di Maurizio Schoepflin
In una lettera del 7 giugno 1793, indirizzata
al filosofo Johann Friedrich
Herder, Goethe scriveva tra l’altro:
“Kant dopo aver avuto bisogno di una
lunga vita umana per ripulire il suo
mantello filosofico dai numerosi pregiudizi
che l’insudiciavano, lo ha ignominiosamente
imbrattato con la macchia
vergognosa del male radicale affinché
anche i cristiani siano allettati
a baciarne il lembo”. Parole davvero
aspre, che non possono non sorprendere:
uno dei grandi geni dell’umanità
– il celeberrimo creatore di Faust
e di Werther, un autentico monumento
della civiltà germanica – che
lancia un’invettiva davvero sanguinosa
contro uno dei massimi pensatori
di tutti i tempi, il mite e rigoroso Immanuel
Kant, la cui opera rappresenta
uno snodo decisivo nella storia della
filosofia occidentale! Che cosa c’era
in gioco di così drammatico da suscitare
le ire goethiane? Di quale grave
colpa si era macchiato l’autore della
“Critica della ragion pura” tanto da
meritare un’accusa così pesante? Non
v’è dubbio che la materia del contendere
fosse di estrema e complessa
consistenza: si trattava infatti della
questione del peccato originale, che
qualcuno potrebbe essere ancora indotto
a ritenere adatta solamente a
teologi un po’ démodé o a pii seminaristi
di qualche congregazione tradizionalista.
In realtà, il problema del peccato
originale campeggia da venti secoli al
centro della ricerca e del dibattito filosofici
e teologici e il ponderoso volume
“Il peccato originale nel pensiero
moderno”, curato per l’Editrice
Morcelliana da Giuseppe Riconda,
Marco Ravera, Claudio Ciancio e
Gianluca Cuozzo, con le sue quasi novecento
pagine ce lo ricorda con forza.
Novecento pagine che, spaziando da
Cusano e Ficino fino a Dostoevskij e
Nietzsche, cioè dal XV al XIX secolo,
dicono con chiarezza che la modernità
non si è dimenticata minimamente
di Adamo, di Eva e del serpente,
ma anzi li ha posti al cuore delle proprie
riflessioni sull’origine, la condizione
e il destino dell’uomo. Novecento
pagine che ci fanno conoscere un
altro dato molto interessante, ovvero
che del tema del peccato originale si
sono occupati anche molti filosofi non
particolarmente vicini alla fede cristiana
e sicuramente assai lontani dai
dogmi del cattolicesimo: a questo riguardo,
i nomi di Thomas Hobbes, Baruch
Spinoza, Ludwig Feuerbach e
Arthur Schopenhauer risultano sufficientemente
esplicativi. Certo, alcuni
pensatori non soltanto hanno respinto
la verità dogmatica della caduta dei
progenitori come l’ha rivelata la Bibbia,
ma hanno cercato di dimostrarne
l’inconsistenza sotto ogni punto di vista;
ciò che comunque rimane incontrovertibile
è il fatto che tutta l’epoca
moderna, pressoché senza eccezioni,
ha dovuto e voluto fare i conti con
questo difficile argomento. Si consideri
proprio il caso di Kant, forse il più
emblematico di tutti, di quel Kant
che, come si è detto, fece perdere le
staffe nientemeno che a Goethe, e che,
secondo una valutazione unanime,
possiamo considerare il simbolo e la
sintesi della filosofia moderna, nonché
la porta di accesso a quella contemporanea.
