DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Assassini che mangiano di magro. Lo scandalo della morale cattolica. Peccato, reato e la vocazione della chiesa alla severità e alla misericordia

di Francesco Valenti
Le polemiche suscitate dalla campagna
contro la pedofilia nella
chiesa cattolica sono animate da diverse
motivazioni, che vanno dal sentimento
antiromano alla richiesta di
purificazione e di ammodernamento,
quando non di sottomissione a chi comanda
nel mondo. Una questione
spesso sottaciuta, e tuttavia ardente
sotto le ceneri di ogni contesa, riguarda
la presunta superiorità della chiesa
nel campo della carità e dell’educazione,
o, più in generale, della formazione
dell’uomo, investendo, da
qui, anche la richiesta di revoca dello
status particolare che la chiesa cattolica
si è conquistata. Quanto avviene
non è forse la dimostrazione, anche
per esperienza, dell’inferiorità e della
pericolosità della morale cattolica?
Della sua incapacità di educare l’uomo,
perfino laddove lo tenga ancora
in pugno dalla culla alla bara? Di più,
del suo essere fonte di corruzione e
costrizione disumana, cui necessariamente
deve conseguire l’impulso incontrollabile
del desiderio represso?
L’accusa non si limita a questo, ma
investe anche i gesti di pietà e pentimento,
posti sempre in relazione col
rigore dei principi: pur di non lasciare
spazio a quanto rimprovera come
errore, perché la chiesa perdona e facilmente
giustifica l’errante, accompagnando
l’asprezza della dottrina
con una pratica del tutto formalista e
esteriore? Perché tanta intransigenza
sulla vita e tanto lassismo quando si
tratta di far pagare la pena? Perché
impedire l’esercizio delle libertà, salvo
poi fornire indulgenze e perdono,
mentre all’uomo di oggi è necessario
permettere tutto ma è anche indispensabile
poterlo sanzionare con
multe, castigo e galera?
Se la morale cattolica intende far
vivere meglio l’uomo, perché si ostina
a negare gli affetti degli individui, i
progressi della cultura e le disposizioni
della legge civile e penale? Davvero
la chiesa cattolica non si rende
conto che la più consistente dimostrazione
del suo anacronismo, se non
della sua falsità, consiste nel fallimento
dell’uomo che essa ha creato?
Non è sotto gli occhi di tutti che l’uomo
moderno, per cui la morte di Dio
è un dato, deve liberarsi anche dall’immagine
di Cristo e dalla cultura
morta del cattolicesimo? Che l’uomo
singolo, che vuole vivere i suoi desideri
non repressi, e l’uomo sociale dei
diritti disciplinati sono la più grande
dimostrazione della qualità del mondo
relativista?
La lotta riformatrice contro l’oscurantismo
delle indulgenze non si è
mai conclusa, e la speranza di molti
che l’esito di questa nuova infuocata
offensiva contro la chiesa cattolica sia
analogo a quello del Cinquecento è
tutt’altro che celata tra le righe delle
polemiche giornalistiche di queste
settimane. Per esse, il vizioso è l’inevitabile
espressione del virtuoso apparente,
inchiodato alle sue responsabilità
reali dal processo demistificatorio
che mostra come, sotto ogni atto
gratuito, si annidano interessi, morbosità
e secondi fini. Nessun uomo è sano
perché il nostro essere, non il nostro
esistere, è intrinsecamente malato.
L’uomo di oggi non deve essere più
chiamato da nessuno a risorgere nella
conversione personale, e perciò ad
accettare Colui che fa nuove tutte le
cose, ma a regolamentare, semplicemente,
i permessi alla sua illimitata
libertà.
Come avviene da almeno due secoli,
è ancora essenziale, per la morale
moderna individuale e collettiva, risolvere
lo scandalo della morale cattolica.
E’ questo scandalo, precisamente,
il tema che venne affrontato
da Alessandro Manzoni nelle “Osservazioni
sulla morale cattolica”, dove,
sin dalle prime righe, rivolgendosi al
lettore, afferma che “se la morale che
la chiesa insegna portasse alla corruttela,
converrebbe rigettarla”; e che,
perciò, “si tratta di decidere se una
morale professata da milioni d’uomini,
e proposta a tutti gli uomini, deva
essere abbandonata, o conosciuta meglio,
e seguita più e più fedelmente”.
mento di chi a lei s’affida e, in particolare,
del popolo italiano, che appare
vivere in modo ipocrita, costantemente
in bilico “tra il sicario e il certosino”
(cap. XIII). La chiesa è dunque
immorale? “Di quelle sante e solenni
parole che sono come la parte
essenziale del vocabolario morale di
tutti i tempi e di tutti i luoghi – giustizia,
dovere, virtù, benevolenza, diritto,
coscienza, premio, pena, bene, felicità
–, quale, Dio bono! è stata cancellata
o lasciata fuori dalla chiesa?”
