di Stefano Pistolini
Metti che il terremoto dietro l’angolo,
dopo averti allibito, diventi
occasione di riscatto. Haiti è Katrina,
moltiplicato per mille. Per l’America
è nel giardino di casa. Di caraibici gli
Stati Uniti traboccano. Dunque, neppure
per un momento, la Casa Bianca
pensi di trattare la questione come
una semplice emergenza di politica
estera. Questi territori sono brandelli
di americanizzazione tralasciata, ma
l’orbita di contatto è troppo ristretta
perché Washington ponga la tragedia
più di un gradino sotto che se fosse andata
in scena a Los Angeles. Già i tempi
di reazione sono stati intorpiditi e
le parole di circostanza spese. Ma
Obama badi a come agisce in questo
frangente, perché il mondo lo osserverà,
considerando un’imperdonabile
ingiuria qualsiasi lassismo e approssimazione,
mentre la polvere si accumulerà
sul suo premio Nobel. Bush è
stato giustamente crocifisso sul fiasco
di Katrina, errore la cui macchia non
si cancella. Con tutto ciò che ha detto,
descritto e pensato d’incarnare, questa
sciagura è il rendiconto per il
44esimo presidente. Cinico qui, cinico
per sempre. Se l’America di questi
mesi assapora un’umiliazione collettiva
attraverso l’impervio cammino di
riemersione dalla crisi economica, ecco
che un evento a largo della costa
sudorientale le mostra che qualsiasi
disastro è sempre una prova della vera
Apocalisse. Che non esistono gradi
di separazione dal male e dal dolore,
che è tutto o niente, verità o finzione,
o si è davvero gli invincibili guardiani
del bene e della civiltà o non si è niente
di tutto questo, perché il part-time
non è dato. Obama decida se fare di
Haiti l’“issue” tragicamente a sorpresa
del suo 2010, trasformando la salvezza
dell’isola in una vera priorità
americana. Tra quelli che credono, tra
quelli del Vecchio Testamento, devono
essere in tanti a pensare che questo
terremoto d’allucinante simbologia
sia un tic del mignolo di Dio, mossosi
per solleticare la nazione che
spesso lo invoca e per capire se si tratti
ancora della promettente frontiera
interiore nella quale venne coinvolto,
oppure ormai sia solo un altro deserto
perduto, disseminato di spiriti,
neon e postriboli del peccato.
* * *
Dopo averle inventate, adesso in
America le playmate le ammazzano.
E’ capitato due volte negli ultimi mesi,
in circostanze simili, come se la
probabilità di fare una fine del genere
sia proporzionata alla circonferenza
texana delle tette di queste ragazze.
In agosto è toccato alla ventottenne
Jasmine Fiore (vero cognome: Lepore.
Ascendenze italiane), strangolata, mutilata
e rinchiusa in una valigia dal fidanzato
Ryan Jenkins, il cui mestiere
ha una definizione sensazionale, da
collocare al centro di questo viaggio
nella nuova barbarie americana:
“concorrente nei reality show”. Per riconoscere
il cadavere, gli inquirenti
sono ricorsi al numero di serie delle
protesi del seno di Jasmine. Ryan, 32
anni, l’ha fatta finita una settimana
più tardi, a migliaia di chilometri di
distanza (già: il grande paese), impiccandosi
in un motel della British Columbia,
Canada. I due s’erano conosciuti
a Las Vegas. Lui aveva appena
partecipato a un reality di bassa lega
(titolo: “Megan è in cerca di un miliardario”,
tutto un programma, no? quattrini
e rimorchi. Gli autori devono esserne
stati fierissimi). S’erano sposati
sullo Strip, e avevano cominciato subito
a litigare. Lei era una professionista
delle chat line e delle pubblicità
osè di costumi da bagno e aveva tanti
vecchi amichetti a cui non rinunciava
(o loro non dimenticavano le forme
manga di Jasmine). Lui era geloso
marcio. La fine è andata in scena a
Del Mar, vicino San Diego, con notevole
eccitazione dei media locali e
molti servizi su quelli nazionali, fino
al ritrovamento di Jenkins suicida.