Nel 1793, alla soglia dei
settant’anni, il grande pensatore di
Königsberg pubblicò l’opera “La religione
entro i limiti della sola ragione”,
uno scritto di notevole rilevanza
il cui primo capitolo, recante il titolo
“Della coesistenza del principio cattivo
accanto a quello buono nella natura
umana”, è dedicato all’importante
e drammatica questione del male radicale:
secondo Kant, vi è nell’uomo
una tendenza innata e naturale verso
il male, una sorta di corruzione che
spinge l’essere umano ad agire non
solamente in ossequio alla legge morale,
ma anche cercando di soddisfare
i propri impulsi sensibili e i propri desideri
egoistici. Questo male radicale,
che si presenta come la trascrizione filosofica
del biblico peccato originale
e che – afferma Kant – la gente comune
si raffigura con i tratti del diavolo,
è ineliminabile, e l’uomo non ha certo
la possibilità di cancellarlo con le proprie
forze, cosicché l’ estirpazione di
esso ha richiesto l’intervento diretto
di Dio, intervento che si è realizzato
nell’incarnazione e nella venuta sulla
terra di Gesù Cristo. Siamo così giunti
ai limiti stessi della ragione, la quale,
come non è in grado di spiegare l’origine
ultima del male radicale, non è
neppure capace di comprendere un
evento, quale è quello dell’esistenza
del Cristo storico, che la oltrepassa
completamente. Scrive Kant: “La ragione,
nella consapevolezza della sua
impotenza a soddisfare alle sue esigenze
morali, si estende fino a idee
trascendenti, che potrebbero compensare
quella deficienza, senza che la
ragione se le attribuisca come un suo
più esteso possesso. Essa non contesta
né la possibilità, né la realtà degli oggetti
di queste idee, ma solamente non
può assumerle nelle sue massime del
pensare e dell’agire. Anzi essa calcola
che se, nell’insondabile campo del soprannaturale,
v’è tuttavia, oltre ciò
che essa può rendere comprensibile,
ancora qualcosa, che sarebbe necessario
per supplire all’impotenza morale;
questo qualcosa, anche se sconosciuto,
tornerà pertanto di grande aiuto
alla sua buona volontà mediante
una fede, che (riguardo alla sua possibilità)
si potrebbe chiamare riflettente,
poiché la fede dogmatica, che si
spaccia per una scienza, apparisce alla
ragione insincera o presuntuosa”.
Il problema del male radicale viene
legato da Kant a quello della possibilità
della sua soluzione: eloquente,
a questo proposito, è il titolo del
secondo capitolo dell’opera, che suona
“Della lotta del principio buono
con il cattivo per la signoria sull’uomo”.
Il filosofo prussiano è sicuro che
l’uomo può e deve essere in grado di
superare lo scacco del male radicale,
pena il venir meno della stessa attuabilità
dell’imperativo morale: infatti,
se non fosse possibile per l’uomo vincere
la propria malvagità, non si darebbe
vita etica. Comunque, anche
nel caso dell’affrancamento dal male,
Kant ribadisce l’incompetenza della
pura ragione a renderne completamente
conto. Certo è che a ciascuno si
impone l’obbligo di impegnarsi con
tutte le sue forze per far trionfare in
sé la pura moralità; e tale impegno
non potrà mai essere sostituito da alcuna
pratica cultuale, anche se l’uomo
è autorizzato a “sperare che ciò
che non è in suo potere sarà completato
da una cooperazione superiore”.
L’unico vero culto resta per Kant la
retta condotta morale: tutte le altre
espressioni tipiche di una religiosità
esteriore sono da lui considerate forme
di superstizione, o di fantasticheria
o, ancora, di follia religiosa. Come
si può notare, ponendosi di fronte al
terribile mistero del male, Kant appare
per così dire combattuto: le esigenze
della ragione, che egli non intende
eludere, gli fanno prendere le distanze
dalla credenza nel dogma cristiano,
ma, nello stesso tempo, la tragica
e insondabile presenza di un pervertimento
posto alla radice stessa dell’essere
umano lo spinge a riconoscere
i limiti della razionalità che si dimostra
incapace di offrire al riguardo
una spiegazione plausibile. Anche dinanzi
alla figura di Cristo Kant manifesta
un atteggiamento oscillante, che
rimane tale anche al momento di valutarne
l’azione redentrice. Infatti, il
filosofo è preoccupato del fatto che
l’uomo possa attenuare il proprio impegno
etico confidando nell’opera
salvifica di Gesù Cristo, ma nello stesso
tempo non esclude che in Lui Dio
abbia voluto offrire all’umanità un sostegno
soprannaturale nella lotta contro
il male, sostegno senza il quale la
battaglia sembrerebbe perduta in
partenza. Emblematica – si diceva – la
posizione kantiana, e per svariati motivi:
non soltanto per quel suo stare
sul filo del rasoio tra razionalismo e
fede religiosa, ma anche per la coraggiosa
accettazione del limite insito
nella natura stessa dell’essere umano.