(cap. III). E’ la verifica di questa disposizione
della morale cattolica a
elevare tutto l’uomo che innalza l’argomentare
con indicazioni non certo
di trita apologia quanto accurate e
sottili. Manzoni aveva come avversarie
le morali di Locke, Bentham,
Rousseau, nonché, implicitamente, di
Kant e altri; la distanza di quelle morali
con l’etica del disordine di oggi è
notevole, ma le sue argomentazioni
usano parole così accurate nell’esplicitazione
delle ragioni che non hanno
smarrito forza persuasiva. Tanto Manzoni
ebbe a cuore il tema, che una seconda
edizione del libro vide la luce
nel 1855, con alcune novità. Postuma,
infine, fu stampata la seconda parte,
già scritta sin dal 1820, ma lasciata
fuori anche dalla definitiva pubblicazione
e parzialmente incompiuta.
Non che, ieri come oggi, si possa
trovare la fede e seguire la chiesa studiandone
la morale, perché sarebbe
come voler iniziare una scalata dalla
cima. Ma la morale cattolica è, per
Manzoni, la verifica umana della novità
e della verità cristiana; è la dimostrazione
della grandezza della sua
visione antropologica, derivando questa
da Cristo, che ha rivelato l’uomo
all’uomo, e non da una presunta convenzione
umana, come volevano le
morali borghesi. Senza la possibilità
di poter parlare, specialmente ai semplici,
di quanto le è stato rivelato, la
chiesa tradirebbe, pertanto, la sua essenziale
funzione di guida e di certezza
anche nel campo delle più elementari
verità. “[La chiesa] potrà supporre
un momento che ci siano due vie,
due verità, due vite? Le sono stati affidati
de’ precetti; e depositaria infedele,
ministra diffidente, dispenserà
de’ dubbi? Lascerà da una parte la
parola eterna, e s’avvilupperà ne’ discorsi
dell’uomo, per riuscire a trovare
forse che la virtù è più ragionevole
del vizio, forse che Dio dev’essere
adorato e ubbidito, forse che bisogna
amare i suoi fratelli?” (cap. III).
Siamo ancora nel 1819, e Manzoni
si sente costretto a dedicare diverse
parti a illustrare ex novo singoli
aspetti ormai già sconosciuti della
morale cattolica, facendolo talora in
modo eccessivamente minuto, con
parti sui decreti della chiesa, sull’elemosina,
la sobrietà, l’astinenza, la
continenza e la verginità, la modestia
e l’umiltà. Ma la qualità dell’analisi e
dello stile delle “Osservazioni” si innalza
sempre, e soprattutto laddove
Manzoni introduce la controversia tra
la morale della chiesa e la cultura del
suo, e del nostro, tempo, analizzando
gli argomenti con quella precisione
profonda che ritroveremo in numerose
pagine dei “Promessi sposi”, quando
la morale si fa arte e narrazione,
perché, come afferma Alasdair MacIntyre,
“i mezzi principali dell’educazione
morale consistono nel raccontare
storie”.
Manzoni conosce e descrive troppo
bene la condotta libertina dei bravi,
dei don Rodrigo e del primo Innominato
per poter concedere al mondo la
palma della vittoria nella costruzione
di una vita più morale; di quel mondo
che, come l’Innominato, è destinato a
vivere senza “quel Dio di cui aveva
sentito parlare, ma che da gran tempo,
non si curava di negare né di riconoscere,
occupato soltanto a vivere
come se non ci fosse” (“I promessi
sposi”, cap. XX). Infatti, quanto il libertinismo
permissivo esclude è propriamente,
per Manzoni, il fondamento
stesso della nostra e di ogni civiltà,
vale a dire la carità religiosa, quella
che sola permette a ciascuno la semplice
e mirabile scoperta che il proprio
bene coincide con quello fatto
agli altri. Ma è importante notare come
Manzoni estenda la propria critica
anche all’autonomia della morale
borghese, che possiede “due vizi innati
e irrimediabili: mancanza di bellezza,
ossia di perfezione, e mancanza
di motivi”; essa è dunque caratterizzata
da quella “urbanità, la quale, separata
dalla carità religiosa, è piuttosto
le leggi della guerra che un trattato
di pace” (cap. III).
