DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

IL CURATO FALLIMENTARE. I santi parroci esistono ancora vanno in pellegrinaggio ad Ars Le risposte sociologiche alla crisi stanno facendo un deserto

di Alessandro Gnocchi
e Mario Palmaro

Grazie a Dio, ci sono ancora parroci
che, quando li si cerca, si trovano
in chiesa, magari in ginocchio
davanti al Santissimo oppure a confessare.
Sono quei parroci che celebrano
la Messa con devozione, consci
di offrire sull’altare, a soddisfazione
del Padre e per il bene dei fedeli, il
sacrificio del Figlio. Sono quei parroci
consapevoli del fatto che anche
il più indegno dei sacerdoti può compiere
ciò che nemmeno centomila
battezzati integerrimi possono fare:
perdonare un peccato mortale e trasformare
il pane e il vino nel corpo e
nel sangue di Cristo. Sono quei parroci
che, durante l’Anno sacerdotale
voluto da Papa Benedetto XVI, non li
si è visti per qualche giorno tra canonica,
sacrestia e chiesa perché sono
andati in pellegrinaggio ad Ars, dipartimento
dell’Ain, Francia, 45° e
58’ di latitudine nord, 4° e 49’ di longitudine
est e hanno fatto delle coordinate
del villaggio a suo tempo affidato
al Santo Curato la croce che segna
il cuore del loro sacerdozio.
Ma quanti sono? Il parroco moderno,
di solito, si presenta sotto altre
spoglie. E’ iperattivo e impegnato altrove.
In tipografia per il bollettino
parrocchiale, sul cantiere del nuovo
oratorio, a controllare le attività della
Caritas, a discutere con l’assessore
ai Servizi sociali, a passare le carte
dell’ennesimo piano pastorale
partorito dall’ennesimo ufficio diocesano,
a barcamenarsi nelle discussioni
del consiglio pastorale. Altrove.
Non di rado una vittima del sistema,
spesso è anche un onest’uomo. Ma
noi fedeli non possiamo accontentarci
di parroci che siano solo onest’uomini.
L’abate Giovanni Battista Chautard
in un aureo libretto intitolato
“L’anima di ogni apostolato” diceva
impietosamente: “A sacerdote santo,
si dice, corrisponde un popolo fervente;
a sacerdote fervente un popolo
pio; a sacerdote pio un popolo
onesto; a sacerdote onesto un popolo
empio”. Anche i più inguaribili ottimisti
devono riconoscere che la crisi
pluridecennale in cui si dibatte il
cattolicesimo è essenzialmente una
crisi del sacerdozio e dei sacerdoti.
Un dramma in tre atti.
Il primo, andato in scena negli anni
successivi al Concilio, è stato accompagnato
da clamorosi fenomeni
di contestazione e da una imponente
emorragia di preti che hanno abbandonato
la tonaca. Nel secondo, gli abbandoni
sono diminuiti e i fenomeni
di dissenso sono andati scemando,
lasciando il posto a una diffusa visione
burocratica del ruolo del sacerdote,
fedele esecutore della linea dettata
dal vescovo e insensibile, quando
non addirittura refrattario, alla volontà
del Papa. Si è così affermata
una figura di parroco conservatore
nella sua fedeltà incrollabile alla
teologia moderna e allo “spirito del
Concilio”, ma, proprio per questo,
progressista nella sua aperta dissonanza
dal magistero e dalla tradizione.
Il terzo atto è appena cominciato
ed è caratterizzato dall’inesorabile
declino numerico dei sacerdoti nella
vecchia Europa, cui corrisponde un
tremendo “che fare?”.
Molti sostengono che la mancanza
di vocazioni sia un fatto che deve essere
accettato senza tentare alcuna
contromisura. Anzi, dicono, siccome
è Dio che manda operai nella vigna,
è Lui stesso che decide di rallentare
o addirittura estinguere il flusso delle
vocazioni. Ragion per cui saremmo
di fronte a uno di quei famosi
“segni dei tempi” che esigono di
“pensare” una chiesa diversa da
quella che abbiamo fin qui conosciuto.