La faccia di Jasmine Fiore non si
dimentica, se capita di vederne una foto.
Paula Sladewski invece era più bella
ma più banale, omologata al pacchiano
canone estetico di “Playboy”.
La statuaria Paula ha 26 anni, quando,
qualche giorno fa, il suo corpo finisce
arso in un cassone dell’immondizia a
Miami, dopo che una telecamera di
controllo l’ha ripresa mentre usciva
da un club, alle sette del mattino. Il fidanzato
era stato con lei fino a poco
prima, avevano bevuto, fatto baldoria,
come fanno sempre le playmate prima
di farsi massacrare, e infine avevano
litigato, perché mica dev’essere facile
uscire con una ragazza così, con tutti
gli sguardi bavosi che le si appiccicano
addosso. Paula e il suo tipo erano a
Miami per un Capodanno la cui attrazione
era il concerto di Lady Gaga, ultima
diva pop d’oltreoceano, quella
senza faccia e senza look, dal momento
che ogni volta che appare ne ha di
diversi – traduzione trash di Pirandello.
Per spegnere il cadavere di Paula
che bruciava hanno dovuto chiamare i
pompieri. Pochi minuti dopo gli investigatori
dicevano in tv d’essere pronti
a tutto per rinchiudere le belve che
avevano ridotto così quella ragazza.
Anche in questo eccesso di zelo c’era
un erotismo d’accatto, tra cameramen
che vomitavano per il puzzo insopportabile
(immortalati su “YouTube”) e
fotografi a caccia dello scatto da National
Enquirer, il rotocalco che sulle
foto delle salme ha costruito un impero,
in vendita alle pompe di benzina.
Kelly, sorella di Paula, in un talk show
ha rivelato d’essere distrutta dal non
poter garantire a quel gran pezzo di figliola
il funerale a bara aperta, indispensabile
per rendere giustizia alle
sue forme sensazionali. Il voyeurismo
galoppa, mentre per un weekend la
storia viene spolpata in tv da bellimbusti
sospiranti e conduttrici con faccia
di circostanza e acconciatura poligonale.
D’altronde non si è trovato di
meglio da servire al pubblico chiuso
in casa, infreddolito dal peggiore inverno
che si ricordi, talmente gelato
che Al Gore si becca uno sberleffo al
giorno dal meteo di Fox News. Ergo,
benvenuti nell’inferno mentale americano.
Potrebbe non esserci più espiazione
che tenga, dal momento che
troppe colpe sono state consumate e
in fretta si stanno cancellando le tracce
del cammino per la salvezza. Bisogna
far presto.
* * *
Gli americani adorano i doppi finali.
Quelli dove, quando si è sull’orlo
del precipizio, arrivano il pentimento
e la redenzione. Hollywood, no?
I democratici lo sanno che quello
che sta arrivando è un brutto anno.
Quanto brutto? E’ da vedere. Brutto,
difficile, rognoso. Una resa dei conti.
Pronti? Attrezzati? Si direbbe di no.
Non c’è stato nemmeno il tempo di
smaltire l’euforia del 2008.
Per consolarsi si guarda dall’altra
parte dello steccato, in casa repubblicana.
Tanta agitazione, gente che urla.
Progetti seri? Nuovi leader? Volontà
unitaria? Niente di tutto ciò. Allora
forse i democratici possono sospirare
di sollievo? No, davvero no. Semplicemente
hanno guardato nel posto sbagliato,
in una direzione che inganna.
Eppure le indicazioni sono chiare, i
media non fanno che strillarglielo in
faccia. A che serve fingere d’avere un
solo legittimo avversario, se i tempi
sono cambiati? I repubblicani riusciranno
a darsi rapidamente una presentabilità
e un programma coerente?