Alla capacità di contentarsi di una
felicità analgesica, esemplificata nel
romanzo da donna Prassede, il cui
unico “studio era di secondare i voleri
del cielo”, ma che “faceva spesso
uno sbaglio grosso, ch’era di prender
per cielo il suo cervello” (“I promessi
sposi”, cap. XXV), Manzoni contrappone
la fede religiosa autentica,
“quella che, facendo intendere che i
beni temporali non sono il fine dell’uomo,
li fa con ciò stesso conoscere
come mezzi; e nella quale trovano per
conseguenza una ragione evidente
del pari e il giusto disprezzo e la giusta
stima di essi; il procurarli agli altri,
e il trascurarli per sé, quando il
trascurarli sia un mezzo più conducente
al fine, che il possederli; e la
pazienza senza avvilimento, e l’attività
senza inquietudine!” (cap. III). In
tale direzione egli può riprendere
l’affermazione di Montesquieu, secondo
il quale “la religione cristiana, la
quale pare che non abbia altro oggetto,
se non la felicità dell’altra vita, ci
rende felici anche in questa” (appendice
al cap. III).
Manzoni vede con certezza la prospettiva
funesta di una vita destinata
a operare come se Dio non fosse, e
perciò ribalta le accuse alla chiesa,
impegnato a svalutare l’assurdità di
una morale lontana da Dio e di una
conseguente giustizia senza Paradiso.
Egli sa fin troppo bene che il Vangelo
è escluso “quasi del tutto dai discorsi
degli uomini, che non è lecito che parlarne
qualche volta generalissimamente
purché non si faccia mai applicazione,
eccetto alcuni casi, p.e. di afflizione”
(parte seconda cap. IV). E sa
che il popolo potrebbe abbandonare
la chiesa: “Ah! Se quegli che si chiamano
popolo adottassero un giorno la
filosofia miscredente, che Dio non voglia”
(parte seconda, cap. VI). Manzoni
ha conosciuto e descritto anche il
dramma a noi contemporaneo della
coscienza solitaria, come in alcuni
versi di “Ermengarda” o del “Cinque
maggio” o in certi momenti d’angoscia
disperata nell’innominato, cui fa da
contraltare l’affezione a sé nel grande
cap. XV delle “Osservazioni”. Il paradosso,
che diremmo lombardo, del
Manzoni, e che lo rende assai più vicino
di quanto non appaia nel suo stile
a Leopardi o a Baudelaire, è quello di
un cattolico liberale, integrato apparentemente
nel suo tempo e con il limite
di una visione più morale che
metafisica, ma che legge il comportamento
come l’affiorare dell’essere, in
questo percependo una permanenza
ma anche il cuore della grande difficoltà.
Lo stile che ne consegue lo preserva
dalla facile apologia trionfalistica
e lo impegna nella scoperta iniziale
di parole e argomentazioni, e nella
dimostrazione di dove le idee e gli uomini
vadano a finire, una volta allontanatisi
dalla pietà di un’accettazione.
All’opposizione nei fatti tra la morale
cattolica e lo spirito del secolo è
riservato un capitolo della seconda,
incompiuta, parte; ma alcuni elementi
di tale opposizione Manzoni ha tenuto
costantemente presenti in tutta
l’opera, nella quale difende la morale
cattolica accusata di doppiezza, di ipocrisia
nei riguardi della giustizia e di
assurdità per il suo riferirsi a elementi
tanto impuri per lo spirito religioso,
e tra questi anzitutto ai preti. Confutazione
senza appello, che il mondo pretende
di assegnare allo scandalo di
una chiesa anacronistica. Per il mondo,
la morale cattolica deve rinunciare
alla religione dei preti e delle suore,
a una fede non intima e con troppi
segni esteriori, a una credenza esclusa
dai tratti dell’uomo civile, alla giustificazione
che non sia esclusivamente
culturale della grandezza del cristianesimo
passato. Entrando nel cuore
di questa imputazione, Manzoni così
si esprime: “una accusa che si fa comunemente
ai nostri giorni alla religione
cattolica, è ch’ella sia in opposizione
collo spirito del secolo. Questa
accusa può in un senso essere dalla
religione ricevuta come un elogio: se
per spirito del secolo s’intende la tendenza
violenta ad alcune cose transitorie
come beni da ricercarsi per sé,
l’amore e l’odio insomma delle creature
non diretto ai fini voluti da Dio, la
religione si protesta, come sempre si è
protestata, nemica di questo spirito; e
quando venisse a far tregua con esso,
allora si potrebbe trovarla in contraddizione
e diffidare di essa. Guai alla
chiesa se ella facesse un giorno pace
col mondo! se desistesse dalla guerra
che il Vangelo ha intimata, e che ha
lasciata alla chiesa come la sua occupazione
e il suo dovere; ma questo timore
non può mai esser fondato, perché
l’espressa parola di Gesù Cristo
assicura il contrario” (parte seconda,
cap. II).
