DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il cattivo Risorgimento

di Marco Respinti
Tratto da cronache di Liberal del 17 marzo 2010

Viviamo in un Paese ben strano. Se domandate a bruciapelo a chicchessia la data dell'unificazione politica dell'Italia nessuno vi saprà rispondere.

Se chiedete la data esatta della nascita della repubblica idem, persino fra chi si spella inutilmente le mani per applaudire quel Venticinque Aprile che semmai lo dobbiamo più agli Alleati che ai partigiani comunisti. Fra un anno esatto, il 17 marzo 2011, cadranno i centocinquant'anni tondi della proclamazione del Regno d'Italia (eccola qua la "fantomatica"data), assisteremo al culmine delle celebrazioni del Risorgimento nazionale, ma continueremo a vivere in un Paese che non sa chi è, che non sa perché è, che non sa come è. Il "mistero Italia" invera infatti alla perfezione quell'«epoca del divieto di fare domande» che lo scienziato tedesco- americano della politica Eric Voegelin (1901-1985) ha combattuto per una vita intera. Tutto si può discutere in questa Italia qua, tutto si può denigrare, mettere alla berlina, ribaltare come un calzino, demolire con la falce e magari pure con il martello, ma una e una sola cosa non si può fare: non ci si può interrogare su come l'Italia, in cui tutti orgogliosamente ci riconosciamo, ci mancherebbe altro, è stata ed è fatta. Da noi vige insomma un unico "principio non negoziabile", e questo è il processo di unificazione politica che ha fatto l'Italia quella che ancora essa è. Va cantato, celebrato, festeggiato, ma mai investigato. Domandare è verboten, chiedere è tabù, sapere è eresia. Chi osa anche solo proporre un supplemento oggettivo d'indagine e di comunicazione viene immediatamente considerato uno sfascita e un brigante, un reazionario e un clerico-fascista (chissà poi perché), oppure un secessionista, un nostalgico del tempo che fu, uno che vuole riportare indietro le lancette dell'orologio, magari un ingrato esterofilo che denigra la propria patria a cuor leggero. E invece è esattamente l'amore di patria, unito ovviamente alla carità di patria, che dovrebbe ispirare in ogni italiano, cominciando dal ceto politico, dalle istituzioni e dall'accademia, un sano ripensamento di ciò che sta alle nostre spalle d'italiani e di cui tutti siamo figli, una corretta discussione pubblica, una giusta revisione che inizi per davvero a sanare ferite che invece sanguinano sempre anche se fingiamo di non vederle. In Italia la riconciliazione nazionale deve cominciare insomma da ben lontano, e dev'essere sul serio sostanziale.

Unità d'Italia sì, cioè, ma Risorgimento no. L'unità è infatti cosa assodata, compiuta, appunto un secolo e mezzo fa, non se ne può fare a meno, non se ne può più fare a meno. Anzi, non vogliamo nemmeno farne a meno. Ch'immaginasse di mandare tutto a gambe all'aria adesso, come se nulla fosse e fosse stato, compirebbe un gesto temerario, sovversivo e giacobino esattamente speculare a quello compiuto allora, quando l'Italia venne artificialmente messa politicamente assieme sulla pelle dei popoli che l'abitavano e solo con l'arroganza sanguinaria delle armi. L'unità nazionale c'è, ce la teniamo, e anche volentieri. La nostra bandiera significa qualcosa, anzi molto, e tutte le volte che la vediamo avvolta, muta, solenne, attorno alla bara di un milite italiano che ha dato la vita per tutti noi italiani, ogni volta che la vediamo sventolare in sedi internazionali, ogni volta che la vediamo (per la verità poco) rappresentata nei luoghi pubblici, le siamo grati, dobbiamo esserle grati, e poi la dobbiamo e vogliamo onorare, salutare, magari anche pregare, pensando a quanto essa significa e rappresenta: una storia, persino ben più antica, nobile e profonda del Risorgimento, quindi il nostro suolo, la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra letteratura, persino tutte le nostre piccole grandi storie personali, le storie di noi tutti italiani come singoli e come famiglie e come comunità, noi italiani che assieme costruiamo quotidianamente la comunità nazionale, eppoi il senso che per ognuno hanno i nostri genitori, i nostri figli, le nostre case, le nostre occupazioni-vocazioniprofessioni.