Probabilmente no, ma non è questo
l’interrogativo che tormenta gli americani
che continuano a credere nelle
urne elettorali. Nell’ultimo anno il
gioco repubblicano è stato, con alcuni
sussulti schizofrenici, quello dell’ostruzionismo,
del “no”. Alla fine ci si
è convinti che, in fondo, semplicemente
“no” fosse quello che la maggioranza
degli americani aveva da dire
alle proposte di Obama.
Non che sia stata una strategia del
tutto insulsa: le mosse della Casa
Bianca hanno provocato una naturale
aggregazione degli americani a destra,
attraverso un procedimento segmentato
sulle tante questioni in ballo, e su
cui s’ingrossavano le file del dissenso:
Iraq, sanità, sicurezza, aborto e, prima
di tutto, la gestione della crisi. Però
può seriamente bastare una tattica
del “no” quando arriva il momento
dei faccia a faccia elettorali? Non è
per niente sicuro, visto che le personalità
disponibili non sono elettrizzanti
dal punto di vista dialettico e
che i democratici lotteranno all’ultimo
sangue, prima di mollare l’osso.
Perciò il Partito repubblicano dovrebbe
prepararsi con più sagacia ad
approfittare di un’occasione che arriva
prima del previsto. Pronti a tentare?
Coloro che potrebbero dirsi pronti
non sono organici al partito. Anzi,
nonostante ne condividano l’assunto
sulle grandi questioni, ritengono oggi
un peso agire sotto le sue insegne. Si
profila una crisi irreversibile del bipolarismo
d’oltreoceano? Non sarà indolore
tornare ai limpidi fronteggiamenti
di punti di vista. Servirà una purificazione,
una guida che si faccia interprete
del rinnovamento. Vedete un
Reagan all’orizzonte? Di nuovo, no. Le
sagome che si agitano non lavorano
per la causa unitaria di un partito, ma
in favore di qualcosa di più impalpabile
e più omerico al tempo stesso: per
(se stessi e per) l’America, per come si
pensava essa fosse, per come andrebbe
ricostruita. Un’illusione? Il pensiero
scientifico dice di sì. Ma la passionalità
americana non smette di pensare
che quello sia il luogo dove ogni
traguardo è possibile, compreso il
reintegro nel Paradiso Terrestre. Un
doppio finale, appunto. Se solo ci fosse
qualcuno capace di segnare la strada.
Se solo non fosse un’esperienza
mediocre, partecipare a questa possibile
epopea solo da uno schermo televisivo,
tra raffiche di spot. C’è una distonia,
inutile negarlo. L’errore è stato
commesso e poi si è perseverato.
L’inversione a U è miracolismo. Ma altrimenti
bisognerebbe chiudere bottega.
Sopravvivere di ricordi mentre
la fine si avvicina con l’incedere del
secolo. Ci dev’essere una soluzione. E
dev’essere una soluzione umana ed
empirica. La forza degli uomini. Non
ebbero forza soprannaturale quelli
del We the People del 1787? Non era
contro tutte le probabilità? Il funerale
può aspettare. Coltiviamo positività.
Non corriamo. Lucidamente. La cartuccia
con sopra il nome di Barack
Obama, il primo degli uomini della
provvidenza, è stata sparata. Una percentuale
fastidiosamente crescente
d’incontentabili americani, sostiene
ormai che il colpo fosse a salve.
* * *
Conservatorismo compassionevole.
Significava, nell’accezione di Karl Rove,
che era giusto fidarsi della migliore
borghesia americana, quella fiorita
sullo sbocciare del capitalismo americano.
Che era giusto lasciar fare a
quella middle class responsabile e
misurata, attenta al tornaconto, ma
sensibile al suo ruolo sociale: ci
avrebbero pensato i migliori americani
al comando a condividere a sufficienza,
allontanando la sofferenza
dallo spirito nazionale. Vera americanità,
distribuita con munificenza e opportunamente
propagandata.
Chi si ricorda di George W. Bush
quando presentò quel “conservatorismo
compassionevole” così gravido
d’impegno? Certo, dietro c’erano scenari
diversi, c’era il liberismo al galoppo,
c’era il ridimensionamento dello
statalismo clintoniano, c’era una
strizzata d’occhio a una borghesia
rombante, mica dimessa come adesso.
