DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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“Maschio e femmina li creò”: elogio delle differenze

Nell’attuale concezione femminista dell’uomo e della donna la differenza tra le due creature viene sostanzialmente annullata. Per Alexandra Kollontaj, famosa rivoluzionaria, amica di Lenin, impegnata su fronte della “liberazione della donna”, la realizzazione femminile passa dal lavoro fuori casa: l’educazione dei bambini, la cucina, la casa, la “cura” del marito, sono tutti residui di una cultura oppressiva da spazzare via per sempre, e totalmente.

L’utero stesso, in certo pensiero femminista, diviene un impiccio, in quanto “costringe” la donna ad essere madre, e a portare nel corpo i segni della inferiorità, impostale dall’uomo. Oggi questo pensiero è piuttosto dominante, anche se non sempre così esplicito. Le donne realizzate, quelle magari che occupano le copertine delle riviste e dei giornali che celebrano l’8 marzo, sono quelle che hanno avuto successo, come gli uomini, in politica, in banca, in televisione…

La casalinga è di per sé una “poveretta”, irrimediabilmente frustata, uccisa nella sua dignità. Anche la donna che per i figli rinuncia ad una carriera “migliore”, che esiga magari orari di lavoro troppo lunghi, è guardata con sospetto. Non voglio dire che il lavoro fuori casa non possa essere parte della realizzazione femminile, ma certamente, nella concezione cristiana della donna, esso non lo può essere principalmente. Anzitutto perché il lavoro è anzitutto una maledizione, divenuta, solo secondariamente, una benedizione. In secondo luogo perché tra uomo e donna vi è una grande differenza, che non può essere annullata o ignorata, come avviene in molta cultura occidentale contemporanea. Dire che l’uomo e la donna sono uguali in dignità, perché ugualmente creature di Dio, non esclude affatto che vi siano differenze per quanto riguarda i ruoli, le attitudini, le esigenze proprie dei due generi. Secondo l’attuale teoria del gender non siamo né uomini né donne, ma, gnosticamente, ciò che desideriamo divenire.

Sempre in quest’ottica la famiglia non è più necessariamente l’unione di un uomo e di una donna, e, di conseguenza, un figlio non ha bisogno di due genitori di sesso diverso, ma qualsiasi soluzione fattibile e sperimentabile, è di per sé lecita. Che problema esiste, secondo i sostenitori di questa visione del mondo, se il padre non c’è? Se il figlio viene programmato, con la fiv, già orfano della figura femminile? E analogamente, chi lo ha detto che sia necessaria una donna per la corretta crescita di un bambino (vedi matrimoni gay)? A me sembra che la realtà sia ben diversa: ognuno di noi nasce uomo o donna. Ha cioè una natura maschile o femminile, ben visibile, anzitutto, fisicamente. Il corpo dell’uomo e quello della donna sono diversi: complementari. Questa diversità fisica, data in origine, non sottoposta alla nostra libertà, si accompagna ad una diversità psichica, quella invece in fieri, affidata alla realtà, all’educazione, alle circostanze, eppure anch’essa con una sua sostanza immutabile.

La donna nasce donna e nello stesso tempo deve divenire donna; lo stesso l’uomo. Natura è infatti un participio futuro: nasciamo e continuiamo a nascere… Ecco perché è possibile quello che avviene oggi: una rivoluzione antropologica tale per cui esistono sempre più uomini effeminati, che si truccano, che preferiscono lo shopping al calcio, che mettono lo smalto sulle unghie, e donne che farebbero paura agli scaricatori del porto di Livorno. E’ la nostra “cultura” che lotta con la natura, la perverte, invece di assecondarla e di realizzarla. La differenza tra uomo e donna infatti è originaria, ma va coltivata, aiutata, non ostacolata e violentata. Quanto alla specificità della donna, scriveva Edith Stein: "non solo il corpo è strutturato in modo diverso, non sono differenti solo alcune funzioni fisiologiche particolari, ma tutta la vita del corpo è diversa, il rapporto dell'anima col corpo è differente, e nell'anima stessa è diverso il rapporto dello spirito alla sensibilità, come rapporto delle potenze spirituali tra loro".

Questa differenza a mio modo di vedere si sostanzia in questo: la funzione, il ruolo materno della donna, che è la sua natura più vera, la rende più attenta al particolare, mentre la natura dell’uomo, che è la natura paterna, è più incline all’universale. La madre custodisce, protegge, conforta; il padre taglia il cordone ombelicale, divide, introduce nella società. Scriveva sempre Edith Stein: “Il modo di pensare della donna, e i suoi interessi, sono orientati verso cio' che è vivo e personale e verso l'oggetto considerato come un tutto. Proteggere, custodire e tutelare, nutrire e far crescere: questi sono i suoi intimi bisogni, veramente materni. Cio' che non ha vita, la cosa, la interessa solo in quanto serve al vivente e alla persona, non in se stessa. E a cio' è connessa un'altra caratteristica: l'astrazione, in ogni senso, è contraria alla sua natura. Cio' che è vivo e personale è oggetto delle sue cure, è un tutto concreto, e dev'essere tutelato e sviluppato nella sua completezza; non una parte a danno dell'altra o delle altre: non lo spirito a danno del corpo o viceversa, e neppure una facolta' dell'anima a danno delle altre. (…) A queste disposizioni materne si uniscono quelle proprie della compagna. Saper partecipare alla vita di un altro uomo, cioè sapere prendere parte a tutto cio', grande e piccolo, che lo riguarda alla gioia e al dolore, come al suo lavoro e ai suoi problemi: ecco il dono e la felicita' della donna. L'uomo è tutto preso “dalle sue cose” e si aspetta dagli altri che mostrino per quelle interesse e pronta collaborazione; per lui in genere è difficile mettersi alla dipendenza di altri, dedicarsi alle cose altrui. Cio' invece è naturale per la donna; ella è in grado di penetrare con sentimento e comprensione nell'ambito di quelle realta' che di per sé le sono lontane, e delle quali non si prenderebbe cura, se non fosse l'interesse per una persona che le mette in contatto con esse”.

Cosa significa tutto questo? Semplicemente quello che vediamo ogni giorno: la donna nota il particolare, il calzino sbagliato, il colletto della camicia alzato, la smorfia del bambino diversa dal solito; legge con un solo sguardo ciò che il marito ha in testa, ne capisce con una enorme lucidità i pensieri, i problemi, le domande; ricorda le date, gli anniversari, tutto ciò che ha a che vedere con la vita di tutti i giorni…Sa essere madre sia del figlio che del marito, perché coglie la realtà così come si presenta a lei; si dedica interamente alla realtà, con spirito di servizio, di donazione.

La donna, scriveva Gustave Thibon, in ‘Vivere in due’, è fatta per sacrificarsi alle persone che la circondano, per assicurare il futuro immediato dell’umanità. L’uomo, al contrario, è destinato a un’attività più universale: la sua missione consiste nel prodigarsi, spesso nello sciuparsi, per scopi altrettanto concreti, ma assai meno prossimi nel tempo e nello spazio. La donna vigila sulle sottostrutture, l’uomo sulle sovrastrutture. Non credo che queste due funzionino ad essere invertite come spesso accade ai nostri giorni”.

Questa attitudine della donna (generalmente intesa, con le dovute eccezioni), questo suo essere fortemente “incarnata”, come incarnato in lei è il figlio che porta nel grembo, la rende per molti aspetti più concreta, più capace di muoversi nella realtà immediata, come diceva Montale, alludendo a sua moglie Mosca nel suo “Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale”. L’attenzione della donna al particolare, così essenziale per la vita nascente e per la famiglia, si vede per converso anche nei suoi difetti: mentre il vizio dell’uomo può essere l’astrattezza, e la superbia, la donna rischia di cadere molto di più nelle piccole invidie e nelle piccole gelosie, legate appunto al particolare.

L’uomo ama la storia e la politica, discute di massimi sistemi, si crede il ct della nazionale, anche quando non fa politica o non sa per nulla giocare a calcio. La donna, di massima, preferisce la letteratura, la poesia, la psicologia, quando hanno a che fare con vicende, pensieri, emozioni concreti, sperimentati e sperimentabili nella quotidianità. Prendiamo un esempio concreto: la donna tragicizza talora il particolare, una lite col vicino, un malore del figlio, mentre l’uomo lo minimizza, alla luce dell’universale, e alleggerisce pesi che la donna farebbe troppo grandi, ma che lui, però, magari neppure noterebbe. Si instaura così un perfetto bilanciamento che evidenzia la complementarietà tra le due creature. La concretezza della donna, legata al suo compito di madre e di moglie, ha una grande funzione: la rende, tutto sommato, ottimista. E’ più difficile che la donna si ponga davanti problemi immensi, astratti, perché preferisce affrontarli e risolverli di volta in volta, ed è più raro, quindi, che ne rimanga schiacciata. E’ l’uomo che, intellettualizzando quello che invece andrebbe vissuto, con slancio di cuore, si rifugia, molto più spesso, statisticamente, nella droga, o nel suicidio. L’ atteggiamento femminile, più umile, più amoroso, più incarnato, la rende anche naturalmente più religiosa. La madre si inginocchia più facilmente del padre; l’amore è più umile dell’autorità. Sono più numerose le donne che pregano, che vanno in Chiesa, che sentono la loro dipendenza, degli uomini. Essi invece cercano le soluzioni più in grande, quelle sociali, politiche: possono essere, per dirne una, grandi inventori di splendide macchine, di grandi trovate, economiche, politiche, ecc., ma possono anche degenerare nell’astrattezza dell’ideologia e dell’utopia. Non è un caso che le ideologie e le utopie di morte, nate dalla sottovalutazione dei “particolari”, dalla astrattezza e dalla superbia, siano frutto di menti maschili, e non femminili. L’insoddisfazione nociva infatti nasce più facilmente in chi cerca di imporsi sulla realtà, piuttosto che in colei che, per sua natura, serve una realtà, la vita nascente, sperimentata fin da principio come dono.