Tra le doppiezze del cattolico e del
carattere del popolo italiano, che della
morale cattolica è, secondo il Sismondi,
diretta conseguenza, una finzione
suona particolarmente incomprensibile,
oggi, alla cultura progressista
e liberale: quella relativa al rapporto
tra pentimento e remissione dei
peccati. Per questa cultura, ieri come
oggi, “un complesso di discipline meditate,
promulgate, venerate da una
società come la chiesa, non meriterebbe
attenzione, se non per l’ubbidienza
di qualche omicida, di qualche prostituta,
di qualche spergiuro!”; di qui il
pregiudizio nordico, al quale gli italiani
appaiono come degli “assassini che
mangiano di magro” (cap. XIV). Come
sempre Manzoni riconduce l’argomento
a quello che c’è in gioco nelle decisioni
della vita, ribaltando l’accusa e
facendo anzi della modalità con cui la
chiesa cattolica spiega, vive e accompagna
l’errore umano uno dei più formidabili
segni della sua grandezza. E’
la decisiva questione del Male, che
Manzoni affronta seguendone non tanto
le tracce metafisiche o filosofiche,
quanto osservandone tutte le connessioni
morali, in modo tale, però, da far
risaltare in parole quali peccato, pentimento,
giustizia, cambiamento la
concretezza dei principi, preludio a
numerose pagine del romanzo.
Il peccato è una parte inevitabile e
dolorosa del combattimento cristiano
e la sua remissione ne è l’accompagnamento.
Manzoni sa bene che il dialogo
con le filosofie umane si fa, su
questo punto, contrapposizione, perché
il peccato non è il reato: la contrapposizione
tra questi due elementi
è tanto essenziale quanto inevitabile.
“Le filosofie puramente umane, richiedendo
molto meno, sono molto
più esigenti: non fanno nulla per educar
l’animo al bene difficile, prescrivono
solo azioni staccate, vogliono
spesso il fine senza i mezzi: trattano
gli uomini come reclute, alle quali
non si parlasse che di pace e di divertimenti,
e che si conducessero alla
sprovvista contro de’ nemici terribili.
Ma il combattimento non si schiva col
non pensarci; vengono i momenti del
contrasto tra il dovere e l’utile, tra l’abitudine
e la regola; e l’uomo si trova
a fronte una potente inclinazione da
vincere, non avendo mai imparato a
vincere le più fiacche. Sarà forse stato
avvezzo a reprimerle per motivi
d’interesse, per una prudenza mondana;
ma ora l’interesse è appunto quello
che lo mette alle prese con la coscienza.
Gli è stata dipinta la strada
della giustizia come piana e sparsa di
fiori; gli è stato detto che non si trattava
se non di scegliere tra i piaceri, e
ora si trova tra il piacere e la giustizia,
tra un gran dolore e una grand’iniquità.
La religione, che ha reso il suo
allievo forte contro i sensi, e guardingo
contro le sorprese, la religione, che
gli ha insegnato a chieder sempre de’
O SCANDALO DELLA MORALE CATTOLICA
zioni sullo scontro tra la chiesa e l’etica dei moderni. Ripartendo dal cattolico liberale Manzoni
ANNO XV NUMERO 87 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 14 APRILE 2010
soccorsi che non sono mai negati,
gl’impone ora un grand’obbligo, ma
l’ha messo in caso d’adempirlo; e avergli
chiesto un gran sacrifizio, sarà un
dono di più che gli avrà fatto. La religione,
chiedendo all’uomo cose più
perfette, chiede cose più facili, vuole
che arrivi a una grand’altezza, ma gli
ha fatta la scala, ma l’ha condotto per
mano: le filosofie umane, contentandosi
che tocchi un punto molto meno
elevato, pretendono spesso di più;
pretendono un salto che non è della
forza dell’uomo.” (cap. XIV).
