DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

«Però l’Italia è nata storta». I massoni volevano distruggere i cattolici, al Sud il Risorgimento fu pura violenza

DI A NDREA G ALLI
« F
are la guerra alla pre­ponderanza cattolica nel mondo, per tutto, con tutti i mezzi. Questa la nostra politica avvenire. Noi vediamo che questo cattolicesimo è uno stru­mento di dissidio, di sventura e dobbiamo distruggerlo». A ricorda­re queste parole pronunciate nel luglio 1862 da Ferdinando Petrucel­li della Gattina, fra gli applausi dei deputati del Parlamento italiano, è Francesco Mario Agnoli, presidente aggiunto della Corte di Cassazione, già componente del Consiglio su­periore della magistratura, studioso delle insorgenze anti-giacobine in Italia e autore di saggi come Mazzi­ni
e
D ossier brigantaggio . La cita­zione si trova riproposta in termini analoghi, in quegli anni, nel 'Bol­lettino del Grande Oriente' e nel giornale 'Il diritto', che era un or­gano semi-ufficiale di Depretis.
Non si trattava certo di cose isolate.

Il papa re, odiato dai liberali, lo era anche dai suoi sudditi?

«Bisogna distinguere fra le varie zo­ne. Nel nucleo dello Stato pontifi­cio, Roma, il Lazio, l’Umbria e an­che le Marche, la figura del papa re era largamente benvoluta e lo di­mostra anche il fatto che Garibaldi, Mazzini e i Savoia cercarono sem­pre di suscitare delle sollevazioni popolari senza riuscirci. La situa­zione era diversa nelle Legazioni pontificie, come la Romagna; Bolo­gna, ad esempio, aveva sempre a­spirato all’indipendenza. In Roma­gna, poi, al tempo dell’invasione francese (1796-1799), gli abitanti si dimostrarono tra i più fedeli al pa­pa e ai più attaccati alla religione cattolica, insorgendo più volte con le armi (basti ricordare le solleva­zioni di Lugo e di Tavoleto). Dopo la Restaurazione la situazione inve­ce cambiò e si ebbe una progressi­va e intensa diffusione delle idee repubblicane prima e di quelle so­cialiste
poi».
Come mai tante terre una volta pontificie le ritroviamo oggi nelle cosiddette 'regioni rosse'?

«È vero, esiste una corrispondenza.
Ma è interessante osservare come queste terre siano anche quelle in cui è sempre stata molto forte l’av­versione per i governi liberali. Si passò da una una militanza di tipo cattolico a una militanza dapprima repubblicano-rivoluzionaria, poi 'rossa'. Se si va fondo, ci si accorge di trovarsi di fronte a realtà anti-li­berali che sono rimaste tali con una continuità rocciosa. Semplicemen­te, a un certo punto dell’800 le po­polazioni romagnole hanno cam­biato cavallo, sedotte dal sociali­smo, giudicato più deciso nell’op­posizione alla borghesia liberale e al suo governo».

Risorgimento: parola luminosa.
Ma quanto intrisa di violenza?

«Molto. Tanto che verrebbe voglia di attribuire non piccola parte di quella pretesa luminosità alle fiam­me che per ordine del generale En­rico Cialdini distrussero, assieme a gran parte degli abitanti, i villaggi benevantani di Pontelandolfo e di Casalduni. La testimonianza più si­gnificativa è di un bersagliere val­tellinese: 'Entrammo nel paese.
Subito abbiamo cominciato a fuci­lare preti e uomini, quanti capitava, indi i soldati saccheggiavano e infi­ne abbiamo dato l’incendio al pae­se, abitato da circa 4.500 persone...
Quale desolazione! Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli, che la sorte era di morire chi abbrustoliti, e chi sotto le rovi­ne delle case'. È vero; qualche gior­no prima una banda di 'briganti' nei pressi dei due paesi avevano at­taccato e un reparto di quaranta­due bersaglieri, ma, dopo tutto, i sabaudi erano entrati nel Regno delle Due Sicilie, uno Stato amico, senza alcuna giustificazione e sen­za nemmeno una dichiarazione di guerra. Del resto i militari sabaudi si sentivano impegnati in una guer­ra di tipo coloniale. Farini scrisse in una lettera a Cavour: 'Questa è A­frica! I beduini a riscontro di questi cafoni sono fior di virtù civile'. Co­munque, la testimonianza migliore è dello stesso Giuseppe Garibaldi, che in una lettera del 1868 confes­sò: 'Gli oltraggi subiti dalla popola­zioni meridionali sono incommen­surabili.
Ho la coscienza di non a­ver fatto del male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia me­ridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo o­dio'. Sulla violenza dei conquista­tori s’incentra anche il giudizio di Antonio Gramsci: 'Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meri­dionale e le isole, squartando, fuci­lando, seppellendo vivi contadini poveri, che scrittori salariati tenta­rono di infamare col marchio di briganti'».
Ha ancora un senso un dibattito pubblico sul Risorgimento o si tratta di temi che è ormai ora di la­sciare
agli storici?
«Senza dubbio, purché lo si svolga in termini corretti. Ho letto su 'Av­venire' l’opinione del professor Riccardi, il quale ritiene che sia più difficile, ma sicuramente più frut­tuoso
per capire l’Italia di oggi, af­frontare una serie di buchi neri del­la nostra storia più recente: dal fa­scismo fino a Tangentopoli e oltre.
Non sono del tutto d’accordo. Per correggere quello che è stato fatto male bisogna conoscere gli errori compiuti. E oggi gli errori del fasci­smo, quelli di Tangentopoli sono noti, anche al grande pubblico.
Mentre gli errori del processo risor­gimentale sono stati pervicace­mente nascosti, ricoperti da una pesante retorica e da luoghi comu­ni storiografici. Prima di accanto­narli, sarebbe bene almeno che ve­nissero
conosciuti».
Come sarebbe più opportuno ri­cordare i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia?

«Ritengo si debba capire perché questo Paese è nato male (anche per capire perché continua a vive­re male) e che si debbano, quindi, evidenziare gli errori del processo unitario per cercare più efficace­mente delle correzioni. Correzioni non agli errori in sé di centocin­quant’anni fa, ovviamente, ma alle loro conseguenze attuali. Condivi­do la posizione espressa da Massi­mo Cacciari, secondo il quale non c’è da celebrare nulla, semmai ci sono da rivisitare molti dati storici. In tal caso l’anniversario sarà un’occasione utile, altrimenti, se si tratta semplicemente di riproporre il mito del Risorgimento, come purtroppo sembra chiedere il pre­sidente Napolitano, le iniziative ri­schiano di essere uno spreco di soldi e, forse, anche una fonte di ulteriori divisioni».


© Copyright Avvenire 16 febbraio 2010