Alla Madonna Dio ha dato il compito di curare e crescere Cristo stesso; a Pietro di guidare la sua Chiesa. All’uomo il compito di guidare la famiglia nelle sue scelte verso la società, verso l’esterno; alla donna il compito di guidare i figli e l’uomo, nelle scelte, fondamentali, della famiglia. Per questo una donna tutta “fuori” è una negazione della femminilità, nociva per la famiglia e quindi per la società intera; esattamente come un uomo tutto “dentro”, non può che creare problemi, dentro e fuori. Primati diversi, dignità diverse, dunque, per una identica dignità, lontano dalle miopi guerre tra i sessi.Parte di questo articolo è uscuito sul Timone di ottobre 2010


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Coppens: L’Homo? Religiosus fin dalle caverne

di Daniele Zappalà

«Per me, l’origine dell’uomo resta la più bella storia in assoluto e quando la scienza cerca di comprenderla è sempre costretta a constatare al contempo il carattere per così dire stravagante di questa storia, accanto alla sua dimensione d’umiltà». Dopo una vita di studi e campagne scientifiche sul campo talora esaltanti, Yves Coppens esibisce sempre verso il mondo preistorico una curiosità e un’ammirazione quasi spiazzanti. Il grande antropologo e paleontologo francese, fra gli scopritori della nostra antenata più famosa, Lucy, è anche un brillante divulgatore. Come mostra la raccolta di testi brevi Il presente del passato, in uscita oggi per Jaca Book (pagine 168, euro 18,00).

Professore, perché la preistoria ci affascina tanto?
«Gli interrogativi sul nostro statuto sulla Terra, sulla nostra origine e sulla nostra direzione, per così dire, fanno parte di un bisogno connaturato in noi. Al contempo, molti avvertono una grande precarietà nella situazione attuale. E in proposito, pur non condividendo personalmente questo punto di vista, ho l’impressione che nelle risposte sulla nostra origine si cerca pure una sorta di ancoraggio o di aiuto. Dei visitatori di mostre che ho curato, del resto, hanno spesso confessato che questa mano tesa verso il passato più profondo li rassicurava».

Lei ha scritto che il percorso dell’uomo offre un grande messaggio d’umiltà. Cosa intende?
«Si tratta della storia di un essere vivente apparso come qualsiasi altro essere vivente in una fase di adattamento climatico. Dopo il successo ottenuto in quest’adattamento, si è in seguito sviluppato grazie alle risorse di cui disponeva, compresa la cultura, nata dall’apparizione della coscienza. In generale, l’uomo è un mammifero di dimensioni medie in un pianeta in mezzo ad altri attorno a una stella, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre in una galassia, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre. Non si può che restare umili».

Per lei l’uomo si è comportato "come un podista di fondo". Perché?
«I paleontologi e gli anatomisti hanno seguito l’evoluzione della locomozione preumana e umana lungo dieci milioni di anni. All’inizio, vi fu l’associazione di una vita arboricola e di una bipedia alquanto goffa. Una bipedia più stabile, efficace e fluida si è sviluppata molto progressivamente. L’accesso alla stazione eretta e alla locomozione come la concepiamo oggi fu davvero lento e meritato. La facoltà di correre è giunta relativamente tardi».

In quest’evoluzione, c’è una fase che ancor oggi la affascina più di altre?
«L’apparizione stessa del genere umano, con lo sviluppo del suo encefalo e con la scelta di un’alimentazione a largo spettro che si è rivelata un successo decisivo per le fasi successive».

A proposito del mistero della coscienza, antropologi culturali come René Girard sostengono la centralità della dimensione sacra. Sul campo, a che punto sono giunte le ricerche sulla religiosità primitiva?
«Sappiamo o abbiamo ormai il presentimento, dato che non sono sempre disponibili le prove definitive, che l’homo religiosus coincide con l’uomo in generale. L’essere umano, fin dallo sbocciare della sua umanità, è sensibile al sacro e possiede una dimensione spirituale. Personalmente, sono convinto che non ci sia distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione».

Quali ricerche concrete paiono provarlo?
«Non è semplice sugli esseri più antichi scoprire delle dimostrazioni di questa dimensione religiosa. Ma abbiamo ad esempio degli elementi che provano il trattamento dei morti fin da un milione di anni fa, o ancor prima. All’inizio, questi trattamenti furono forse un po’ rudimentali, ma restano comunque dei trattamenti. Mostrano che l’uomo tratta i suoi morti con un altro occhio, altri sentimenti, rispetto agli animali».

Le recenti celebrazioni di Darwin hanno riacceso lo scontro fra darwinisti puri e duri, per così dire, e neodarwinisti. Scientificamente, resta un dibattito costruttivo?
«Le concezioni di Darwin hanno centocinquant’anni. Da allora, la scienza ha fatto progressi considerevoli. È evidente che la selezione naturale predicata da Darwin resta verificata, ma oggi si riconosce che la parte dovuta al caso è molto inferiore rispetto a quanto Darwin immaginasse. Darwin non conosceva le leggi dell’eredità e tanto meno ciò che oggi chiamiamo epigenetica. In altri termini, l’evoluzione è molto più complessa e diversificata di quanto egli pensasse. L’opera di Darwin resta esemplare e continua ad ispirarci. Ma l’evoluzione come oggi la intendiamo non può più essere definita col nome di darwinismo. Darwinismo ed evoluzione sono ormai due parole ben separate, anche se il darwinismo rappresentò una delle origini della riflessione sull’evoluzione».

Quale le pare oggi la più grande sfida per la conoscenza della preistoria?
«Credo sia proprio una migliore comprensione delle modalità dell’evoluzione. Sappiamo che l’evoluzione è una realtà. Ma non conosciamo tutti i meccanismi che essa utilizza per realizzarsi. La biologia, la genetica e la paleontologia hanno ancora molte ricerche da compiere per approdare a una comprensione collaudata e condivisa».

Nel suo libro in uscita in Italia, lei si sofferma anche sul pensatore e scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin. In che senso, la sua lezione resta attuale?
«Sono molti gli aspetti attuali della sua riflessione. Teilhard fu grande innanzitutto perché seppe ben percepire la continuità della storia dell’universo, della Terra, della vita e dell’uomo. Ma anche perché intuì e anticipò l’evoluzione dell’umanità con le sue odierne reti. Del resto, potremmo benissimo chiamare internet "noosfera". Merita di essere riletto e meglio compreso».