La differenza tra peccato e reato, e
l’assoluta indispensabilità della loro
separazione, nasce da qui: alla legge
che può solo vietare e colpire, la morale
cattolica ha affiancato la ben più
forte carità, che propone sempre, che
comanda il cambiamento e che lo
premia, che sa accompagnare l’uomo
in tutta la vita e oltre. “La giustizia
umana ha pur troppo con sé l’orgoglio
del Fariseo che si paragona col Pubblicano,
che prende un posto lontano
da lui; che non s’immagina che quello
possa diventare un suo pari; che, se
potesse, lo terrebbe sempre nell’abiezione
del peccato” (cap. VIII, 3). Se
per il pensiero protestante la relazione
tra pentimento e remissione dei
peccati poteva essere infranto dal rigore
della fede, che pure plasmava la
durezza della vita, ai predestinati
senza fede del mondo moderno, la
confusione e l’incapacità di vivere
questa caratteristica apre le porte a
un’ingerenza della legge in ogni particolare
della vita umana.
Si valutino, invece, le splendide parole
con le quali Manzoni esalta il
cammino di conversione di un uomo
colpevole, i.e. di tutti, e la funzione
del sacerdote in questo percorso: “la
religione ha ricevuto dalla società un
vizioso, e le restituisce un giusto: essa
sola poteva fare un tal cambio. Chi
avrebbe tentato, chi avrebbe pensato
d’istituire de’ ministri per aspettare il
peccatore, per invitarlo, per insegnar
la virtù, per richiamare a quella chi
ricorre a loro, per parlargli con quella
sincerità che non si trova nel mondo,
per metterlo in guardia contro
ogni illusione, per consolarlo a misura
che diventa migliore?” (cap. VIII,
3). Anche per questi motivi, “quello
che la chiesa vuole evitare prima di
tutto, è il male orribile d’un popolo
senza cristianesimo, e l’assurdità d’un
cristianesimo senza ministero” (cap.
X). Avere il senso del peccato e al
tempo stesso vivere e accompagnare
l’amore, tale è la condizione umana
che il cattolicesimo ha reso sacramento.
E’ questo lo scandalo più consistente
introdotto dalla morale cattolica.
Come può ancora sussistere?
Eppure, nel mondo che non concepisce
più il peccato e la sua speranza,
le sembianze dell’errore assumono
sempre e solo le fattezze del reato irrimediabile.
Se poi tale peccato s’annida
nel sacerdote, quel povero Cristo
tanto limitato, la contraddizione risulta
ipocrisia insanabile. “Per non giudicare
precipitosamente in ciò, un
cristiano deve, a mio credere, non
perder mai di vista due cose: una, che
l’uomo può abusare delle cose più
sante; l’altra, che il mondo suol dare
il nome d’abuso anche alle cose più
sante” (cap. XVIII). La morale cattolica
trova in questi argomenti uno dei
suoi vertici: è l’intervento della redenzione
nella condizione dualistica
e contraddittoria dell’umanità. Esso
segnala che Cristo ha operato il riscatto
nella carne e nelle ossa, nella
sua concreta e permanente possibilità,
nel cambiamento (“l’idea della
conversione si deve, non meno che la
parola, alla religione cristiana”, cap.
VIII), perciò, sempre possibile, e nella
speranza sempre incontrabile, in
qualsiasi condizione.
A tale riguardo, le osservazioni del
Manzoni, preludio a tante pagine del
suo romanzo, sono davvero mirabili.
