di Paolo Rodari
Il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani con delega ai rapporti con gli ebrei, ha suggellato la lunga presenza in Vaticano (quasi undici anni) affiancando Benedetto XVI nella visita di domenica scorsa alla sinagoga di Roma.
Erano seduti uno a fianco all’altro e la stessa scena si ripeterà lunedì prossimo nella basilica di San Giovanni in Laterano quando il Papa chiuderà la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Se l’apparizione in pubblico di Kasper sia una delle ultime da guida del dialogo ecumenico vaticano è difficile dirlo. Anche se non è un mistero che la sua lunga stagione romana, visti i raggiunti limiti di età (a marzo Kasper compie 77 anni), è vicina al termine. Tanto che già sono definite le ipotesi di successione: o il tedesco vescovo di Ratisbona, Gerhard Ludwig Müller – oggi favorito –, oppure, in alternativa, l’italiano Bruno Forte, vescovo di Chieti-Vasto.
La presenza domenica in sinagoga di Kasper accanto a Ratzinger evoca tante cose. Anzitutto il motivo profondo per il quale nel 2001 Karol Wojtyla gli affidò le chiavi del Pontificio consiglio del quale già da due anni era segretario: Kasper è figura che più di altre rassicura il mondo cristiano e insieme giudaico.
Scrive infatti Daniel Deckers, redattore della Frankfurter Allgemeine Zeitung e biografo prima del cardinale Karl Lehmann e, più recentemente con la pubblicazione di “Wo das Herz des Glaubens schlägt. Die Erfarhung eines Lebens” – del cardinale Kasper, che la chiamata del teologo tedesco a Roma, “assai apprezzato nell’ambito dell’ecumene”, ha costituito “un segnale tanto per gli avversari che per i sostenitori di ambedue le parti: Roma intende restare fedele al progetto di comprensione e di avvicinamento, sulla via del dialogo teologico”.
Kasper era tutto questo: era il giovane docente di Teologia dogmatica a Monaco che nel ’67 fu accolto nella commissione internazionale per il dialogo luterano-cattolico e, successivamente, fu immortalato mentre abbracciava Ismael Noko, segretario della federazione luterana mondiale. Insieme, era il teologo della Germania post conciliare, quella che nella chiesa cattolica più spingeva per aperture non solo verso i cristiani separati ma anche verso il giudaismo. “Nessuno meglio di un tedesco riusciva a incarnare le spinte ecumeniche fondamentali per la chiesa post conciliare”, ha infatti spiegato al Foglio un porporato di curia. “Dopo la stagione dell’olandese Johannes Willebrands e dell’australiano Edward Idris Cassidy, da più parti si fece presente a Wojtyla che l’ecumenismo necessitava di un tedesco”.
Non sempre i rapporti tra Ratzinger e Kasper sono stati buoni.
L’ha detto nel 2008 lo stesso Ratzinger quando fece a Kasper gli auguri per i 75 anni: “Non sempre siamo stati della medesima opinione ma ci siamo sempre saputi insieme nel cammino al servizio di Cristo e della chiesa”.
La divergenza di opinione è anche relativa al concetto di ecumenismo: più improntato alla necessità che le varie chiese si riconoscano unite “cum e sub Petro” quello di Ratzinger, più propenso a far sì che le chiese dialoghino pur senza riconoscersi legate a Roma quello di Kasper.
Ma nonostante ciò una cosa è certa: alla curia romana mancherà l’intelligenza di Kasper, teologo figlio del grande rinnovamento promosso fin dalla prima metà del secolo XIX nella gloriosa facoltà teologica di Tubinga, quella dove si voleva fare teologia “nel fluire aperto del tempo”.
© Copyright Il Foglio, 21 gennaio 2010