Tradotto in parole più semplici,
bisogna prepararsi a una chiesa senza
sacerdoti. Ma chi nella storia aveva
pensato a costruire una chiesa
senza preti? Martin Lutero. L’ombra
della protestantizzazione si allunga
su non poche diocesi sotto le mentite
spoglie dell’emergenza vocazionale.
Ecco così fiorire l’idea di parrocchie
in cui i laici impegnati, quasi
sempre donne, rimpiazzino il prete
nelle sue funzioni. Ed ecco attuarsi,
come ad esempio nella diocesi di Milano,
un complesso piano di accorpamento
delle parrocchie sotto il cappello
delle comunità pastorali, con la
regia di sacerdoti-funzionari di mezza
età. Una riforma che in questi mesi
sta mettendo tutti d’accordo, nel
senso che laici e sacerdoti non ne
possono più.
Quello milanese è un laboratorio
tanto pericoloso quanto interessante.
Chiunque vi si applichi può osservare
da vicino il rischio di sgomberare
il campo dalla vecchia figura
del parroco, che nel diritto canonico
ha una sua potestas molto robusta,
per sostituirlo con dei preti che appaiono
più simili a dei burocrati diocesani.
I danni pastorali di una simile
impostazione sono evidenti. Il
prete che non risiede stabilmente in
una comunità non riesce a essere un
punto di riferimento per i fedeli. E,
soprattutto, non diventa un modello,
anche sul piano antropologico, per i
ragazzi e i giovani che sempre meno
avranno voglia di diventare come lui
e verificare se hanno la vocazione al
sacerdozio. Non a caso, nella terra
di Ambrogio, si stanno affidando alcuni
oratori a degli “animatori” stipendiati.
Non a caso, nella diocesi
che fu di San Carlo, un parroco può
spiegare ai fedeli attoniti che “la domenica,
invece di prendere la macchina
e andare a Messa in una chiesa
vicina, potete riunirvi e leggere
insieme il Vangelo”. Il progetto sembra
evidente. Siccome ci sono meno
preti, si fanno fare più cose ai laici,
con la conseguenza che ci saranno
sempre meno preti e sempre più laici,
finché il sistema progettato per
funzionare perfettamente senza preti
arriverà a pieno regime. Come sarebbe
piaciuto a Lutero.
Ma questo ragionamento, viziato
da una conclusione precofenzionata,
risulta di conseguenza viziato anche
in origine. E’ proprio vero che non
esistono vocazioni? Oppure le si va a
cercare dove non ci sono? A riprova
di questa idea, sta il fatto che, mentre
i seminari diocesani si svuotano,
molte famiglie religiose di recente
fondazione e fortemente incentrate
sul sacerdozio cattolico hanno i loro
seminari, anche minori, stracolmi.
Forse, a voler leggere i “segni dei
tempi”, si impara qualcosa dallo
svuotarsi dei seminari diocesani. Innanzi
tutto che sono un problema.
Nessuno sa dire con certezza quale
siano gli standard dottrinali comuni
ai luoghi in cui si devono vagliare e
far crescere le vocazioni. C’è però
un’aneddotica inquietante che racconta
di seminaristi costretti a recitare
il rosario di nascosto, a non rimanere
inginocchiati durante la
Messa, a farsi mandare a casa propria
riviste di apologetica come Il Timone,
ad ascoltare clandestinamente
Radio Maria. Per le misteriose vie
della Provvidenza, nonostante un simile
apparato deformante, ci sono
ancora buoni preti cattolici che oggi
si affacciano, giovani e freschi di ordinazione,
alla loro missione apostolica.
Ma sono fiori nel deserto, perché
la crisi è ben più drammatica di
quanto si voglia dire.
È sufficiente una ricognizione della
prassi liturgica invalsa in questi
anni per rendersene conto. Le Messe
domenicali offrono esempi a non finire.