Si considerino queste del capitolo
VIII, 2: “Quanto più l’uomo conosce
che debole, che incerto, che sproporzionato
assegnamento possa fare sulle
proprie forze, e insieme sa e crede
che gli è, non già permesso, ma comandato
di sperare; tanto più si sente
mosso a volgersi e, direi quasi, a
buttarsi, con un lieto abbandono, da
quella parte dove tutto è forza, tutto
è fedeltà, tutto è previdenza, tutto è
assistenza”. Oppure le parole che già
anticipano la conversione dell’innominato:
“Il rimorso, quel sentimento
che la religione con le sue speranze
fa diventar contrizione, e che è tanto
fecondo in sua mano, è per lo più o
sterile o dannoso senza di essa. Il reo
sente nella sua coscienza quella voce
terribile: non sei più innocente; e
quell’altra più terribile ancora: non
potrai esserlo più; e riguardando la
virtù come una cosa perduta, sforza
l’intelletto a persuadersi che se ne
può far di meno, che è un nome, che
gli uomini l’esaltano perché la trovano
utile negli altri, o perché la venerano
per pregiudizio; cerca di tenere
il core occupato con sentimenti viziosi
che lo rassicurino, perché i virtuosi
sono un tormento per lui. Ma per lo
più quelli che vanno dicendo a sé
stessi che la virtù è un nome vano,
non ne sono veramente persuasi: se
una voce interna annunziasse loro
autorevolmente, che possono riconquistarla,
la crederebbero una verità,
o, per dir meglio, confesserebbero a
se stessi d’averla, in fondo, creduta
sempre tale. Questo fa, la religione in
chi vuole ascoltarla: essa parla in nome
d’un Dio che ha promesso di buttarsi
dietro le spalle le iniquità del
pentito: essa promette il perdono, e
offre il mezzo di scontare il prezzo
del peccato. Mistero di sapienza e di
misericordia! mistero, che la ragione
non può penetrare, ma che tutta la
occupa nell’ammirarlo; mistero che,
nell’inestimabilità del prezzo della
redenzione, dà un’idea infinita e dell’ingiustizia
del peccato e del mezzo
d’espiarlo, un’immensa ragione di
pentimento, e un’immensa ragione di
fiducia” (cap. VIII, 3).
Il rifiuto del perdono cristiano, la
richiesta di pentirsi senza sperare,
non sfocia, dunque, nell’autentica afflizione,
ma nella maledizione della
legge. Come ha scritto Rodolfo Quadrelli,
invece, “la religione attende
l’uomo nel momento in cui la tregua o
la disfatta mondana potrebbero portarlo
a una ragionevolezza che è lecito
definire scettica, perché ispirata
da “stanchezza o per una specie di disperazione”.
La religione cambia di
segno a questi momenti, e tutta l’opera
creativa del Manzoni è lì per testimoniarlo”.
E’ quanto Manzoni ha fatto diventare
narrazione nella figura dell’innominato
e in quella di Gertrude. Nel
capitolo XXXVII dei “Promessi sposi”,
Lucia viene a sapere di Gertrude
“cose che, dandole la chiave di molti
misteri, le riempiron l’animo d’una
dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe
dalla vedova che la sciagurata, caduta
in sospetto d’atrocissimi fatti, era
stata, per ordine del cardinale, trasportata
in un monastero di Milano;
che lì, dopo molto infuriare e dibattersi,
s’era ravveduta, s’era accusata;
e che la sua vita attuale era supplizio
volontario tale, che nessuno, a meno
di non togliergliela, ne avrebbe potuto
trovare un più severo”. Lungi dal
rappresentare una facile scorciatoia,
a colei che aveva a tutto acconsentito
senza sapersi ribellare, che aveva accettato
una vocazione non sua, che
aveva tradito e ucciso, che non era
riuscita nemmeno a preservare quel
minimo di amore che le era sorto per
Lucia, il pentimento cristiano permette
di capire e, soprattutto, di cambiare;
e poiché è sempre accompagnato
dalla speranza, le consente di concludere
la sua vita, finalmente, con un atto
tanto volontario quanto eroico: sappiamo
dalla “Storia” del Ripamonti
che Gertrude non uscì più dalla cellaprigione
del monastero di Santa Valeria,
a Milano, dove si fece rinchiudere
sino alla morte.
Alla religione senza i preti e le suore,
protesa a ottenere una religione
razionale e misurata, Manzoni oppone
la verità tutta intera del Vangelo, il
cui richiamo è nel semplice esistere
di un solo sacerdote. A quella senza
segni esteriori, garanzia di una sincerità
interiore contro i formalismi, egli
contrappone la verifica nel comportamento
della conversione personale.
La redenzione della carne impedisce,
così, la giustificazione del fallimento
come prospettiva; e quando la persona,
lasciata a se stessa, trova esclusivamente
giustificazioni alla propria
impossibilità, le risorse derivanti da
una grazia accordatele la rincuorano
sino al cambiamento. La morale cattolica
contrasta anche l’affermazione
del puro spirito che è nulla, oggi in
senso letterale, derivante dalla stanchezza
smarrita; e impedisce che l’allontanamento
definitivo di Cristo tra
le morte gore delle discussioni cerebrali
vada di pari passo con quella
della chiesa. “Il Verbo avrà assunta
questa carne mortale, e attraversate
l’angosce ineffabili della redenzione,
per meritare alla società fondata da
Lui un posto tra l’accademie filosofiche?”
(cap. III).

© Copyright Il Foglio 14 aprile 2010