Nel libro che non ha mai scritto, Michel
Foucault voleva narrare una “leggenda
degli uomini oscuri” e dei “discorsi che nella
disgrazia o nella rabbia essi scambiano
con il potere”. Nel suo infinito scavo archeologico
si era imbattuto in frammenti
di vite minuscole, spulciando gli archivi
d’internamento dell’Hopital Général e della
Bastiglia. Vite illuminate per un istante
dal fascio di luce del potere, “che ha atteso
al varco queste vite, che le ha perseguitate,
che ha prestato attenzione… le ha segnate
con i propri artigli”. Storie ordinarie
e senza lode, oggi diremmo la bieca quotidianità
che merita, all’occorrenza stramba
o delittuosa, trenta secondi di tigì e un angolino
nel casellario giudiziario. Avrebbe
dovuto diventare “La vita degli uomini infami”,
ne resta solo una lunga introduzione.
Foucault si fece affascinare fino a non
riuscire a scriverne da questi brevi rapporti
che oggi sarebbero delazioni, chiamate
di correo, denunce per molestie,
comparsate da talk show, video galeotti
che bruciano in Rete, rapporti di psicologi
delle Asl. Comunque “vite vere” che
“sono state ‘giocate’ in queste poche frasi”.
Foucault parla per questo libro mai
scritto di una “vibrazione che ancora oggi
provo quando mi capita d’imbattermi in
queste vite infime, divenute cenere nelle
poche frasi che le hanno stroncate”. La vibrazione
che si sente ancora oggi leggendo
non è però legata al passato, ma al presente.
E alla lucida spiegazione che il filosofo
francese offre del perché le ritenga centrali.
I documenti cui attinge sono tutti datati
in Francia tra il 1660 e il 1760: “Archivi degli
internamenti, delle suppliche al re e
delle ‘lettres de cachet’”, con cui il potere
sovrano puniva i singoli al di fuori delle regole
giudiziarie. In questo periodo, spiega,
“scorgo un punto d’avvio”. Di quale punto
d’avvio si tratti, è argomento di gran parte
degli studi di Foucault. Qui lo sintetizza in
poche righe. “Il cristianesimo aveva in
gran parte organizzato attorno alla confessione
la sua conquista del potere sulla vita
ordinaria”. La confessione era “un
bisbigliare fugace e obbligatorio”,
e doveva “restare segreta,
non lasciare dietro di
sé altra traccia che il pentimento
e le opere di penitenza”.
Non è il luogo questo anche
solo per riepilogare le
idee dell’archeologo del sapere
sulla confessione e la religione.
Ma certo è geniale la sua intuizione
che in quell’universo si chiudesse
in qualche modo il cerchio
del delitto e del castigo: “L’occidente
cristiano ha inventato questa stupefacente
costrizione, che ha imposto
a chiunque di dire tutto per cancellare
tutto”. Poi avviene qualcosa,
questo meccanismo viene “superato
da un altro, il cui funzionamento
era molto diverso. Disposizione
amministrativa, non più religiosa;
meccanismo di registrazione, non
più perdono”. Alla giustizia divina si
sostituisce la supplica al re per aver giustizia
umana. E per tutto questo si utilizzano
sistematicamente nuove tecniche: “La denuncia,
la querela, l’inchiesta, il rapporto
di polizia, la delazione, l’interrogatorio. E
tutto quello che viene detto si registra per
iscritto, si accumula, va a formare incartamenti
e archivi”. Sparisce la voce unica
della confessione che “cancellava il male
cancellandosi essa stessa”. E il tempo diventa
“una sorta di memoria, crescente e
incessante, di tutti i mali del mondo”. Il
male non più rinviato al cielo, si “accumula
sulla terra sotto forma di tracce scritte”.
Che cosa impedisce di aggiungere, oggi:
tracce elettroniche, tracce audio, file video?
Attraverso il controllo della giustizia
sovrana e la tecnica di archiviazione quel
che era infimo, intimo, spesso turpe
ma spesso anche solo insignificante,
detto solo a tu per tu e
poi (divinamente) cancellato,
diviene traccia a verbale, argomento
per magistrati e sbirri. E
in futuro, come sappiamo dal
grande corpus degli studi foucaultiani,
giurisdizione per psichiatri
e medici, e carcerieri.
La sanzione giuridica diventa
l’unica forma di verità accettata
tra gli uomini, detta legge
“tra i componenti della
stessa famiglia, nei rapporti
di vicinato, d’interesse, di
rivalità, di odio e amore”. E’
in quell’epoca, che giustamente
Foucault considera
chiave, che “comincia a salire
un mormorio che non si fermerà:
quello per cui le variazioni
individuali della condotta, le vergogne
e i segreti sono offerti dal discorso all’impresa
del potere”. E da qui, conclude
nelle sue brevi pagine, “provengono per
noi, che osserviamo da lontano… strane
folgorazioni, qualcosa di stridente e d’intenso”.
E’ forse più di una “strana folgorazione”
quella che, leggendo, spinge a riflettere
che oggi, senza più Dio né Sovrano, viviamo
nel parossismo grottesco di tutto ciò. A
un potere giudiziario elefantiaco e invadente
si è alleato il potere dell’informazione
e la sua nemesi postmoderna, il potere
dello sputtanamento mediatico. Certo, nel
suo libro mai scritto Foucault parla di miserabili
e senza storia. Ma il meccanismo
rancoroso di questi poteri senza grazia che
decidono le carriere pubbliche così come
le vite private è universale.
Le “strane folgorazioni” di Foucault si
riflettono sull’oggi con l’attualità di un
pamphlet. Difficile leggere qualcosa di più
pertinente, e di allarmante, a proposito
del caso Marrazzo o del caso Boffo, della
politica ridotta a esposizione del privato,
dei pizzini dei pentiti. Oggi sguazziamo nei
cascami di quella profonda mutazione, divino-
umana, quella che in Europa fa
confondere il peccato con la norma giuridica,
e il peccato privato in (presunto) delitto
pubblico. Per cui è obbligatoria la
sanzione pubblica della propria debolezza,
in un fosco clima da “autodafé” continuo
in cui allo sputtanamento deve seguire
la lettera di scuse resa pubblica, la richiesta
di perdono ai parenti e persino al
Papa. Da secoli non c’è più un Dio a sorvegliare
(e punire) e magari a perdonare, c’è
al massimo una Coscienza privata che si
autoassolve, mentre la Coscienza pubblica
condanna (quando vuole). Ma Foucault
meravigliosamente ci ricorda che tutto
questo non è un’innocua parodia: è qualcosa
di cupo e ossessivo nascosto sotto l’aspetto
quotidiano, di allegro delirio immorale,
di ciò che da tempo chiamiamo il circo
mediatico-giudiziario. Quello che resta
della leggenda mai narrata degli uomini
infami sono una sessantina di paginette,
oggi riproposte dal Mulino (la prima edizione
italiana è del 1977). Lasciano l’allarme,
la “folgorazione” che abbiano qualcosa
a che fare non solo con le vite (infami)
degli altri.
Maurizio Crippa
Il Foglio 5 dic. 2009