L’epoca moderna, che si era aperta
con l’umanistica esaltazione della
libertà e delle capacità dell’uomo e
che con l’illuminismo aveva celebrato
i trionfi della ragione e del progresso,
si conclude con la densa e drammatica
riflessione kantiana in merito
all’esistenza del male radicale che
conduce l’uomo ad autoingannarsi
circa le proprie intenzioni e quindi
alla slealtà verso se stesso e all’ipocrisia
e all’inganno verso gli altri; un male
radicale la cui presenza mette in
grave crisi qualunque edificio speculativo
e del quale, inoltre, resta incomprensibile
l’origine. Certo, l’epoca
moderna non ha sempre e soltanto
intonato un inno alla bontà e alla
grandezza dell’uomo: basti pensare, a
questo proposito, al pessimismo antropologico
di Martin Lutero che, sicuramente,
influenzò lo stesso Kant.
Ma non v’è dubbio che, dal Quattrocento
in poi, la verità del peccato originale
sembrò diventare via via sempre
meno compatibile con una visione
dell’uomo che si ritiene e si percepisce
padrone di sé, arbitro della propria
fortuna, capace di automigliorarsi
e di progredire incessantemente,
soprattutto in virtù delle sue capacità
razionali.
Seguendo questa linea interpretativa,
non meraviglia l’esito ateistico di
una parte considerevole della filosofia
moderna, un esito che, riconducendo
tutta la vita umana entro coordinate
mondane, reinterpreta in maniera
radicale il concetto stesso di peccato,
come ben testimoniano le seguenti
considerazioni di Ludwig Feuerbach,
il celebre filosofo materialista, implacabile
critico della religione e del cristianesimo
in particolare: “Il segreto
del peccato originale è il segreto del
piacere sessuale. Tutti gli uomini sono
concepiti nel peccato per il fatto che
sono stati concepiti con gioia e piacere
dei sensi, cioè naturalmente. L’atto
della generazione, in quanto ricco di
godimento, di godimento sensibile, è
un atto peccaminoso. Il peccato si riproduce
da Adamo fino a noi, solo per
il fatto che la riproduzione è l’atto generativo
naturale. E’ questo allora il
grande segreto del peccato originale
cristiano”. A questo punto, l’idea stessa
di peccato d’origine come viene tramandata
dalla chiesa cattolica è
scomparsa: non vi è più alcun riferimento
a Dio e alla libera disobbedienza
nei suoi confronti; tutto viene ricondotto
all’aldiquà, alla terra e alla natura,
alla dimensione materiale. Di
qui scaturisce pure un nuovo modo di
intendere il concetto e la necessità
della liberazione dell’uomo da ciò che
lo opprime. Non vi è più bisogno di un
liberatore divino e la politica prenderà
il posto della religione: sarà Karl
Marx a portare a pieno compimento
questa sostituzione. A suo giudizio, infatti,
il male non deriva certamente
dal peccato originale, bensì dall’ingiustizia
sociale: toccherà dunque alla
prassi rivoluzionaria affrancare l’umanità
dalla sua cattiveria e dalle sue
sofferenze, che – giova ripeterlo – secondo
il padre del comunismo non
provengono da un evento soprannaturale,
ma hanno un’origine umana e,
più precisamente, economico-sociale.