Il Risorgimento però no, è tutt'altra cosa. A partire dal nome, il Risorgimento ci è sospetto. L'epiteto con cui il processo di unificazione politica nazionale è infatti universalmente conosciuto, appunto Risorgimento, rivela una intenzione, e ben polemica. Vuol convincere propagandisticamente il mondo che lì, quel giorno lì, in quel modo lì, qualcosa di glorioso finalmente risorgeva dopo essere stato morto e sepolto da tempo in tempi oscurantisti, esattamente come quel Rinascimento, altrettanto intenzionale nel nome e propagandistico nell'animo, che ha voluto imporre l'idea che lì, quel giorno lì, in quel modo lì, qualcosa di meraviglioso finalmente rinasceva dopo essere stato defunto e sotterrato in secoli bui. Non è un caso che Antonio Gramsci (1891-1937), l'astuto stratega della conquista del cuore culturale del nostro Paese da parte comunista, riservasse a quelle due stagioni storiche nazionali amorevoli attenzioni e cure specifiche. La ricerca scientifica ha invece sbugiardato questo modo "da vincitori" di scrivere la storia patria ormai da decenni, ma le nostre menti pigre tardano a registrare l'evento, preferiscono viaggiare di conserva, continuano a recitare una parte falsa e insulsa.

Il 150° anniversario dell'unificazione politica dell'Italia sarebbe allora una occasione bellissima per mostrare di essere divenuti sul serio adulti, di non avere davvero paura delle proprie ombre vuotando finalmente il sacco e pure gli armadi di ogni scheletro, e il giorno dopo, compiuta una impresa da uomini veri, voltare decisamente pagina una volta per tutte. Fintantoché si continuerà invece a nascondere e a nascondersi dietro un dito, a mentire e a inventare, a respingere e a reprimere ogni richiesta di verità questo Paese non spiccherà mai definitivamente il volo. Nel 150° anniversario del Risorgimento, infatti, sarebbe opportuno raccontare almeno ai giovani la storia per intero. Raccontare per esempio che il processo di unificazione politica della nazione italiana affonda le proprie origini in quel sanguinoso triennio giacobino (1796-1799) che consistette nell'imposizione manu militari del rivoluzionarismo sovversivo d'Oltralpe alla nostra Penisola, la quale dall'Alpi alle Piramidi, rispose però patriotticamente a schioppettate. Che il nostro Tricolore, di cui nessuno, interrogato a bruciapelo, sa dire qual è la tinta che deve stare vicino all'asta, è la bandiera della Repubblica Cisalpina, collaborazionista dei boia francesi e quindi straniera. Che la prima Repubblica Italiana fu figlia proprio della Cisalpina e che venne proclamata il 26 gennaio 1802 all'estero, mica in Italia. Successe a Lione, in Francia, e la capitale stabilita a Milano fu solo del classico panem et circenses, e il presidente, autoeletto, fu uno straniero, francese, quel Napoleone Bonaparte (1769- 1821) che già a lungo e ripetutamente aveva martoriato la Penisola e gl'italiani. E che questa repubblica burletta ridiventò regno "italiano" fantoccio sempre in mano francese il 26 maggio 1805, do po che il solito Napoleone ebbe trasformato la Francia e gli annessi domini rivoluzionari in impero e se stesso in "imperatore dei francesi", il 2 dicembre 1804, nonché prima imposto ovunque, il 21 marzo, il Codice civile che portava pure quello il suo nome, quadratura istituzionale del cerchio del giacobinismo. Successe a Milano, che era territorio napoleonico, quando Bonaparte si autoincoronò una ennesima volta.

Raccontare per esempio che gli Stati italiani preunitari non erano affatto quell'antro fetido della bestia trionfante, l'alleanza fra Trono e Altare, descritto ideologicamente da un altro francese, erede del pensiero giacobino, Edgar Quinet (1803-1875), ma Stati legittimi, sovrani, antichi e retti da dinastie italiane anche con il consenso dei propri governati, il quale non è detto (soprattutto non era detto allora, in tutto il mondo, e così per secoli) che debba sempre e solo esprimersi attraverso il one man one vote, tra l'altro perché il Risorgimento nazionale in Italia non portò affatto il suffragio universale, ma quello di una minoranza assai esigua e il "qualificata" risparmiamocelo. Torti, quegli Stati italiani preunitari, ne avevano e pure di grandi, come sempre accade nella storia delle umane cose, ma nessuno di quei torti fu modificato o criticato dal Risorgimento. Anzi, gli Stati italiani preunitari furono colpiti dai risorgimentali per ciò che di buono eventualmente facevano, non per ciò che di sbagliato operavano: mai per il loro paternalismo, cioè, mai per certo loro statalismo, mai per certo loro laicismo, mai per certo loro giurisdizionalismo (il ficcare, cioè, il naso statale-statalista in sfere del vivere associato degli uomini che non competono affatto allo Stato, per esempio gli affari ecclesiastici, con l'alleanza tra l'altro di certi ecclesiastici analogamente "statalisti" e clericali, o gli affari educativi, o caritativi, o sociali). Raccontare che lo Stato pontificio non era affatto un inferno terrestre così come caricaturizzato in pamphlet di occasione e in certa cattiva letteratura di fantasia e propaganda, e che anzi vi vigeva una giustizia sociale e di tribunale ben migliore di molte altre. E che là dove lo Stato pontificio peccava era semmai nell'imitare troppo gli assolutismi laici che la Rivoluzione, da quella Francese a quella Italiana, non smantellarono mai e semmai esacerbarono all'ennesima potenza, come hanno scritto e dimostrato una lunga serie di storici e commentatori che vanno da Alexis de Tocqueville (1805-1859) fino a François Furet (1927-1997), passando per Lord Acton (1834-1902), avversario del potere temporale dei Papi ma pure del rivoluzionarismo del conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861).

