orizzonti che hanno un po’ questo colore fondamentale e devo dire non soltanto a livello popolare, ma soprattutto – alcune volte – anche a livello colto. Il dialogo, perciò, acquista tante volte anche un aspetto particolare che io vorrei esprimere con un’immagine forse brutale: siamo coinvolti in una sorta di duello. Il mio sogno sarebbe quello di riuscire - riconoscendo le diversità fondamentali che intercorrono tra il mondo della Chiesa, dei credenti e il resto - a fare un duetto perlomeno, dove le voci sono diverse - così come accade in musica - ma riescono a fare lo stesso armonia.
D. - Un’accusa un po’ vaga, ma ricorrente, che si rivolge alla Chiesa è quella di non essere al passo con i tempi. Ma è giusto dire che la Chiesa deve evolversi?
R. – La religione soprattutto cristiana è una religione incarnata, il che vuol dire che questa verità è come un seme che deve essere deposto nell’interno di un tessuto, di un terreno, che può avere una sua fecondità. C’è una bella immagine che usava uno scrittore austriaco importante del secolo scorso, Robert Musil, e che diceva: “La verità non è come una pietra preziosa da tenere nello scrigno, bensì come un mare in cui bisogna immergersi per navigare”. Noi tante volte ai fedeli non presentiamo questo mare e se lo facciamo – adesso andiamo fuori dell’immagine – usiamo un linguaggio che non è comprensibile, un linguaggio – come si dice in maniera molto sofistica – autoreferenziale, che è cioè chiuso in se stesso. Ecco perché l’evoluzione deve avvenire: quella verità, che è come un seme, che è come componente feconda, deve riuscire ad essere in qualche modo inserita, deve riuscire ad irradiare anche la cultura e l’esistenza quotidiana con delle caratteristiche che sono sempre nuove.
D. - Molti oggi, in polemica con la Chiesa, vivono la religione come un’esperienza tutta interiore e personale. Quali sono i limiti di questo atteggiamento?
R. – Da una parte la religione certamente è una adesione personale, è una opzione, è una scelta, è un atto di libertà, è una sfida, è anche un rischio, perché vivere secondo certe norme in una società che si fa vedere tutti i vantaggi del non avere norme – per esempio in campo etico – può essere effettivamente la grande tentazione. E’ una scelta, quindi, che ha una sua interiorità profonda. Pensiamo che cosa vuol dire, per esempio, la preghiera già di sua natura, che è prima di tutto espressione della propria intimità. Detto questo, però, dobbiamo ricordare sempre che la religione di sua natura è trasformare un’esistenza, incidere nell’interno di un mondo che diventi diverso, possibile secondo i grandi valori: valori di amore, di giustizia, di verità. Ecco allora la necessità indiscutibile, anch’essa, di far sì che l’esistenza esterna e l’esteriorità abbiano ad essere fecondate da questa scelta interiore.
D. - Come descrivere gli attacchi più duri che oggi la Chiesa riceve nel dibattito culturale?
R. – Io vorrei fare una distinzione tra l’ateismo, l’ateismo classico, l’ateismo solenne, l’ateismo teorico. Pensiamo ad una figura come Nietzsche, pensiamo alla figura di Marx stesso: questo era un ateismo – direi – importante, quasi necessario per molti versi alla stessa Chiesa, perché era una vera e propria visione del mondo alternativa, ma con dei valori propri, con delle scelte, con delle decisioni. Qualche volta la polemica era virulenta, ma nasceva da una passione. Ora noi ci troviamo di fronte, in verità, molto spesso, nell’ambito della critica alla Chiesa e ai valori religiosi, alla non credenza, che è un altro modello. E’ un modello molto simile ad una mucillagine molle. L’indifferenza religiosa è questo grigiore, questo incolore che ci domina. E’ la superficialità, la banalità, qualche volta la volgarità. E’ chiaro allora che portare il discorso su alcuni temi, qualche volta anche provocatori e pesanti, può suscitare alla fine più che la reazione polemica di una volta, che era preziosa, l’ironia, lo sbeffeggio. E’ quello che troviamo in tutti i Paesi in questo tempo: sono queste forme che creano la difficoltà di poter poi reagire. In verità l’ironia si ferma su molti aspetti esteriori, che dobbiamo cercare certamente di correggere, ma non c’è invece il vero confronto.
Radio Vaticana