DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Sesso, Internet e pornografia Intervista al prof. Petruccelli, direttore del Centro per lo studio e la ricerca delle Dipendenze Affettive e Sessuali


Il cervello è il più potente organo sessuale, ma esiste davvero la sesso-dipendenza?
Lo abbiamo chiesto a chi studia e lavora su questi temi per professione.
Il prof. Filippo Petruccelli, direttore del Centro per lo studio e la ricerca delle Dipendenze Affettive e Sessuali, ci svela la nuova fisionomia di un vecchio problema.
Cosa significa essere "sex addicted" e come tradurrebbe il termine in italiano?

Non si tratta di una vera e propria dipendenza fisica, come quella dalle droghe, che lascia l’individuo inerme, ma di un atteggiamento compulsivo che può e deve essere governato.
La definizione del comportamento è recente, normalmente si traduce il termine “sexual addiction” con “dipendenza sessuale”, ma è tuttavia un intervento riduttivo, perché il termine inglese contempla anche una valenza affettiva, mentre in italiano il termine “sessuale” coinvolge esclusivamente la sfera fisica.

Che caratteristiche hanno l’uomo o la donna affetti da “dipendenza sessuale” e come si matura tale sindrome?

In genere il problema si crea nell’età adolescenziale, quando i giovani affrontano le prime esperienze e i primi approcci concreti con l’altro sesso.
I ragazzi crescono con immagini e linguaggi che riducono l’eros alla fisicità, mentre le ragazze
Durante l’adolescenza l’incontro tra uomini e donne dovrebbe favorire un’integrazione tra questi ruoli: il maschio acquisisce un po’ della componente affettiva e la donna un po’ di quella fisica.
Se i due ruoli non si incontrano, le due tendenze, quella maschile e quella femminile, si isolano e si estremizzano, rischiando di raggiungere comportamenti problematici.
Gli uomini non sviluppano la sfera affettiva legata alla sessualità e le donne, nella spasmodica ricerca di un amore idealizzato, vedono nella sessualità un mezzo per trovare il “principe azzurro”.
si formano associando alla sessualità un contesto “romantico” e affettivo.
Oltre alle persone che da adolescenti non sono riuscite a integrarsi con l’altro sesso esistono altre tipologie di "sex addicted"?

Sì. Vi è infatti un secondo punto critico, che si rileva in età più matura, quando le persone possono essere colte da momenti di noia e demotivazione nei confronti della propria vita. Allora l’insoddisfazione e il desiderio di una vita diversa si riversa nel sesso, in una sorta di escalation verso comportamenti sempre più estremi, alla ricerca di quelle emozioni che non sanno trovare nel proprio quotidiano.
In genere sono 50enni spesso con famiglia, di ceto medio-alto e grado culturale elevato.

Il mutamento nel consumo di pornografia dovuto a Internet ha cambiato questa forma di dipendenza?

Reperire pornografia in Internet non è di per sé negativo. Se invece si rinuncia alla vita relazionale e si rivolgono le proprie attenzioni esclusivamente a video e immagini pornografiche significa allora che esiste già un problema a monte.
La questione non è impedire l’accesso a contenuti pornografici, né si può pensare di controllare Internet. La Rete non è un'aggravante rispetto al problema, come non lo è il tanga al posto del bikini o il due pezzi succeduto al costume intero.

Ma l’abuso di nudità e immagini erotiche presenti sui media non costituiscono una tentazione troppo a portata di mano?

Diventa un problema nel momento in cui modifica il costume sessuale della gente. La strumentalizzazione della sessualità da parte della pubblicità incide considerevolmente sulla crescita dei giovani di oggi. Se la società abbassa la soglia del concetto di “trasgressione”, facendo cadere ciò che fino a ieri era considerato un tabù, il limite si sposta sempre più in là, verso pratiche sempre più estreme. E' un fenomeno diffuso su larga scala, di fronte al quale siamo impotenti.

Come e dopo quanto tempo i “sex addicted” percepiscono la loro inclinazione come una “malattia”? Ed eventualmente dopo quanto tempo cercano aiuto?

Percepiscono il loro stato quando il disagio è forte, quando il proprio comportamento "costa" loro in termini sociali e ne intuiscono i rischi. Ma è difficile che persone realmente malate si rivolgano al Centro spontaneamente: chi si rivolge a noi di propria iniziativa normalmente non è vittima di una dipendenza reale. La maggior parte dei nostri pazienti viene portata al Centro per una decisione delle istituzioni.

Il percorso terapeutico in genere dà esiti positivi? Che tipo di terapia comporta?

Una buona terapia può certamente funzionare. Nel nostro Centro non seguiamo un approccio psicoanalitico ma si cerca di restituire alla persona i limiti posti dalla società alle prevaricazioni, è un problema di “paletti”. Cerchiamo di rieducare i nostri pazienti verso un approccio più equilibrato con l’altro sesso. L’obiettivo non è trasformare la psiche della persona, ma fare in modo che questa si comporti in modo più cosciente e responsabile. Si tratta di una terapia che ha una forte valenza sociale.

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