«Avvenire» del 14 settembre 2010

L’erede di Lévi-Strauss spiega che non sono le religioni a creare i conflitti

Aleggere la conferenza tenuta due anni
fa presso il Royal Anthropological Institute
di Londra e che da domani sarà in
libreria tradotta da Jaca Book con il titolo
“Comunità, società, cultura. Tre chiavi per
comprendere le identità in conflitto”, un
po’ ci si preoccupa. Non fosse che l’ha vergata
uno dei più eminenti antropologi del
Novecento, allievo eterodosso di Claude
Lévi-Strauss, quello dello strutturalismo
in antropologia. La Huxley Memorial Lecture
del francese Maurice Godelier, classe
1934, parrebbe un inno di lodi alla supremazia
della sovranità nazionale su ogni altra
forma di organizzazione umana (già in
un volume precedente, “Al fondamento
delle società umane”, Godelier escludeva
che alla base delle società ci fossero i rapporti
“kin based”, ovvero di parentela, la
famiglia, insomma, bensì il nesso sacro-politica).
Pensato come una difesa del futuro
dell’antropologia come disciplina – “L’antropologia
è una disciplina indispensabile
per capire un po’ meglio il mondo globalizzato
nel quale viviamo e continuiamo a vivere”
– il breve contributo di Godelier parte,
inutile dirlo, da una tribù, la sua, cioè
quella che ha studiato per oltre vent’anni.
Quella dei Baruya di Papua, Nuova Guinea.
Ma arriva, nelle ultime pagine, a utilizzare
le conclusioni ottenute per analizzare
la situazione di ebrei e palestinesi,
della Wahhabiya jihadista e persino delle
Chinatown.
La domanda che Godelier si pone è:
“Come si formano le società?”. Quella che
gli abbiamo posto noi è che cosa abbia di
innovativo da dire la sua indagine rispetto
ai conflitti – religiosi, culturali, politici –
che tra le società oggi appunto sembrano
nascere. Secondo Godelier, l’equivoco è di
fondo: “Sempre più spesso si confondono
società e comunità. Ma i due concetti rimandano
a realtà storiche e sociali differenti.
Gli ebrei della diaspora che vivono
a Londra, New York o Parigi formano comunità
all’interno delle società. E coesistono
con altre comunità, turche, pakistane,
musulmane, che hanno ciascuna stile
di vita e tradizioni. Al contrario gli ebrei
della diaspora che sono in Israele vivono
in una società che hanno fatto nascere e
che è rappresentata da uno stato di cui vogliono
vedere riconosciuti i confini. Il criterio
fondante della società è la sovranità
su un territorio. La società italiana, allo
stesso modo, è fatta di cattolici e non cattolici.
In Francia la comunità musulmana
è costituita da sei milioni di persone, ma
rimane una comunità, non una società, su
cui vigila e controlla la sovranità nazionale.
Magari saranno maltrattati, magari non
sarà permesso il burqa, ma se vorranno ottenere
questo progresso dovranno cercarlo
fuori dalla religione”.
Ma se le religioni per loro natura, diciamo
così, formano “soltanto” delle comunità,
come può risolversi il conflitto tra
identità nazionale e identità religiosa in
un individuo, quando i valori della società
e quelli della comunità non coincidessero?
Secondo Godelier, la contraddizione è
normale, un processo naturale, un costituente
del dinamismo delle società che si
pongono in contrapposizione fisiologica
con la visione dogmatica delle istituzioni
religiose: “Importante è che la religione
non venga strumentalizzata o ne venga dimenticata
l’importanza per i fedeli” prosegue
Godelier. “In Egitto per esempio le élite
al potere hanno dimenticato che per le
masse la religione è importante. Ma una
volta che se ne sono accorti, hanno cominciato
a manipolare politicamente l’islam”.
I conflitti, secondo Godelier, non nascono
dalla fede, ma dalla concretezza delle
comunità. Per chi crede, di fronte a un conflitto
la soluzione è semplice: “Prendiamo
i cattolici. Il problema dello scandalo dato
dalla presenza di preti pedofili è risibile.
Quel che conta è riformare prima possibile
il rapporto che esiste tra gli adulti che
guidano i giovani e gli allievi e impedire
che si abusi, per qualsiasi motivo, della
propria autorità. Per il resto, oggi è permesso
a un cattolico criticare la propria
chiesa. Il cristiano per dirsi cristiano deve
possedere spirito critico”. Godelier terminò
la sua esperienza tra i Baruya nel
1988. Ventidue anni dopo, quella società è
composta quasi interamente da cristiani,
anche se di cinque sette protestanti diverse,
e anche se alcuni di loro hanno già fatto
parte di tre sette differenti nel corso della
loro vita. Quando l’antropologo chiese
loro perché si facevano battezzare, risposero:
“Per essere uomini e donne nuovi”.

Stefania Vitulli

© Copyright Il Foglio 5 maggio 2010

Quell'abbraccio inconcepibile Per lo psicanalista Binasco dietro l’attacco alla Chiesa c’è l’incapacità di comprendere il sacerdote e l'uomo

Laura Borselli

Per lo psicanalista Binasco dietro l’attacco alla Chiesa c’è l’incapacità di comprendere il sacerdote e, al fondo, «l’uomo stesso come rapporto con qualcosa che va al di là dei suoi antecedenti sociali e biologici»

Ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della Chiesa? Il sottotitolo del bel libro di don Massimo Camisasca (Padre, San Paolo, 215 pagine, 16 euro), corre come un brivido lungo la schiena quando su una prima pagina dopo l’altra si rincorrono accuse, rivelazioni vere o presunte di casi di pedofilia imputabili a sacerdoti. Stigmatizzazione di silenzi, imprudenti quando non colpevoli, di vescovi ed alti prelati. Nell’accorata lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda Benedetto XVI ha parlato di «sgomento», di un «senso di tradimento» che il pontefice non appena comprende, ma condivide col suo gregge offeso da pastori che hanno «violato la santità del sacramento». Non basta, tuonano voci come quella del teologo svizzero Hans Küng, doveva esserci un “mea culpa”, un azzeramento dei vertici della Chiesa e, richiesta immancabile nel pensiero dell’ex compagno di studi di Joseph Ratzinger, la riconsiderazione del celibato sacerdotale. Prima un “tonacapulitismo” in grande stile, poi la riscrittura delle regole del gioco. «A parte il fatto che non ci sono dati che ci portino a dire che far sposare i preti sarebbe una soluzione, l’obiezione è anche di tipo logico. Non siamo sempre lì a dire che nella nostra civiltà il matrimonio è in crisi? E allora che senso ha proporre come rimedio una realtà antropologicamente in crisi?». Una provocazione, quella di Mario Binasco, psicanalista e docente di psicopatologia dei legami famigliari presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, che non tralascia di spalancare una prospettiva più ampia rispetto alla tormenta che mentre travolge la Chiesa dice qualcosa su di essa, sulla figura del sacerdote, sulla società.
«Quando si vuol distruggere la religione – ha scritto il curato d’Ars – si comincia con l’attaccare il sacerdote, perché là dove non c’è più il sacerdote, non c’è più sacrificio né religione». Parole che suonano quanto mai profetiche quando, parallela alla richiesta di giustizia e di “pulizia”, sembra emergere una incomprensione profonda: quella per la figura del prete. «Sicuramente – riprende Mario Binasco – al fondo del doloroso attacco che stiamo vivendo c’è un’incomprensione per la figura del sacerdote, ma ancora più al fondo per quell’essere impossibile e in-comprensibile dalla mentalità umana che è l’uomo stesso. Paradossalmente l’epoca dell’individualismo è quella che meno conosce l’uomo. Si mutila la realtà dell’essere umano, volendo sapere di essa soltanto ciò che è compatibile con l’ideologia della società democratica, per esempio i diritti. Il fatto che l’essere umano sia qualcosa che trascende questi elementi è una cosa che non deve più interessare. Ecco allora che quei luoghi di esperienza, che ancora esistono, in cui necessariamente emerge il rapporto dell’uomo con qualcosa che è al di là dei suoi antecedenti sociali e biologici diventano incomprensibili. E la Chiesa è a tutti gli effetti uno di questi luoghi. Un altro è la famiglia, e un altro ancora è la cura psicoanalitica». Non è un caso che il passaggio più alto e anche più contestato della lettera del Papa ai cattolici d’Irlanda sia quello rivolto ai religiosi colpevoli degli abusi: «Riconoscete apertamente la vostra colpa, sottomettetevi alle esigenze della giustizia, ma non disperate della misericordia di Dio». Per i sacerdoti, così come per tutti gli uomini, la Chiesa non rinuncia al ruolo appassionato di madre.

Una pretesa pazzesca
Una pretesa “scandalosa”, anche quando si accompagna a una richiesta di purificazione, perché non mette in discussione la figura del sacerdote. Colui che, ha detto Benedetto XVI nell’udienza del mercoledì della scorsa settimana, trae la sua «forza profetica nel non essere mai omologato né omologabile, ad alcuna cultura o mentalità dominante, ma nel mostrare l’unica novità capace di operare un autentico e profondo rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è il Vivente, è il Dio vicino, il Dio che opera nella vita e per la vita del mondo e ci dona la verità, il modo di vivere».
Non stupisce che oggi osservati speciali siano i seminari. La prova di purificazione che Dio fa vivere alla Chiesa la spinge anche a guardare dentro i cammini educativi che conducono al sacerdozio e che, evidentemente, hanno rivelato in tanti casi un’inadeguatezza nell’affronto di problemi relativi alla maturità affettiva. Quella dimensione che da un educatore come don Massimo Camisasca, superiore della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo, è indicata come una componente fondamentale della vita del sacerdote. Una tradizione sapiente e antica ci fa chiamare “padre” il sacerdote, a indicare la chiamata del prete a una paternità spirituale verso il suo popolo, ma a sua volta nessuno può essere padre se non ha un padre. Scrive Camisasca: «È necessario che i vescovi tornino a vivere con i seminaristi o dedichino loro almeno una parte importante del loro tempo, che scelgano di vivere la vita comune con alcuni preti, come hanno fatto grandi vescovi del passato. Penso a sant’Agostino o a san Carlo Borromeo. La divaricazione tra la figura del padre e quella dell’autorità è stata ed è un danno per la Chiesa». Paternità, amicizia, rapporto umano. È lecito domandarsi se per queste dimensioni centrali nell’azione pastorale del sacerdote, nonché nella sua vocazione, ci sarà spazio in un futuro in cui in nome di cautele e sospetti una carezza potrebbe far gridare all’abuso. Lo spettro è quello di uno scivolone sessuofobo, un obolo pagato a una mentalità quasi “manipulitista” che in tutto ciò che è rapporto e coinvolgimento vede qualcosa di sospetto. Come se il cristianesimo potesse essere un contratto e non un incontro e un rapporto continuo, come quel legame solido e amoroso che l’Antico Testamento tratteggia con incredibile passione tra Dio e il popolo di Israele. «Io ti ho amato di amore eterno/ per questo ti conservo ancora pietà» (Geremia, 31).
Ma per lo psicanalista Binasco lo scandalo che la Chiesa sta vivendo e gli attacchi a cui è sottoposta dicono molto anche della concezione dell’affettività e della sessualità di cui la nostra società è imbevuta. «Tutti dicono che la pedofilia è un orrore, ma nessuno osa domandarsi perché lo è. E nessuno se lo domanda perché per affermare ragionevolmente che c’è qualcosa di male nella pedofilia bisognerebbe porsi una domanda seria sulla sessualità nell’insieme del problema umano. Prendere atto che i legami tra le persone non tengono se sono solo di uso e consumo».
Quando tutti gli sforzi sono improntati a separare agape ed eros e a fare della sessualità qualcosa di «piacevole e innocuo», come ha scritto papa Ratzinger nell’enciclica Deus Caritas Est, si crea una sorta di cortocircuito. «Oggi – riprende Binasco – viviamo una grande confusione rispetto all’amore che comincia con un’accezione perversa del desiderio. Esso viene “misurato”, cioè identificato con l’oggetto che apparentemente lo suscita, come nella pubblicità. Va da sé allora che quei desideri per cui non si può indicare un oggetto di godimento, non si può mostrare il prodotto non sono “commerciabili”. Per cui tutto ciò che attiene all’amore e al legame tra le persone diventa “non parlabile”. Questo ha modificato anche il concetto di pudore: del sesso tutto si vede e si deve vedere, c’è una spinta folle a scoprire. Invece ad essere diventato materia di vergogna e di pudore sono i sentimenti di tipo amoroso. Per questo quando sento dire che la Chiesa per aprirsi al mondo deve “rivalutare la sessualità” resto interdetto: perché per il mondo di oggi la sessualità è il problema stesso di cui viene venduta come soluzione».