Dal prete che, al momento della
comunione, si fa da parte e va a dirigere
i canti mentre i ministri
straordinari dell’eucaristia svolgono
ordinariamente ciò che non toccherebbe
loro, a quello che alla Messa
per la Prima Comunione invita i
bambini a recitare la formula di consacrazione
assieme a lui, a quello
che fa tenere l’omelia alla catechista.
E’ il sacerdozio universale, bellezza.
Una deriva ormai lontana mille
miglia da quanto la Chiesa cattolica
ha sempre insegnato. San Tommaso
d’Aquino spiega benissimo che il sacerdozio
dei fedeli consiste nel “ricevere”
da Dio, mentre il sacerdozio
ordinato consiste nell’“offrire” a
Dio. Ma, una volta oscurato nella
teologia l’aspetto sacrificale della
Messa, il sacerdote ordinato finisce
per essere come un comune fedele.
E’ doloroso portarne le prove, ma
non si può raccontare la progressiva
scomparsa dei parroci nascondendone
i segni. E’ capitato per esempio
che, venute a scarseggiare le ostie
consacrate per la comunione in una
chiesa di un’importante città lombarda,
si sia corsi in fretta e furia a
prendere delle particole in sacrestia
e le si sia mischiate alle altre, quasi
che la consacrazione possa avvenire
per semplice contatto.
Qui è in gioco il cuore della fede
cattolica. Qui ci si balocca con il dogma
della presenza reale di corpo,
sangue, anima e divinità di Gesù Cristo
nell’ostia consacrata a opera del
sacerdote. Sarà brutale, ma senza
presenza reale non c’è sacerdozio.
Senza la certezza che nell’ostia c’è
tutto Gesù Cristo, senza riverenza
per quel pane bianco e immacolato,
senza sacro timore al cospetto di tanta
grandezza, senza dolcezza al cospetto
del manifestarsi della Grazia
pallida e pura, il sacerdote può solo
farsi da parte. Quando si arriva a
questo, si comprende che il vecchio
parroco, quello che anche tanti atei
ricordano con un certo rispetto o
persino un certo affetto, quello che
magari metteva soggezione ma era
capace di dire la parola giusta al momento
giusto, quello che induceva a
guardare in Cielo quando si rischiava
di affezionarsi troppo alla terra,
quel parroco non c’è più.
Non poteva andare diversamente
viste le premesse. Quando il 24 ottobre
1967, davanti al Sinodo dei vescovi,
si tenne nella Cappella Sistina
una celebrazione sperimentale della
Messa prodotta dalla riforma postconciliare,
l’impressione più diffusa
venne riassunta benissimo dai molti
che definirono il rito “freddo come
una cena luterana”. Col risultato che
più della metà dei padri sinodali
votò contro o, quanto meno, chiese
modifiche sostanziali. Monsignor Annibale
Bugnini, artefice della riforma,
accusò il colpo, ma non arretrò,
anzi. Nel suo libro “La riforma liturgica”
spiega quanto inadeguati fossero
quei vescovi che non avevano gradito
il suo lavoro. In particolare, riserva
parole poco benevole per quelli
“assillati dal dogma della presenza
reale” che, poveri ruderi medievali,
“avevano visto con preoccupazione
qualche riduzione nei gesti e nelle
genuflessioni, l’allungarsi della liturgia
della Parola”.
Proprio così, tra i vescovi di santa
romana chiesa ce n’erano ancora
molti con la fissa della presenza reale
di Nostro Signore nell’eucaristia.
Levata quella fissa, oggi, in gran parte
dei seminari, è considerato chiaro
segno di non-vocazione rimanere inginocchiati
per il ringraziamento dopo
la comunione. Ma se un sacerdote
non insegna ai suoi parrocchiani la
reverenza per Dio che cos’altro può
fare? Se non vuol rimanere con le
mani in mano, ecco che insegnerà la
reverenza per qualcos’altro: per
l’ambiente, per la pace, per i poveri,
per le balene in via d’estinzione. Persino
per il dio delle altre religioni:
ma non per il proprio.
