DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Orfanotrofio russo. Così l’Unione Sovietica di ieri ha anticipato la Cina e l’India che oggi sterminano le bambine

La cultura e le leggi bolsceviche che
avrebbero dovuto portare alla
“liberazione della donna”, magari contro
la “sessuofobia cristiana”, causarono,
come si è visto, la disgregazione della
società, il boom degli infanticidi e degli
aborti. Tanto che i paesi comunisti, dal
Vietnam alla Cina, da Cuba alla
Federazione russa, mantengono ancor
oggi il triste primato degli aborti nel
mondo. Ma non è tutto: anche i bambini
già nati furono vittime, in massa,
dell’ideologia. Riguardo alla famiglia,
infatti, all’inizio della rivoluzione
comunista si sostenne che la lotta tenace
al matrimonio religioso, il lavoro
obbligatorio per le donne e l’intervento
dello stato per sollevare i genitori dal
“fardello dell’educazione dei figli”,
avrebbero portato a una società
armoniosa e felice. Alexandra Kollontai,
in due discorsi del 1921, aveva infatti
dichiarato: “Nella Società Comunista la
donna non dovrà passare le sue scarse
ore di riposo in cucina, perché
esisteranno ristoranti pubblici e cucine
centrali in cui si darà da mangiare a
tutti…”; neppure sarà più necessario che
le donne facciano le pulizie in casa, visto
che ci penseranno persone stipendiate ad
hoc dallo Stato. Inoltre il “focolare
domestico” verrà sostituito dal “focolare
comunitario”, il matrimonio
indissolubile, “una mera frode”, dal
“diritto alla felicità” per gli amanti; le
case comuni prenderanno il posto degli
alloggi privati, e la famiglia sarà
sostituita, nell’educazione dei figli, dallo
stato. Così “l’uomo nuovo, della nostra
nuova società, sarà modellato dalle
organizzazioni socialiste, dai giardini
d’infanzia, residenze, asili per bambini e
altre istituzioni di questo tipo, in cui il
bambino passerà la maggior parte della
giornata e in cui educatori intelligenti lo
trasformeranno in un comunista
cosciente”. “Non temete – continuava –
per il futuro di vostro figlio. Non
conoscerà il freddo e la fame. Non sarà
disgraziato, non verrà abbandonato alla
sua sorte come accadeva nella società
capitalista. Non appena il neonato viene
al mondo, lo Stato della classe
lavoratrice, la Società Comunista,
assicurerà al figlio e alla madre una
razione per la sua sussistenza e una
sollecita cura. La Patria Comunista
crescerà, alimenterà ed educherà il
bambino” e la famiglia non sarà più
necessaria, ma al contrario “dannosa e
inutile”, visto che “la donna che ha
nutrito il suo bambino al seno ha assolto
il suo dovere sociale”. Proprio in uno di
questi discorsi, dopo aver ricordato che
finalmente nel 1920 dodici milioni di
cittadini, “bambini compresi”, hanno
mangiato nelle mense pubbliche, e dopo
aver stigmatizzato come “lavoro
improduttivo” “la cura della casa e la
cura dei bambini”, la Kollontai notava
che “in Unione Sovietica, ahimè! il
numero dei bambini abbandonati dai
genitori non smette di crescere”.
Che cosa succedeva? La mentalità
imposta dai bolscevichi, il matrimonio
minimale, senza “formalità”, senza
sacralità e quasi senza cerimonia, il
cosiddetto divorzio veloce, “nel giro di
una o due settimane al massimo”
(sfruttato da molti mariti), l’insistenza
sulla morte della famiglia, il “doppio
fardello” per le donne, si sommarono alla
povertà determinata dalla guerra civile,
dall’economia statalizzata e dalle carestie
provocate, e portarono milioni di russi a
smarrire il senso della genitorialità,
all’aborto reiterato, all’infanticidio e ad
abbandonare i figli o allo stato o sulla
strada. Gli storici sono concordi: fu un
fenomeno di proporzioni inaudite. In
breve la Russia fu strapiena di
“besprizorniki”, gli abbandonati, i figli di
nessuno: si parla di 7 milioni di bambini
nel 1922. A quelli abbandonati per i
motivi suddetti infatti, bisogna
aggiungere tutti i figli dei perseguitati
politici: nella Russia comunista le mogli
dei “traditori della patria”, ma spesso
anche le mamme e le sorelle, venivano
internate in appositi gulag, mentre i
bambini, rimasti soli, venivano rinchiusi
in quelle che dovevano essere le
“splendide” scuole pubbliche, sostitutive
dei genitori, e che divennero invece gli
immensi orfanotrofi-lager che
disseminano ancora oggi l’Est postcomunista.
A prendersi “cura”
dell’emergenza fu incaricato il terribile
Dzerzinskij, il capo della Ceka,
determinando tra il resto il fatto che
questi istituti sovraffollati di bambini
disperati divennero talora veri e propri
vivai per la polizia segreta di Stalin,
capace, sovente, di ferocia senza pari. Nel
2007 in Russia vi erano ancora circa 5
milioni di bambini abbandonati.
Qualcosa di simile alla situazione di altri
paesi comunisti, in cui la disgregazione
familiare era stata considerata
propedeutica a una maggior libertà
dell’individuo e alla creazione di veri
cittadini, fedeli solo allo stato e alla
collettività. Nella Cina di Mao e nella
Cambogia di Pol Pot, voler dormire a
casa, dimostrare attaccamento per la
moglie o i figli, tributare culto ai familiari
defunti, costituirono motivi di sospetto. Si
veniva incolpati di “mettere la famiglia al
primo posto”, di porre in dubbio la
capacità del partito di provvedere ai
cittadini, di avere ancora “inclinazioni
individualiste”, di essere troppo legati a
“sentimentalismi” ed egoismi piccolo
borghesi. Con esiti simili a quelli russi:
una massa immensa di aborti, infanticidi
e orfani nelle strade. (3. continua)

Francesco Agnoli

© Copyright Il Foglio 11 marzo 2010