DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Mulier et magistra. La storia del rapporto tra chiesa e donne riserva sorprese. La parità dei sessi sancita in un concilio

Roma. Non è un caso che l’appello per
un sinodo della chiesa sulla donna venga
da due donne, Liliana Cavani ed Emma
Fattorini, che la storia la frequentano da
sempre, per fiction o per ricerca. In effetti
il sinodo dei vescovi, istituito da Paolo
VI sul finire del Concilio Vaticano II, è
uno strumento di lavoro collegiale che ha
le sue radici negli albori della chiesa. Fin
dai primi anni – è la Scrittura stessa a testimoniarlo
– i cristiani convenivano (questo
vuol dire sinodo in greco) per discutere
di questioni di fede e di costumi. E pure
all’interno di un regime patriarcale, essi
trovavano modo di deliberare in maniera
innovativa.
E’ il caso del IV Concilio Lateranense
(1215) che introduce l’idea di matrimonio
come contratto (conjuratio) per cui esso è
valido solo se la donna è consenziente; come
ha fatto notare lo storico Jack Goody,
è un inaudito tentativo di parità dei sessi
e cade in pieno medioevo, epoca che sulle
questioni di genere gode generalmente
di pessima fama. Chi conosce la storia, invece,
sa che la chiesa trovò molti modi
per sottrarsi al regime patriarcale di cui
pure era protagonista. Nel Settecento,
cercò l’alleanza delle donne contro la deriva
del libertinismo teorizzato e praticato
dai maschi, mentre nell’Ottocento
esplode il culto mariano. In effetti, la riflessione
teologica e spirituale sulla ragazza
di Nazaret è sempre stato il grimaldello
con cui forzare le porte del maschilismo
ecclesiale.
Resta il fatto che la
donna non è mai stata messa direttamente
a tema dal Magistero se non nel Novecento,
e pour cause. La fine del regime di
cristianità genera la questione femminile,
di cui ha già sentore Pio XI nell’enciclica
“Casti connubii” (1930) quando, interpretando
il celebre passo di Paolo (“Le
donne siano soggette ai loro mariti come
al Signore, perché l’uomo è capo della
donna come Cristo è capo della chiesa”,
Efesini 5,22), precisa che “una tale soggezione
non nega né toglie la libertà che
compete di pieno diritto alla donna… Se
l’uomo infatti è il capo, la donna è il cuore;
e come egli tiene il primato del governo,
così lei può e deve attribuirsi il primato
dell’amore”. La divisione dei ruoli è
ancora rigida, ma prefigura un’apertura
alle ragioni delle donne che verranno poi
sancite con magnanimità dal Vaticano II,
il sinodo universale della chiesa catolica
che in numerosi passi celebra il “genio
femminile”. In realtà, questa celebre
espressione connota la “Mulieris dignitatem”
(1988), lettera apostolica di Giovanni
Paolo II. Si tratta di una pietra miliare
nei rapporti tra magistero e donne; non a
caso viene da un Papa che, oltre a essere
stato protagonista al concilio proprio sui
temi della famiglia, è di formazione fenomenologica,
la scuola filosofica che ha rimesso
al centro del discorso il corpo e le
sue emozioni. Nelle sue riflessioni Papa
Wojtyla restituisce tutta la carnalità dei
primi capitoli della Bibbia, la genesi di
un incontro che non finisce di stupire,
specialmente se lo si confronta con analoghi
racconti di creazione.
Sulla scia di Giovanni Paolo II si inserisce
la lettera “Sulla collaborazione dell’uomo
e della donna nella chiesa e nel
mondo” (2004), documento della congregazione
per la Dottrina della fede firmato
dall’allora prefetto cardinale Joseph
Ratzinger. Anche in questo caso l’excursus
biblico è amplissimo, a dimostrazione
che la Scrittura, dalla Genesi all’Apocalisse
passando per le gesta eroiche di Rut
ed Ester e le gesta erotiche degli amanti
del Cantico dei cantici, è la pietra di paragone
di qualunque discorso cristiano
sull’argomento. Come nota Ratzinger, la
Scrittura ha il merito decisivo di rigettare
la “mescolanza fra sacro e sessualità
presente nelle religioni che circondano
Israele”, aprendo a una forma di vita “audace”
come la verginità che contesta radicalmente
la riduzione della donna (e
dell’uomo) al suo destino biologico. Ribadito
che maschile e femminile sono “appartenenti
ontologicamente alla creazione”,
osserva come la femminilità appartenga
all’uomo in quanto tale e perciò tutti
debbano imparare a essere più femminili.
In questo senso si deve “correggere
la prospettiva che considera gli uomini
come nemici da vincere”: una critica non
troppo velata a un certo pensiero femminista
contemporaneo, ancora imbrigliato
in logiche di rivendicazione e di pessimismo
antropologico.
Di tutt’altro genere la proposta di Cavani
e Fattorini che mirano alto: non al sacerdozio
femminile ma al destino stesso
del cristianesimo. Che oggi rischia di
soffocare in “una ragione e in una teologia
troppo disincarnata”. (mb)

Il Foglio 29 dic. 2009