Non è un caso se, nell’udienza generale
del 1° luglio 2009, a proposito
dell’anno sacerdotale, Papa Benedetto
XVI ha detto: “Dopo il Concilio
Vaticano II, si è prodotta qua e là
l’impressione che nella missione dei
sacerdoti in questo nostro tempo, ci
fosse qualcosa di più urgente; alcuni
pensavano che si dovesse in primo
luogo costruire una diversa società”.
Ma non è in un progetto umanitario
che trova compimento la vocazione
al sacerdozio. Il sacerdote radica la
sua identità nel primato della Grazia
divina. “A fronte di tante incertezze
e stanchezze anche nell’esercizio del
ministero sacerdotale, è urgente il
recupero di un giudizio chiaro ed
inequivocabile sul primato assoluto
della grazia divina, ricordando quanto
scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il
più piccolo dono della Grazia supera
il bene naturale di tutto l’universo’”.
Nell’udienza precedente aveva
inoltre spiegato che “in un mondo
in cui la visione comune della vita
comprende sempre meno il sacro, al
posto del quale la funzionalità diviene
l’unica decisiva categoria, la
concezione cattolica del sacerdozio
potrebbe rischiare di perdere la sua
naturale considerazione, talora anche
all’interno della coscienza ecclesiale”.
Perso di vista tutto questo, il destino
del parroco è quello di essere uno
fra i tanti. A far marciare le cose per
bene in parrocchia ci pensa il popolo
che, liberato da secoli di oppressione
liturgica, può dare finalmente
sfogo alla sua democratica creatività.
Ma il popolo, quand’anche sia il “popolo
di Dio”, una volta abbandonato
a se stesso, al massimo riesce a mettere
su la Festa dell’Unità, fosse pure
la Festa dell’Unità dei cristiani.
E il prete, nella gran parte dei casi
cresciuto nella stessa temperie,
partecipa con entusiasmo. Poiché
l’entusiasmo è l’unico criterio che
oggi misura la riuscita di qualsiasi
iniziativa ecclesiale, dalla celebrazione
della Messa alla raccolta di
carta per il Mato Grosso. Se una Messa
non è partecipata entusiasticamente,
se non è animata entusiasticamente
pare quasi non sia valida.
Così, ognuno ci mette del suo. C’è chi
si affanna nella corsa al microfono
per leggere chilometriche preghiere
dei fedeli, chi compie gesti simbolici
che danno un senso ulteriore alla
Messa, chi sale alla ribalta per spiegare
che cosa significhino quei gesti
simbolici, chi dai gesti simbolici si
sente edificato e chi, ma raramente,
volta i tacchi dicendo: “Se me lo devi
spiegare che razza di simbolo è?”.
Quanto sono lontane le Messe del
Curato d’Ars. Quanto lontana la sua
concezione del sacerdozio. Quanto
lontano il suo essere parroco, responsabile
davanti a Dio del destino
eterno di ogni anima affidatagli.
“Tolto il sacramento dell’Ordine” diceva
ai suoi parrocchiani il santo
“noi non avremmo il Signore. Chi lo
ha riposto là in quel tabernacolo? Il
sacerdote. Chi ha accolto la vostra
anima al primo entrare nella vita? Il
sacerdote. Chi la nutre per darle la
forza di compiere il suo pellegrinaggio?
Il sacerdote. Chi la preparerà a
comparire innanzi a Dio, lavandola
per l’ultima volta nel sangue di Gesù
Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote.
E se quest’anima viene a morire
per il peccato, chi la risusciterà,
chi le renderà la calma e la pace?
Ancora il sacerdote”. E poi ancora
sopraffatto dalla responsabilità di
dare a Dio ciò che gli spetta anche
per conto altrui: “E’ il prete che continua
l’opera della Redenzione sulla
terra. Che ci gioverebbe una casa
piena d’oro se non ci fosse nessuno
che ce ne apre la porta? Il prete possiede
la chiave dei tesori celesti, è
lui che apre la porta, è lui l’economo
del buon Dio, l’amministratore dei
suoi beni. Lasciate una parrocchia,
per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno
le bestie”.

© Copyright Il Foglio 12 marzo 2010