Raccontare che nel Lombardo-Veneto austriaco, l'unica regione d'Italia dove la dinastia reggente non era italiana, i lombardi e i veneti erano in gran parte austriacanti, e che molti di quelli che tra loro (non una maggioranza enorme, comunque) presero poi le armi contro l'Aquila Bicipite non erano rivoluzionari nel cuore e nella mente, e magari erano invece buoni cattolici, epperò indispettiti da quel giurisdizionalismo (sempre complici certi ecclesiastici) di cui sopra che, sempre come sopra, il Risorgimento non eliminò affatto, ma compì, anzi esagerò. Nel Lombardo-Veneto asburgico si parlava lecitamente l'italiano anche nell'amministrazione pubblica, gremita d'italiani, e Milano godeva status di città quasi capitale con libertà concrete che gli antichi Statifantoccio napoleonici non si sognarono mai. Raccontare che nel Sud, ah!.. il Sud d'Italia: quante ne patì per mano risorgimentale. I Borboni laggiù regnanti non erano spagnoli da un lungo pezzo, parlavano la lingua napoletana, erano italiani più di certi alto-piemontesi che parlavano meglio e più volentieri il francese, e che magari erano pure valdesi invece che cattolici come al Sud e in tutta Italia. Raccontare che il Risorgimento è stata la conquista militare del nostro Sud italiano, costata migliaia e migliaia di morti innocenti, 10mila fucilati e più, un Sud oggetto di una repressione militare e poliziesca inaudita, consumata su popolazioni interamente italiane, seguita dall'apertura di veri e propri campi di concentramento, dalla spoliazione anche economica di Paesi interi, dall'impoverimento di una nazione enorme, ricca, avanzatissima, assai moderna sul piano tecnico e con pochi rivali nell'Europa intera, e dalla costrizione all'emigrazione a frotte di povere genti impoverite, nonché dalla creazione colpevole di una mentalità antinazionale in cui ha poi avuto buon gioco inserirsi quell'anti-Stato che è la criminalità organizzata.

E raccontare che la Chiesa è stata derubata di palazzi, ori e tesori, che non sono certo stati elargiti magnanimamente ai poveri, come una certa bolsa retorica da carità pelosa vorrebbe, ma che sono stati incamerati dallo Stato unitario che ancora li usa e li occupa. Raccontare insomma perché l'Italia non è capace ancora oggi di avere un suo Quattordici Luglio in cui riconoscersi coralmente o, meglio, un suo Quattro Luglio: raccontare l'origine vera del mito incapacitante che ha creato una nazione contro il suo stesso popolo. Molti di noi queste cose le sanno, anche se tanti fan finta di nulla. Le nuove generazioni, invece, meritano chiarificazioni, di modo che non s'ingenerino mai equivoci perniciosi e corto-circuiti dannosi. Se l'anno di celebrazioni risorgimentali che abbiamo davanti sarà capace d'iniziare a costruire una memoria condivisa, di ricordare i torti accanto ai benefici, i morti innocenti a fianco dei sopravvissuti di ambo le parti, se l'anno di celebrazioni risorgimentali che abbiamo davanti sarà capace di fare una cosa così, a cominciare dalle istituzioni nazionali, l'Italia avrà finalmente cominciato a uscire da quello stato di minorità autoimposta che la rende schiava sempre di se stessa. È la verità, insomma, che l'Italia, questa Italia deve agl'italiani; perché la verità rende liberi sempre, e magari in questa occasione renderà anche liberali.