Una logica incomprensibile
In questa concezione a restare censurato è proprio ciò che nella prima enciclica del suo pontificato Benedetto XVI andava scrivendo: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Come ha ribadito papa Ratzinger nell’omelia pronunciata giovedì scorso, nella Messa celebrata in Vaticano con i membri della Pontificia commissione biblica, è questo “nuovo orizzonte” – questa “vita” che nasce da un incontro umano, non da un consenso politico o da una dottrina “aggiornata coi tempi” – il vero obbiettivo della «sottile aggressione contro la Chiesa, o anche meno sottile». Ma è proprio «sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati», ha aggiunto il Papa, che «noi vediamo che poter far penitenza è grazia, è rinnovamento, è opera della misericordia divina».
Ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della Chiesa? Sì, se Dio vuole, risponde la logica petrina. Poiché, ha osservato il Papa, se «le dittature sono state sempre contro questa obbedienza a Dio», se «esistono forme sottili di dittature, un conformismo, per cui diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti», sotto tutte le dittature e dentro ogni conformismo, l’esistenza stessa di uomini che continuano ad abbracciare il celibato e la vita sacerdotale rimane il richiamo più normale e radicale a riconoscere Dio. Che «è sempre l’atto della liberazione nel quale arriva la libertà di Cristo a noi».

Augé: «Società mobili ma senza spirito»

Il sociologo e antropologo francese Marc Augé
DI
LEONARDO SERVADIO
C
iò che è globale è la parte 'interna' del sistema mondiale dell’economia e della comunicazione, quel che invece è locale ne costituisce la parte 'esterna'. Di questa specie di rovesciamento della prospettiva del senso comune sarebbe responsabile il Pentagono e ne riferisce, con occhio critico, Marc Augé in un recente volume ( Per una antropologia della mobilità, Jaca Book, pagine 96, euro 12). La stanzialità sarebbe, quindi, una sorta di condizione di marginalità a fronte della nuova centralità del moto continuo: il 'jet set', un tempo piccola élite di 'vip' sarebbe ormai elevato al rango di un sistema mai visto prima nella storia. Siamo di fronte a un nuovo nomadismo? Augé, sociologo di lungo corso che si è fatto le ossa nell’Africa nera prima di balzare sul proscenio mondiale grazie al suo concetto di 'non luogo' (la sua efficace denuncia del radicale cambiamento che il 'mercato globale' sta infliggendo alla città contemporanea), risponde da Parigi: «Il nomadismo originario derivava dalla necessità di spostarsi, di solito su base stagionale, alla ricerca di mezzi di sostentamento. Ora il fenomeno è totalmente diverso: la mobilità geografica è attivata dal turismo o dai flussi degli affari. Non ha un assetto definitivo ed è cangiante; non porta a trasferimenti definitivi... C’è anche il flusso migratorio dai paesi poveri verso quelli ricchi, ma accanto a questo c’è l’influsso delle televisioni, che tendono a offrire paesi lontani come immagini rilucenti servite su un cabaret di facile appetibilità».
Eppure anche nel Medioevo, epoca che si tenderebbe a considerare 'statica', c’era molto movimento: i costruttori di cattedrali si spostavano in tutta Europa, le rotte commerciali erano attive, le vie di pellegrinaggio trafficate...

«Ma vi sono grandi differenze negli atteggiamenti. Certo i costruttori di cattedrali si spostavano molto, come oggi i grandi architetti: ma questi si muovono secondo una tendenza omologante, dagli Stati Uniti alla Cina. E quanto al pellegrinaggio, oggi c’è il fenomeno del turismo, motivato spesso dalla curiosità: le persone hanno già visto in televisione quel che desiderano visitare e si recano sul posto solo per confermarsi nelle aspettative.
Da una parte, il mondo è un’immensa città in cui ovunque lavorano i medesimi architetti e si
trovano le stesse imprese commerciali e gli stessi prodotti, dall’altra si ritrovano le stesse contraddizioni e gli stessi conflitti comuni a tutto il pianeta: le conseguenze del crescente divario tra i più ricchi tra i ricchi e i più poveri tra i poveri».
Crescenti divergenze da un lato, appiattimento culturale dall’altro...

«Accanto alla globalizzazione va formandosi un nuovo tipo di dominio. Si pensi solo a come in alcune megalopoli sorgono
quartieri privati, chiusi e protetti, dove è garantita pace e sicurezza: ma solo a chi può pagarsela. La città globale porta a una crisi della comunità: si scopre decentrata; la casa stessa è decentrata, col computer e la televisione che sostituiscono il caminetto e rimandano a una comunicazione globale in cui però resta in ombra il contatto e il dialogo col prossimo. Il pericolo, insito in questa idea di universalismo che si sta imponendo, è che porti all’omologazione delle culture, che invece nella loro autenticità originaria sono tutte diverse seppure simili. Sì è fatta strada l’idea di una tolleranza diffusa, ma spesso questa nasconde proprio il crescere delle disparità».
Ma la risposta a tutti questi nuovi problemi, non può che essere culturale.

«Bisogna imparare a spostarsi nel tempo, non solo nello spazio: imparare la storia significa educare lo sguardo sul presente, fortificarlo, renderlo meno ingenuo o meno credulo, renderlo libero. In ogni vera democrazia la mobilità dello spirito dovrebbe essere l’ideale assoluto. Bisogna imparare a uscire da sé, dal proprio ambiente, dalla propria tana culturale e promuovere l’essere transculturale che, interessandosi a tutte le culture, non si aliena da alcuna di esse. È giunto il tempo di una nuova mobilità planetaria e di una nuova utopia dell’educazione. Ma siamo solo all’inizio di questa nuova storia che sarà lunga e, come sempre dolorosa».

Ma perché dolorosa?

«Mi colpisce il crescere delle diseguaglianze: le differenze tra ricchezza e povertà, cui si associa spesso ancora l’analfabetismo, sono eccessive, mentre nei paesi sviluppati ha preso forma una vasta aristocrazia planetaria. Tutti ritengono che vi sia una connessione diretta tra democrazia e mercato liberale; ma mi sembra chiaro che non sempre v’è un legame tra quella democrazia e la rappresentatività. La società planetaria si è stratificata su tre livelli: quello dell’aristocrazia economica e del sapere legata al governo della città globale; quello del consumatore passivo di economia e di cultura; e quello di tutti gli emarginati, sia sul piano economico, sia su quello culturale. Questa situazione, a lungo andare, può diventare fonte di violenza: quella che già spesso vediamo all’interno delle città e che, nelle forme organizzate del qaedismo, utilizza proprio gli strumenti stessi della globalizzazione».

Dove sta dunque la speranza di progredire?

«Nel diffondersi della scienza e della coscienza di noi stessi. Ma questa va acquisita e disseminata con pazienza e secondo un ritmo consono alle possibilità di apprendimento: un passo alla volta. Senza forzature, senza salti, senza la frettolosità che sembra caratterizzare il vivere contemporaneo».