L’origine umana, troppo umana si vorrebbe
dire, riecheggiando il celebre
titolo di una sua opera, del peccato
originale viene ribadita da Friedrich
Nietzsche, sebbene secondo una prospettiva
assai diversa da quella
marxiana. A giudizio del filosofo dello
“Zarathustra”, sono proprio la religione
e la morale da essa derivante
l’autentico peccato originale: il compito
che dunque si prospetta è quello di
demolire, per quanto possibile, le cosiddette
verità religiose, autentica
causa di molti mali dell’uomo. Le
complesse dottrine nietzscheane del
“superuomo” e dell’ “eterno ritorno”
possono essere interpretate come l’indicazione
di due vie complementari
di liberazione dal male e dal dolore,
non tanto attraverso una loro impossibile
soppressione, quanto mediante
un’accettazione coraggiosa e vitale di
essi, rifiutando la fede e l’etica cristiana,
che rendono l’uomo sempre
più timoroso, sempre più remissivo,
sempre più schiavo. Di disponibilità a
sopportare il dolore si può parlare
anche a proposito di Dostoevskij, ma
facendo le dovute distinzioni, come
ricordano Giuseppe Riconda e Marco
Ravera: “Per Nietzsche l’accettazione
della sofferenza nell’abbraccio del
mondo dell’eterno ritorno è la redenzione,
per Dostoevskij l’accettazione
della sofferenza è il primo gradino di
una redenzione che si raggiunge solo
con la purificazione e l’espiazione, e
infine con la conversione, che mira a
togliere il peccato e le sue conseguenze;
per Nietzsche la redenzione è momento
ultimo di un’umanità che si autotrasfigura,
per Dostoevskij è il risultato
di un’azione divina cui l’uomo
può partecipare solo nel riconoscimento
umile della propria colpa: non
l’accettazione di un eterno ritorno del
bene e del male, del dolore e della
gioia, ma il trionfo del bene e della felicità
per grazia divina e per l’azione
del Cristo, per quanto incomprensibile
per noi possa essere come ciò avvenga”.
Qui sta la differenza decisiva: da
una parte, senza fare riferimento a
Dio l’origine del male resta completamente
sconosciuta, dall’altra, non facendo
affidamento sull’opera salvifica
di Gesù Cristo, si dilegua ogni speranza
di opporsi a esso e di vincerlo, perché
risulta evidente che uno sforzo
puramente umano in questa direzione
finisce sempre per rivelarsi una triste
illusione, figlia della superbia. Il pensiero
moderno di ispirazione cristiana,
e più specificamente cattolica, ha
costantemente insistito su questo punto,
proponendo concezioni che, nel rispetto
della rivelazione biblica e dei
dogmi della chiesa, hanno perseguito
un non facile equilibrio tra le esigenze
della ragione e della fede, della libertà
e della grazia, quell’equilibrio
che rimane sconosciuto sia ai pessimisti
che agli ottimisti che, come sosteneva
Blaise Pascal, non sanno attentamente
valutare la condizione paradossale
e contraddittoria dell’uomo. Scrive
l’autore dei “Pensieri”, facendo
parlare la Sapienza divina: “Io ho
creato l’uomo santo, innocente, perfetto;
io l’ho colmato di luce e di intelligenza;
gli ho comunicato la mia gloria
e le mie meraviglie… ma non ha potuto
sostenere tanta gloria senza cadere
nella presunzione. Ha voluto rendersi
centro di se stesso e indipendente dal
mio soccorso. Si è sottratto al mio dominio;
e uguagliandosi a me con il desiderio
di trovare la sua felicità in se
stesso, io l’ho abbandonato a se stesso”.
La negazione del peccato originale
rende del tutto incomprensibili le
vicende dell’umanità, come il misconoscimento
dell’intervento redentivo
di Gesù Cristo vanifica completamente
ogni speranza di salvezza.
Ne era profondamente convinto il
beato Antonio Rosmini che, nello
scritto “Il razionalismo teologico”, ebbe
ad affermare: “Ed ella è cosa pur
indubitata essere il dogma del peccato
fondamento di tutto il Cristianesimo.
Distrutto quel dogma è resa inutile
la redenzione di Gesù Cristo o certo
ella cessa di essere redenzione.
Quindi è tolta la cagion massima dell’Incarnazione
del Verbo. Per tali gradi
si perviene alla distruzione del Cristianesimo,
all’abolizione di tutto l’ordine
soprannaturale, allo stabilimento
del perfetto razionalismo”.
Il Foglio 5 dic. 2009