La magistratura piglia e cambia le leggi
approvate dal Parlamento, così, senza
battere ciglio. La legge 40 sulla procreazione
medicalmente assistita non ha retto ai
suoi ripetuti assalti, tant’è che oggi non si
sa più né che cosa rappresenti né che cosa
valga. Isabella Bossi Fedrigotti applaude,
al suo solito, tutte le volte che un pm fa
un altro buco nella pasta di quella legge
(che ha pure resistito alla grande a un referendum
abrogativo), mentre Eugenia
Roccella interviene cercando di riportare
chiarezza e misura. Inutilmente, mi viene
da dire, anche con un occhio al sondaggio
dello stesso Corriere, che premia con l’88
per cento dei consensi espressi dai lettori
la sentenza di Salerno con cui si autorizza
la procreazione medicalmente assistita
con tanto di diagnosi preimpianto per una
coppia fertile e con già un figlio sano, ma
che ne vuole un secondo – sano – senza
correre il rischio di una grave malformazione
genetica di cui la coppia è portatrice
(sana). Roba che se non è eugenetica
questa ci si chiede che cosa sia allora l’eugenetica.
In Italia, ma non solo in Italia, una mentalità
eugenetica è già nei fatti. La fabbrica
dei bambini perfetti, quale è diventata
nel tempo la tutela della maternità, scarta
senza pietà la possibilità stessa della nascita
di bambini con qualche malformazione,
anche lieve, se appena appena questa
malformazione è diagnosticabile in sede
prenatale. Poiché non v’è dubbio che l’area
della diagnosticabilità tenderà a
espandersi, è facile pronosticare il tempo,
non lontano, in cui sarà esclusa la possibilità
stessa della malformazione, dell’imperfezione
nella nascita, e dunque dei
bambini imperfetti.
Eugenia Roccella ha un bel dire che
non esiste il diritto a un figlio sano. A contraddirla
su questo punto è la stessa Costituzione
italiana. Che, a proposito di salute,
recita al primo comma dell’articolo 32:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale
diritto dell’individuo (…)”.
Non tanto e non soltanto, dunque, il diritto
alla cura come all’assistenza, a non
essere abbandonato quando forze e salute
ti abbandonano, quanto proprio il “fondamentale
diritto dell’individuo” alla salute,
il diritto di stare fisicamente e pure mentalmente
bene: questo è il diritto riconosciuto
e tutelato dalla nostra Costituzione.
Strano diritto, si ammetterà. A nessuno,
che non fosse un po’ squinternato, passerebbe
mai per la testa di poter considerare
quello all’intelligenza o alla bellezza o,
ancora, alla felicità un diritto. Eppure il
diritto alla salute è della stessa “stoffa”
del diritto all’intelligenza, alla bellezza, alla
felicità: tutte qualità che non possono
essere stabilite e assicurate attraverso alcuna
via legislativa o costituzionale, giacché
gli uomini, le società, gli stati, i governi
non hanno di questi poteri, non possono
assicurare ai singoli cittadini la bellezza o
l’intelligenza e men che meno la felicità.
Ma neppure la salute. Possono certamente
adoperarsi per far sì che certe qualità
siano presenti nelle più alte proporzioni
possibili nella popolazione, ma non c’è
modo di assicurarle a ciascuno, non c’è
modo di fare di queste qualità un diritto
dei cittadini, dei singoli individui.
Ma nessuno che abbia mai osato mettere
l’accento sulla totale incongruità di un
tale diritto così come della sua formulazione
costituzionale.
Anzi. E’ così ampio il diritto alla salute,
così assoluto che si potrà in tutta coscienza
abortire un feto se esso può essere messo
in forse dal caso che si annida nella riproduzione,
nell’unione dei patrimoni cromosomici
all’atto del concepimento. Se un
feto non gode pienamente del diritto alla
salute, quello stesso diritto ne giustifica altrettanto
pienamente la soppressione. Un
paradosso o non piuttosto la perfetta conseguenza
di un appunto paradossale diritto
alla salute? Non far venire alla luce un
bambino Down non è più, così, un atto di
liberazione verso se stessi, che riguarda
esclusivamente le donne, ed eventualmente
gli uomini, le coppie, che prendono una
tale decisione. E’ anche sentito come un
atto di liberazione nei confronti del feto, è
anche un liberare lui, e attraverso di lui il
neonato ch’egli sarebbe stato, e poi il bambino
che sarebbe diventato, dall’invivibilità
di una condizione che ha perso in partenza,
ancora prima di cominciare, il diritto
alla salute, che ha perso da subito la sua
partita con la salute. E’ anche un liberare
il feto che non vedrà la luce dal peso di
una vita che essendo carente delle stimmate
riconosciute del buon stato di salute,
della accertata e accettata normalità, sarebbe
stata in fondo una sorta di vita a
scartamento ridotto, una vita minore consumata
tra fatica e dolore. Non solo: evitare
che veda la luce un bambino con un difetto
congenito è perfino visto come un atto
di liberazione nei confronti della società,
che potrà così dedicarsi a mantenere
il diritto alla salute di quanti non ne
siano stati privati sin da prima di venire al
mondo. E’ a loro che vale la pena di sacrificare
tempo e risorse, perché sono loro
che hanno quella speranza – di più, quella
ragionevole certezza – di salute che non
può vantare chi alla vita ci arriva con
l’handicap di un difetto congenito. Eppoi
dicono che la prima parte della Costituzione,
quella dei principi generali, va bene
così com’è. Il “fondamentale diritto degli
individui” alla salute tutelato dalla Costituzione
sta alla base di tutti gli eccessi che
in suo nome quotidianamente vengono
compiuti e che semmai attentano ai diritti
dei cittadini, a cominciare da quelli di coloro
che debbono ancora completare il
tragitto dal concepimento alla nascita.
Roberto Volpi
Il Foglio 21 gennaio 2010