© Copyright Avvenire 28 aprile 2010

IL CONTROLLO CHIMICO SUL CORPO FEMMINILE. Una compressa per ogni stagione della vita

In un illuminante articolo uscito su Repubblica nel febbraio del 1991, a firma del giornalista scientifico Giovanni Maria Pace, si celebravano trionfalmente i venticinque anni della pillola che aveva cambiato il mondo, definita “l’anticoncezionale più affidabile e meno invasivo, il piccolo gesto quotidiano che ha dato leggerezza alla sessualità e ordine alla procreazione”. Solo luci e nessuna ombra (“la donna può tranquillamente prendere la pillola dai quindici ai quarantacinque anni”), nella certezza che Pincus era stato solo il battistrada di una tendenza che lo stesso autore dell’articolo sintetizzava efficacemente così: per ogni donna, c’è “una pillola, dal menarca alla tomba”. Dalla pillola anticoncezionale durante l’età feconda fino alla pillola per la terapia ormonale sostitutiva nella terza età (ora affiancata, da qualche anno, dalla pillola che sollecita il desiderio sessuale “anche per lei”) la donna moderna può contare su “una pillola per ogni stagione”. Anzi, “la pillola getta un ponte tra le varie stagioni della vita, livellando la distanza tra donna fertile e donna in menopausa”. Anche il luminare delle ginecologia citato da Giovanni Maria Pace, aveva in proposito idee molto chiare: “In realtà, ovulare continuamente senza necessità, come accade alle donne avviate al Duemila, non è meno anomalo del trattamento ormonale”.

La donna, insomma, è ontologicamente e decisamente antiquata, con quella noiosa ovulazione mensile, relitto di chissà quale stato ferino e spada di Damocle continua. Bisognava, bisogna modernizzarsi a forza di pillole, per stare al passo con i tempi. Non essere feconda quando lo si è e sembrarlo quando non lo si è più.
Non c’è molto da ridere, anche se verrebbe voglia. Solo poche settimane fa, la Società italiana di ginecologia e ostetricia ha fatto sapere che secondo uno “studio americano sono le magre (con un indice di massa corporea fra 15 e 25) a preferire i contraccettivi ormonali, i più sicuri in assoluto”. Più pillole si prendono, più magre, sane, più belle e più “moderne” si è, insomma.
Questa valenza di “normalizzazione” del femminile fecondo, del suo controllo chimico, dell’addomesticamento dei corpi di donna trasformati in corpi che non procreano, sul modello maschile, non è mai sfuggita alla critica del movimento femminista, o almeno alle sue componenti meno influenzate dal vecchio emancipazionismo, preso dal suo ideale di donna “libera proprio come un uomo”. A questa immagine – bisognosa delle pillole che promettono potere totale sulla capacità procreativa e sul desiderio sessuale (compresa la pillola abortiva Ru486, la pillola del giorno dopo e l’ultima arrivata, quella dei cinque giorni dopo) – il femminismo della differenza ha saputo invece opporre una visione tutt’altro che entusiasta. E’ proprio da quel femminismo che arrivano le critiche più forti alla medicalizzazione della vita sessuale delle donne (così come, più tardi, arriveranno anche le più forti opposizioni all’aborto con le prostaglandine, considerato “unsafe”, e al suo derivato perfezionato, la Ru486), anche quando continua a essere valorizzato l’aspetto della sessualità separata dalla procreazione.
Non c’è solo l’antesignana del femminismo italiano, Carla Lonzi, che nel suo anatema assoluto contro il patriarcato pure afferma che “col controllo delle nascite le donne, che prima hanno visto svalutata la loro sessualità, vedono svalutata anche la maternità”. La pillola anticoncezionale, per usare le parole della femminista e storica del corpo Barbara Duden, per molte era ed è “un prodotto ingerito ogni giorno, non per prevenire la rinite autunnale, ma per bloccare un intero processo, l’ovulazione, un processo che soltanto da poco, cioè dal 1923, era stato verificato empiricamente” (“I geni in testa, il feto nel grembo”, Bollati Boringhieri). La Duden si chiede se la pillola non sia altro che uno “strumento di automutilazione”. Scegliendola, la donna impartisce “un ordine chimico al proprio corpo”. Un ordine che, a torto, si ritiene facilmente reversibile. Da quell’ordine “normalizzante” in realtà la donna è cambiata nel profondo, nel suo modo di essere e di interagire. Non è affatto liberata ma “decorporeizzata”. Per questo è il caso di riflettere, dice Duden, fuori da ogni sospetto di condanna morale, sul “contesto di questo ‘meccanismo di controllo’ chimico della donna, che sta diventando routine anche in menopausa e oltre”. Un contesto nel quale la biografia femminile rischia “di diventare il protocollo di una gestione di sé completamente affidata alla chimica: la donna gira l’interruttore della procreazione su ‘off’ e poi cerca di rimetterlo temporaneamente su ‘on’, sempre che ci riesca. E già a quarant’anni passa alla pillola ormonale per prevenire non il concepimento, ma l’osteoporosi o l’Alzheimer”. Duden invita quindi le donne a “imparare a decifrare la logica simbolica che hanno ingollato insieme con la pillola”. A darle ragione, le paradossali cifre dei “fallimenti contraccettivi” nei paesi, come la Francia, dove al diffusissimo impiego di anticoncezionali orali (anche le adolescenti possono farseli prescivere dal ginecologo senza autorizzazione dei genitori) corrisponde, da vent’anni a questa parte, lo stesso, inamovibile e altissimo numero di aborti.

Nicoletta Tiliacos



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LA SCIENZA HA ALTERATO L`IDENTITA` DELLA DONNA

Francesco D`Agostino
Ordinario di Filosofia del diritto
Università Tor Vergata
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La procreazione da destino (o natura) a libera scelta
LA SCIENZA HA ALTERATO
L`IDENTITA` DELLA DONNA
La “rivoluzione della pillola”: l’espressione non è né felice, né precisa, ma indubbiamente coglie nel segno; induce a pensare che è successo qualcosa, un qualcosa di assolutamente rilevante e di assolutamente irreversibile (come sempre avviene, quando le rivoluzioni sono autentiche). La pillola anticoncezionale ha permesso alle donne che lo volessero di separare definitivamente sessualità e riproduzione o, se così si vuol dire, di vivere la loro sessualità esattamente come gli uomini. Una vera rivoluzione insomma, una vera rivoluzione antropologica.
Il merito (o la colpa) è da attribuire alla scienza, che dopo aver alterato irrimediabilmente il contesto demografico (con la vittoria sulle grandi malattie infettive ed epidemiche), il contesto delle comunicazioni (con l’invenzione dei mezzi di comunicazione di massa), il contesto geopolitico (con l’invenzione delle armi nucleari), con l’invenzione della pillola altera il contesto personalissimo del rapporto delle donne col proprio corpo, come corpo sessuato e fertile, e di conseguenza il contesto della familiarità e della coniugalità, il contesto al quale la donna partecipa assumendo il ruolo materno (cui allude esplicitamente il termine matri-monio) e contestualmente affidando al marito, chiamato ad assumere attraverso il matrimonio il ruolo di padre, la cura socio-economica della famiglia stessa (e del suo patri-monio). Dopo l’avvento della pillola le dinamiche sociali cambiano, cambiano ineluttabilmente: non nella loro materialità (ci si continua a sposare e a fare figli, sia pure tra tante difficoltà, come nel buon tempo antico!), ma nel principio che le governa. Enfaticamente, potremmo dire che per le donne ciò che loro era affidato dal destino (o dalla natura) cioè la funzione procreativa diviene una scelta. Destino e natura si dissolvono: al loro posto resta la volontà, una volontà assolutamente insindacabile.
L’effetto di questa rivoluzione, ci era stato promesso da tanti e tanti nuovi “profeti”, si sarebbe concretizzato in mirabolanti conquiste per l’umanità e per le donne in particolare: emancipazione, nuovi assetti delle relazioni politico-sociali, nuove esperienze di felicità, addirittura più “democrazia”. Che la società umana sia profondamente mutata (che si sia entrati nel “post-moderno”) è evidente, anche perché è sotto gli occhi di tutti. Che ciò che si è realizzato possa essere inquadrato nella cornice del bene dell’umanità è però tutto da dimostrare, a scorno di coloro che sono convinti che la storia marci sempre verso il meglio.
Mettiamo da parte i problemi strettamente morali che pone l’uso della pillola e in genere quello di tutti i metodi anticoncezionali “non naturali”: sono problemi pesanti, perché il bene umano si riverbera anche in atti privati o privatissimi, di nessun impatto “pubblico”, come possono appunto essere i rapporti sessuali coniugali o comunque tra adulti consenzienti. Se possiamo metterli da parte è perché se ne è parlato talmente tanto (anche se, ripeto, a ragione), da offuscare in tanti la percezione del rilievo antropologico, oltre che etico, della contraccezione chimica. Facendo passare, come si è appena detto, da destino a libera scelta la funzione procreativa femminile, la scienza, inventando la “pillola” ha alterato l’identità della donna. Ne è prova la serie di passi, che con profonda coerenza, la scienza ha compiuto e che sono successivi a questo: l’artificializzazione della procreazione (pratica ormai consolidata) e l’artificializzazione della gestazione: una pratica ancora sperimentale, ma in fase di avanzatissima realizzazione e che toglierà alla donna ogni identità propriamente materna, a parte quella della produzione ovocitaria (peraltro anch’essa in via di surrogazione, se avranno successo i tentativi di produrre in laboratorio i gameti a partire non dalle ovaie, ma da cellule adulte). Il passo successivo e conclusivo, dopo questi cui ho accennato, è già stato individuato da tempo: la scomparsa del dimorfismo sessuale, la completa artificializzazione del biologico, la creazione di ibridi uomo/macchina, i cyborg, Nuove forme di esperienza: esaltanti, per chi continui a pensare che la storia marci sempre verso il meglio.
Gli scenari cui sto alludendo hanno tutti una conclusione obbligata: l’identità femminile sta correndo un pericolo mortale, di cui pochi si stanno avvedendo; e, di conseguenza, sta correndo un pericolo mortale anche la stessa identità maschile, in quanto ogni maschio è un nato di donna. In quanto antropologica, la questione, si badi bene, non è principalmente né morale (e meno che mai moralistica), né religioso-confessionale. E’ in gioco il nostro io. Profonde delusioni attendono chi si illude che la nostra identità sia assolutamente e insindacabilmente plasmabile e dimentica il profondo e laicissimo ammonimento di Freud, quando ci ricordava che noi “non siamo padroni in casa nostra”. Il centro del nostro io non è dentro di noi, ma fuori di noi (è in Dio, sostiene la tradizione cristiana, è nella nostra natura, sostengono antichissime tradizioni sapienziali): ignorarlo o negarlo non rafforza la nostra identità, ma la indebolisce e la rende esangue (e la prova sta sotto i nostri occhi, nel carattere esangue che ha assunto nel mondo postmoderno la nostra sessualità: una sessualità sempre più narrata e rappresentata, artificialmente sforzata, vergognosamente e rozzamente esibita, comprata e venduta, e sempre meno personalmente vissuta). Siamo divenuti capaci di manipolare tecnomorficamente noi stessi: non siamo capaci, oggi più di quanto non lo fossimo ieri, di dare a queste manipolazioni un univoco significato umano.

