Bruxelles. Dietro alla guerra di cifre e
procedure da inserire nell’accordo globale
sul cambiamento climatico a Copenaghen,
si nasconde una battaglia che ha poco
a che vedere con il clima, ma dal cui
esito dipende chi comanderà l’economia
mondiale del Ventunesimo secolo. Da un
lato, la Cina si tiene le
mani libere sulle emissioni
e manovra i paesi
dell'Africa, per svincolarsi
da potenziali obblighi
che minerebbero la
sua crescita. Dall’altra
gli Stati Uniti non intendono
concedere a Pechino
un irragionevole vantaggio
competitivo. In
mezzo, l’Europa paga già
un prezzo costoso, nell’illusione di far sopravvivere
la sua economia con il business
della tecnologia pulita. Intanto, i paesi poveri
si fregano le mani sognando centinaia
di miliardi di aiuti, mentre Brasile, Russia
e Congo vogliono capitalizzare i polmoni
del pianeta che sono le loro foreste. Ma, alla
fine, è tra Cina e America che si gioca la
partita economica di Copenhagen, come
dimostra lo stallo di queste ore. Pechino
dice “no” alla richiesta di Washington di
monitoraggio internazionale delle emissioni
cinesi. “E’ una questione di principio”,
ha detto il negoziatore He Yafei. Eppure
il monitoraggio è una delle condizioni
del Congresso per dare il via libera a un
nuovo trattato: l’America non accetterà un
accordo che non protegga l’industria americana
da concorrenti stranieri non obbligati
a rispettare norme globali sulle emissioni,
hanno avvertito dieci senatori democratici.
Così, per i due più grandi inquinatori
al mondo, il dopo-Kyoto potrebbe
essere vuoto come il Protocollo di Kyoto.
L’ultima bozza di accordo messa sul tavolo
ieri dalla Danimarca non contiene alcun
obiettivo in cifre: nulla sulla riduzione delle
emissioni, né sui finanziamenti ai paesi
in via di sviluppo.
Oltre ai miliardi di dollari, in ballo ci sono
punti di pil. I cinesi “sono i migliori negoziatori
al mondo”, dice al New York Times
Barbara Finamore, direttrice del Natural
Resources Defense Council. Pechino,
con la sua offerta di ridurre l'aumento del
CO2 del 40-45 per cento per unità produttiva
entro il 2020, si garantisce un ampio
margine per far crescere la sua economia
senza il problema emissioni. Nel frattempo,
manovra l’Africa: la minaccia africana
di abbandonare Copenhagen se non verrà
preservato il Protocollo di Kyoto serve a
sancire il principio che i paesi in via di sviluppo
– Cina inclusa – non siano vincolati
sul clima e siano risarciti finanziariamente
per i danni passati delle nazioni industrializzate.
Washington però, lavora a una
norma per imporre tariffe contro chi non
ha gli stessi standard ambientali americani.
Il Foglio 16 dic 2009