Conta parlarne oggi? Quello era prima
dell’11 settembre 2001, era il frammento
del secolo scorso che sconfinava
nel terzo millennio, senza sapere
cosa l’aspettasse in quella tersa mattinata
newyorkese. Adesso abitiamo un
tempo diverso, fatto anche della stanchezza
nei confronti delle lungaggini
del politicamente corretto. Dopo il lutto,
dopo la guerra, dopo la paura, c’è
voglia di dire pane al pane, d’avere a
che fare con cifre tonde, con certezze
e non promesse, moneta sonante, non
cambiali. Una cosa è rimasta la stessa:
due americani su tre – lo certifica Gallup
– si riconoscono nella definizione
“conservatore”. La stessa percentuale
rilevata in coincidenza con l’attacco
alle Torri.
Ci fu un gesto, nell’avvento del
“conservatorismo compassionevole”
di George W. che mi piacque, perché
mi sembrò di vederci uno slancio sincero,
una convinzione diretta, la stessa
che sovente mancava alle pubbliche
mosse di quel presidente. Fu l’annuncio
del programma “No Child Left
Behind”, a cui aveva contribuito con
entusiasmo perfino un suo acerrimo
nemico come Ted Kennedy. Si era all’inizio
della fatale estate del 2001,
quando Bush, fresco di Casa Bianca,
mise al sicuro questo sistema di provvedimenti
e finanziamenti che sintetizzava
il concetto di conservatorismo
compassionevole, non nella machiavellica
accezione di Rove, ma nella
lettura “ranchera” che le attribuiva
quel presidente dal bizzarro pedigree.
Si legiferava in favore del sogno americano,
per quanto la definizione fosse
generica. Si agiva a pettine nella retroguardia
nazionale per far sì che gli
ultimi ritrovassero incentivi per gareggiare
dignitosamente. Si pensava
ai piccoli. Si agiva nel nome dell’uguaglianza.
E Bush, per la sua formazione
culturale, per la terra da cui
proveniva, per la cultura di cui era
prodotto, ci credeva, con commozione.
Negli stessi mesi in cui s’arroventava
la polemica sul meccanismo educativo
e la sua produzione di burnout, fregati
da problematiche comportamentali
e familiari, ma condannati da uno
spietato sistema scolastico, la Casa
Bianca marciava nella direzione opposta.
L’America apprezzò. C’era una
sensazione di rigenerazione di principi
originali, mortificati da una sottovalutazione
alla quale si poneva rimedio.
Mettendo regole e quattrini in favore
della compassione. Nel 2009, a
più riprese, il sensazionale presidente
Obama, appena insediato in contingenze
obiettivamente più difficili, ha
provato a rilanciare qualcosa che, nel
campo dell’educazione, aggiornasse
quel progetto malconcio e l’adeguasse
alle nuove esigenze (per esempio etniche).
Le reazioni sono state tiepide.
L’idea in circolo è “accontentiamoci
di quel che c’è. Anzi: i meno fortunati
si accontentino, perché le urgenze sono
altre. Qui si tratta di salvare la pelle
al sistema, altro che equiparazione
delle opportunità educative”. Il noioso
dibattito sugli standard educativi
per il XXI secolo è rimandato a data
da destinarsi. Ma questi non sono adeguamenti
indolori, per un sistema evolutivo
come ha voluto essere quello
americano. Questi errori si pagano.
Basta visitare una scuola normale del
paese, non Yale ma un liceo di periferia,
per capire che l’errore è in corso.
I figli sono lasciati indietro, nella graduatoria
delle cose da fare. “Tutti
hanno derivato benefici dagli antenati”,
scrisse l’educatore ottocentesco
Horace Mann, descrivendo l’esperienza
americana per come si configurava
in quel ribollente momento. Tanto era
già successo, e praticamente doveva
ancora succedere tutto. Ma allora gli
indicatori erano fantastici e le prospettive
illimitate. (1. continua)
Il Foglio 19 gennaio 2010