Francesco D`Agostino



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Una rivoluzione antropologica si sta consumando DA PILLOLA A PILLOLA UN CICLO SI CHIUDE. FORSE

Quando un mese fa, nella riunione di redazione, decidemmo di titolare la puntata mensile “E l’uomo creò la pillola”, non potevamo immaginare la bagarre che si sarebbe scatenata, di lì a poco, attorno alla Ru486, la pillola dell’aborto chimico. Sta di fatto che abbiamo colto nel segno. Abbiamo cioè individuato uno dei temi “sensibili” con i quali tanto la società italiana quanto la politica non possono non fare i conti da subito. Per non parlare delle coscienze individuali chiamate a valutare una possibilità nuova messa a disposizione dalla scienza per una delle pratiche umane più antiche, ma anche più cariche di dolore e di sofferenza. Dunque, un percorso pubblico e privato pieno di insidie e di scelte.
La vicenda della Ru486 è a suo modo emblematica perché pone in rilievo tutte le contraddizioni che noi abbiamo voluto mettere in fila e che registrano l’affollarsi di interrogativi, dai quali dipende anche una parte essenziale del futuro di tutti noi. Volendo elencare, solo per titoli, le conseguenze che l’introduzione dell’aborto chimico nel sistema sanitario pubblico reca con sé, dobbiamo ricordare innanzitutto quelle attinenti alla sfera della “salute riproduttiva”, ci sono poi quelle economiche, sociali, relazionali, culturali e politiche. Ultime, non meno importanti, quelle antropologiche ed etiche. Tutto questo troverete negli approfondimenti che arricchiscono la puntata.
A noi, però, preme offrire una chiave di interpretazione generale: con l’aborto chimico si avvia a chiudersi, in Italia, un ciclo storico-culturale-antropologico cominciato molti anni fa, nel lontanissimo 1961. In quell’anno approdò e si diffuse in Italia la pillola anticoncezionale, la pillola delle avanguardie femministe che hanno legato a quella molecola l’affermazione della liberazione della donna. In realtà quella pillola portò con sé il primo grande strappo fra sessualità e procreazione che ha trovato slancio e si è proiettato sino ai nostri giorni guadagnando spazi nella legislazione (pensate alla procreazione medicalmente assistita) e nel dibattito pubblico (fecondazione eterologa, Pma estesa alle coppie gay e ai single, adozione a coppie gay). Come vedete tutto si tiene e affonda le radici in quel primo atto, apparentemente liberatorio, in realtà foriero di profondi cambiamenti socio-culturali. Sull’onda della pillola anticoncezionale l’Italia ha vissuto la stagione del divorzio (1970/74) e poi dell’aborto sino al varo della legge 194 (1978). Fra i cui obiettivi anche quello di portare alla luce i drammi degli aborti (tutti allora clandestini) e di garantire alle donne condizioni di tutela della salute per pratiche che spesso venivano realizzate in condizioni disumane. L’aborto, dunque, sottratto al privato e al nascondimento per essere “tutelato” dallo Stato. E perciò fatto riaffiorare socialmente. Ecco, però, come in un’eterogenesi dei fini, irrompere un’altra pillola, la Ru486 a risospingere l’aborto nel mondo privato delle donne. Si discute, infatti, della possibilità di favorire l’assunzione della pillola in regime di day hospital. In tal caso, le donne potranno tornare a casa per consumare, in solitudine, il dramma dell’aborto.
Sorpresa: chi sostiene questa soluzione? Sì, sono sempre loro: quelli che hanno sponsorizzato la pillola anticoncezionale, la scissione fra sessualità e procreazione, hanno alimentato il mito dell’aborto come frontiera della libera scelta individuale, hanno trascurato la parte preventiva della legge 194 perché interessava solo far abortire. E oggi, stanchi di praticare aborti, se la sbrigano così: la donna venga in ambulatorio, prenda una pilloletta e vada ad abortire da sola a casa.
Irresponsabili? No, semplicemente cinici. E cultori dell’autodeterminazione assoluta che lascia la donna, nel caso dell’aborto, sola davanti alla consumazione del proprio dramma. Così come vorrebbero che fossero soli, gli uomini e le donne del nostro tempo, dinanzi alla scelta di morire mediante l’eutanasia.
Dalla pillola anticoncezionale alla Ru486 sono passati cinquant’anni. Forse davvero un ciclo si è chiuso. Forse faranno fatica a spingersi più in là. Cos’altro potranno inventarsi sul fronte della “salute riproduttiva” e della vita nascente? Sin dove potranno e vorranno spingersi nella loro ricerca della “leggerezza” che sconfina nel cinismo? Il mondo in una pillola? No, grazie.

Domenico Delle Foglie



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Identità di genere, l’Europa sbanda: adozioni, unioni omosessuali, procreazione assistita, propaganda nelle scuole. di Pier Luigi Fornari

Dal Consiglio documento “pro gender”
Un primato mondiale nel campo del diritto sarebbe stato conse­guito, secondo il segretario ge­nerale del Consiglio d’Europa (Coe), Thorbjørn Jagland, da una raccomanda­zione approvata una settimana fa dal co­mitato dei ministri di Strasburgo. Quel documento introduce la 'novità' giuri­dica dell’identità di genere per sollecita­re misure volte a combattere discrimi­nazioni fondate su di esso e sull’orienta­mento sessuale. Nel Trattato di Lisbona della Unione europea (che raccoglie 27 Stati contro i 47 del Coe), firmato il 3 di­cembre del 2007, ed in vigore del primo gennaio 2009, il contrasto delle discri­minazioni non è mai infatti riferito alla «i­dentità genere», ma solo al «sesso» e all’«orientamento sessuale». La nuova denominazione ( gender in inglese) è l’ul­tima invenzione del movimento Lgbt (Le­sbiche, gay, bisessuali, transessuali) che esprime l’ideologia secondo cui il sesso è oggetto di assoluta autodeterminazio­ne, indipendentemente dalla differenza sessuale radicata nella biologia e nella ci­viltà.
La raccomandazione è stata varata il 31 marzo dai rappresentanti di­plomatici dei responsa­bili degli Esteri dei 47 sta­ti membri, ma a loro co­munque il Coe conferi­sce lo stesso potere deci­sionale dei ministri. Si tratta di un testo che smussa alcuni angoli della risoluzione sullo stesso argomento del ca­pogruppo socialista nel­l’assemblea parlamenta­re del Coe, lo svizzero An­dreas Gross, che sarà vo­tata nell’emiciclo del Pa­lazzo d’Europa nella sessione che si terrà dal 26 al 30 aprile.
Nel caso del cosiddetto hate speech cioè «discorsi di incitamento all’odio», la rac­comandazione chiede misure appro­priate di contrasto, ma sottolinea che co­munque dovrà essere rispettato «il dirit­to fondamentale alla libertà di espres­sione ». Nel sollecitare la informazione pro Lgbt nei programmi scolastici e nei «materiali pedagogici», si riconosce che queste misure dovranno tener conto dei diritti dei genitori nell’educazione dei lo­ro figli. Tuttavia oltre a ribadire il fonda­mentale principio giuridico della dignità e del rispetto dovuto a qualsiasi perso­na, qualunque siano le sue scelte (prin­cipio, però, che può essere rispettato con gli strumenti di diritto già esistenti), il do­cumento appare attivare numerosi slip­pery slope (piani inclinati) che non pro­mettono nulla di buono per il vecchio Continente. Sempre a riguardo dei co­siddetti «reati» di incitamento all’odio, ad esempio, si sostiene che gli Sta­ti membri dovranno assicurarsi che le vittime e i testimoni «siano incoraggiati a denunciarli», per cui le istituzioni pubbliche do­vranno prendere tutte le misure necessarie per sorvegliare sul fat­to che le strutture repressive, ivi compreso il sistema giudiziario, dispongano di conoscenze e competenze a­deguate. Inoltre le asserzioni che secondo il movi­mento omoses­suale incitano al­la discriminazio­ne, non possono essere giustifica­te né con «valori tradizionali» né con quelli «reli­giosi ». A proposito di 'piani inclinati', il testo passa dal­la richiesta del ri­conoscimento giuridico inte­grale del cambiamento di sesso al diritto di sposare una persona di sesso opposto alla identità che ci si è voluti pro­curare. Dalla adozione dei single si slitta a quella degli omosessuali, in nome del principio di non discriminazione. Per a­prire la strada, forse, come avviene nel documento di Gross, alla possibilità del partner gay di partecipare a tale adozio­ne. In nome del «superiore interesse» del bambino si arriva poi a sollecitare il do­vere di prendere in considerazione le coppie omosessuali in materia di re­sponsabilità parentali. Stessa logica per la procreazione medicalmente assistita. Per raggiungere gli obiettivi perseguiti si sollecitano anche, quando ritenuto «ap­propriato », sanzioni e obblighi di risarci­menti. Alle istituzioni pubbliche si chie­de anche una sorta di arbitrato a favore del movimento gay nel confronto con or­ganizzazioni di vario tipo (anche comu­nità religiose) ed «azioni positive» a fa­vore del movimento Lgbt.


«Avvenire» del 9 aprile 2010

«Gender» e rapporto uomo-donna: femminismo o «reciprocità asimmetrica»?

«Gender» e rapporto uomo-donna: femminismo o «reciprocità asimmetrica»? (P. Vanzan S.I.)

Antropologia cristiana: Uomo e donna parità e alterità


Antropologia uniduale e relazionale (A. Danese)


Discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al Convegno "Donna e uomo": dove il Cristianesimo non penetra, si disprezzano le donne.

CITTA' DEL VATICANO, domenica, 10 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo sabato da Benedetto XVI ricevendo in udienza i partecipanti al Convegno Internazionale "Donna e uomo, l'humanum nella sua interezza", promosso dal Pontificio Consiglio per i Laici nel XX anniversario della pubblicazione della Lettera Apostolica Mulieris dignitatem.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

Con vero piacere accolgo e saluto tutti voi, che prendete parte al Convegno internazionale sul tema: "Donna e uomo, l'humanum nella sua interezza", organizzato in occasione del XX anniversario della pubblicazione della Lettera apostolica Mulieris dignitatem. Saluto il Signor Cardinale Stanisław Ryłko, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, e gli sono grato per essersi fatto interprete dei comuni sentimenti. Saluto il Segretario, Mons. Josef Clemens, i membri e i collaboratori del Dicastero. In particolare, saluto le donne, che sono la grande maggioranza dei presenti, e che hanno arricchito con la loro esperienza e competenza i lavori congressuali.

L'argomento sul quale state riflettendo è di grande attualità: dalla seconda metà del XX secolo sino ad oggi, il movimento di valorizzazione della donna nelle varie istanze della vita sociale ha suscitato innumerevoli riflessioni e dibattiti, ed ha visto il moltiplicarsi di tante iniziative che la Chiesa Cattolica ha seguito e spesso accompagnato con attento interesse. Il rapporto uomo-donna nella rispettiva specificità, reciprocità e complementarità costituisce senz'altro un punto centrale della "questione antropologica", così decisiva nella cultura contemporanea. Numerosi gli interventi e i documenti pontifici che hanno toccato la realtà emergente della questione femminile. Mi limito a ricordare quelli dell'amato mio predecessore Giovanni Paolo II, il quale, nel giugno del 1995, volle scrivere una Lettera alle donne, mentre il 15 agosto del 1988, esattamente venti anni or sono, pubblicò la Lettera apostolica Mulieris dignitatem. Questo testo sulla vocazione e dignità della donna, di grande ricchezza teologica, spirituale e culturale, a sua volta ha ispirato la Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Nella Mulieris dignitatem, Giovanni Paolo II ha voluto approfondire le verità antropologiche fondamentali dell'uomo e della donna, l'uguaglianza in dignità e l'unità dei due, la radicata e profonda diversità tra il maschile e il femminile e la loro vocazione alla reciprocità e alla complementarità, alla collaborazione e alla comunione (cfr n. 6). Questa unità-duale dell'uomo e della donna si basa sul fondamento della dignità di ogni persona, creata a immagine e somiglianza di Dio, il quale "maschio e femmina li creò" (Gn 1,27), evitando tanto una uniformità indistinta e una uguaglianza appiattita e impoverente quanto una differenza abissale e conflittuale (cfr Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 8). Questa unità duale porta con sé, iscritta nei corpi e nelle anime, la relazione con l'altro, l'amore per l'altro, la comunione inter-personale che indica "che nella creazione dell'uomo è stata iscritta anche una certa somiglianza della comunione divina" (n. 7). Quando, pertanto, l'uomo o la donna pretendono di essere autonomi e totalmente auto-sufficienti, rischiano di restare rinchiusi in un'auto-realizzazione che considera come conquista di libertà il superamento di ogni vincolo naturale, sociale o religioso, ma che di fatto li riduce a una solitudine opprimente. Per favorire e sostenere la reale promozione della donna e dell'uomo non si può non tener conto di questa realtà.

Occorre certamente una rinnovata ricerca antropologica che, sulla base della grande tradizione cristiana, incorpori i nuovi progressi della scienza e il dato delle odierne sensibilità culturali, contribuendo in tal modo ad approfondire non solo l'identità femminile ma anche quella maschile, essa pure oggetto non raramente di riflessioni parziali e ideologiche. Di fronte a correnti culturali e politiche che cercano di eliminare, o almeno di offuscare e confondere, le differenze sessuali iscritte nella natura umana considerandole una costruzione culturale, è necessario richiamare il disegno di Dio che ha creato l'essere umano maschio e femmina, con un'unità e allo stesso tempo una differenza originaria e complementare. La natura umana e la dimensione culturale si integrano in un processo ampio e complesso che costituisce la formazione della propria identità, dove entrambe le dimensioni, quella femminile e quella maschile, si corrispondono e si completano.

Aprendo i lavori della V Conferenza Generale dell'Episcopato Latino-Americano e dei Caraibi, nel maggio dello scorso anno in Brasile, ho avuto modo di ricordare come persista ancora una mentalità maschilista, che ignora la novità del cristianesimo, il quale riconosce e proclama l'uguale dignità e responsabilità della donna rispetto all'uomo. Ci sono luoghi e culture dove la donna viene discriminata o sottovalutata per il solo fatto di essere donna, dove si fa ricorso persino ad argomenti religiosi e a pressioni familiari, sociali e culturali per sostenere la disparità dei sessi, dove si consumano atti di violenza nei confronti della donna rendendola oggetto di maltrattamenti e di sfruttamento nella pubblicità e nell'industria del consumo e del divertimento. Dinanzi a fenomeni così gravi e persistenti ancor più urgente appare l'impegno dei cristiani perché diventino dovunque promotori di una cultura che riconosca alla donna, nel diritto e nella realtà dei fatti, la dignità che le compete.

Dio affida alla donna e all'uomo, secondo le proprie peculiarità, una specifica vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo. Penso qui alla famiglia, comunità di amore aperto alla vita, cellula fondamentale della società. In essa la donna e l'uomo, grazie al dono della maternità e della paternità, svolgono insieme un ruolo insostituibile nei confronti della vita. Sin dal loro concepimento i figli hanno il diritto di poter contare sul padre e sulla madre che si prendano cura di loro e li accompagnino nella loro crescita. Lo Stato, da parte sua, deve appoggiare con adeguate politiche sociali tutto ciò che promuove la stabilità e l'unità del matrimonio, la dignità e la responsabilità dei coniugi, il loro diritto e compito insostituibile di educatori dei figli. Inoltre, è necessario che anche alla donna sia reso possibile collaborare alla costruzione della società, valorizzando il suo tipico "genio femminile".

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio ancora una volta per questa vostra visita e, mentre auspico pieno successo ai lavori del Convegno, vi assicuro un ricordo nella preghiera, invocando la materna intercessione di Maria, perché aiuti le donne del nostro tempo a realizzare la loro vocazione e la loro missione nella comunità ecclesiale e civile. Con tali voti, imparto a voi qui presenti e alle persone a voi care una speciale Benedizione Apostolica.

[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]

Non siamo parenti di gorilla e scimpanzé: invalidata la teoria. Rinvenuto in Etiopia lo scheletro di Ardi, la nostra più antica progenitrice

Il ritrovamento di Ardi, dal sito del National Geographic: traduzione integrale dell’articolo Oldest “Human” Skeleton Found–Disproves “Missing Link” (01/10/2009) , con i collegamenti alle immagini.

Qui la mappa della regione dei ritrovamenti (Reuters).

Riassunto per chi ha fretta

Un equipe di scienziati ha annunciato la scoperta, in Etiopia, dello scheletro di un’ominide più antica di Lucy. E’ lo scheletro più antico finora rinvenuto. L’ominide è chiamata Ardi, abbreviazione della specie a cui appartiene, Ardipithecus ramidus.

La scoperta risale al 1992 e riguarda i fossili di molti individui, il che è già una rarità. I resti sono molto delicati, perciò ci sono voluti anni per ripulirli e ricomporre lo scheletro.

Ardi presenta caratteristiche particolari che invalidano la teoria dell’anello mancante, secondo cui l’uomo discenderebbe direttamente da un primate simile a uno scimpanzé. Questo non lede la teoria dell’evoluzione ma diventa inutile studiare le scimmie antropomorfe per capire la biologia e il comportamento dell’uomo.

Il ritrovamento permette di avanzare nuove ipotesi sul perché gli ominidi divennero bipedi.

Le immagini sono meravigliose.


Trovato il più antico scheletro “umano”: sconfessa la teoria dell’“anello mancante”

Jamie Shreeve, Science editor, National Geographic magazine
Updated 6:44 p.m. ET, October 1, 2009

Fatti da parte, Lucy. E dì addio all’anello mancante.

Alcuni scienziati hanno annunciato oggi la scoperta del più antico scheletro fossile di un antenato dell’uomo. Il ritrovamento svela che i nostri progenitori vissero uno stadio evolutivo finora sconosciuto, oltre un milione di anni prima di Lucy, l’esemplare-icona dei progenitori umani che camminò sulla Terra 3,2 milioni di anni fa.

Pezzo forte di un tesoro di nuovi fossili, lo scheletro – attribuito ad una specie chiamata Ardipithecus ramidus – apparteneva ad una femmina di 110 libbre (50 chilogrammi), dotata di una piccola scatola cranica, soprannominata Ardi. (Immagini di Ardipithecus ramidus).

Il fossile manda in pensione la teoria, popolare sin dai tempi di Darwin, che alla radice della famiglia umana si sarebbe prima o poi trovato un anello mancante simile allo scimpanzé, una via di mezzo, nell’aspetto, tra l’uomo e le scimmie antropomorfe di oggi. In effetti, la nuova prova suggerisce che lo studio dell’anatomia e del comportamento degli scimpanzé – a lungo utilizzato per inferire la natura dei primissimi antenati dell’uomo – sia perlopiù irrilevante per comprendere le nostre origini.
(Cronologia interattiva: come la scoperta dell’Ardipithecus ramidus cambia la teoria dell’evoluzione umana).

Ardi invece mostra una mescolanza inattesa di caratteristiche evolute e di tratti primitivi tipici di primati molto più antichi e diversi dagli scimpanzé e dai gorilla (interattivo: le fattezze di Ardi).

Stando così le cose, lo scheletro apre uno spiraglio sul possibile aspetto dell’ultimo antenato comune a uomini e scimmie di oggi.

Annunciata in una conferenza stampa congiunta in Washington (D.C.) e Addis Abeba (Etiopia), l’analisi delle ossa dell’Ardipithecus ramidus sarà pubblicata domani, in una raccolta di documenti, in un numero speciale della rivista Science, con una valanga di materiale di supporto pubblicato online.

“Questo ritrovamento è di gran lunga più importante di quello di Lucy”, ha detto Alan Walker, un paleontologo dell’Università Statale della Pennsylvania, il quale non ha preso parte alla ricerca. “Esso mostra che l’ultimo antenato comune con gli scimpanzé non aveva l’aspetto di uno scimpanzé o di un uomo né di una buffa via di mezzo”. (Articolo collegato: Trovato il più antico fossile di Homo sapiens, secondo gli esperti [11 giugno 2003])

Ardi e la sua famiglia

I fossili di Ardipithecus ramidus sono stati rinvenuti nel desolato deserto di Afar, in Etiopia, in una località chiamata Aramis, nella regione del Awash centrale, distante solo 46 miglia (74 km) da dove fu scoperta Lucy, Australopithecus afarensis, nel 1974. La datazione radiometrica dei due strati di ceneri vulcaniche tra cui erano inseriti i resti fossili ha rivelato che Ardi visse 4,4 milioni di anni fa.

Esistono fossili di ominidi più antichi, tra cui un teschio proveniente dal Ciad e vecchio di almeno 6 milioni di anni e alcuni resti frammentari, leggermente più recenti, provenienti dal Kenya e da aree vicine all’Awash centrale. Per quanto importanti, tuttavia, nessuno di questi fossili è neanche lontanamente illuminante quanto i resti appena presentati che, oltre allo scheletro incompleto di Ardi, comprendono ossa di almeno altri 36 individui.

“All’improvviso trovi dita delle mani e dei piedi e braccia e gambe e teste e denti”, ha detto Tim White dell’Università di California – Berkeley, codirettore dei lavori insieme a Berhane Asfaw, paleoantropologo e già direttore del Museo nazionale di Etiopia, e a Giday WoldeGabriel, geologo al Laboratorio di Los Alamos, Nuovo Messico.

“Questo ci consente di fare qualcosa che è impossibile con esemplari isolati”, ha detto White. “Permette di studiare la biologia”.

(Articolo collegato: Riscoprire l’Ardipithecus)

Ardi si muoveva in uno strano modo

La sorpresa maggiore riguardo alla biologia dell’Ardipithecus è il suo inconsueto modo di muoversi.

Tutti gli ominidi noti finora – appartenenti alla nostra linea evolutiva – camminavano su due gambe, come noi. Invece i piedi, il bacino, le gambe e le mani di Ardi suggeriscono che ella fosse bipede sul terreno ma quadrupede nel muoversi sugli alberi.

Il suo grosso alluce, per esempio, diverge dal piede come quello di una scimmia, la posizione migliore per afferrare i rami degli alberi. Diversamente dallo scimpanzé, tuttavia, l’alluce dell’Ardipithecus ha un piccolo osso speciale all’interno di un tendine ereditato da più primitivi antenati, che mantiene più rigido l’alluce divergente. Insieme a modifiche delle altre dita, l’osso avrebbe aiutato Ardi a camminare da bipede sul terreno, anche se con meno efficienza degli ominidi successivi come Lucy. L’osso si perse nella linea evolutiva di scimpanzé e gorilla.

Secondo i ricercatori, il bacino mostra un analogo mosaico di caratteristiche. Le larghe ossa sporgenti del bacino superiore erano sistemate in maniera che Ardi potesse camminare a due gambe senza dondolarsi come uno scimpanzé. Ma la parte inferiore del bacino era costruita come quella di una scimmia, per ospitare robusti muscoli posteriori usati per arrampicarsi.

Anche sugli alberi, Ardi non era affatto simile alle scimmie di oggi, dicono i ricercatori.

Scimpanzé e gorilla odierni hanno sviluppato un’anatomia delle membra atta a scalare verticalmente i tronchi degli alberi, appendersi ai rami e dondolarsi e camminare al suolo sulle nocche.

Mentre questi comportamenti richiedono ossa del polso molto rigide, per fare un esempio, le ossa del polso e le nocche dell’Ardipithecus erano assai flessibili. Di conseguenza Ardi probabilmente camminava appoggiandosi sulle palme mentre si aggirava tra gli alberi – più come certe primitive scimmie fossili che come scimpanzé e gorilla.

“Quello che Ardi ci racconta è che c’è stato nella nostra evoluzione un vasto stadio intermedio di cui nessuno sapeva niente”, ha detto Owen Lovejoy, anatomo alla Kent State University in Ohio, il quale ha analizzato le ossa di Ardi dal collo in giù. “Questo cambia ogni cosa”.

Contro ogni probabilità, Ardi viene alla luce

I primi, frammentari esemplari di Ardipithecus furono rinvenuti ad Aramis nel 1992 e rivelati al pubblico nel 1994. Lo scheletro presentato oggi fu scoperto nello stesso anno e riportato alla luce, insieme alle ossa degli altri individui, nel corso delle tre stagioni di scavo seguenti. Ma ci sono voluti 15 anni prima che la squadra di ricerca potesse analizzare completamente e rendere pubblico lo scheletro, perché i fossili erano in pessime condizioni.

Dopo la morte di Ardi, i suoi resti furono apparentemente calpestati nel fango da ippopotami e altri erbivori di passaggio. Milioni di anni più tardi, l’erosione riportò alla superficie le ossa infrante e sformate. Esse erano così fragili che si polverizzavano al tocco. Per salvare i preziosi frammenti, White e colleghi portarono via i fossili insieme alle rocce circostanti. Poi, in un laboratorio in Addis Abeba, i ricercatori rimossero cautamente le ossa dalla matrice rocciosa usando un ago e osservando il lavoro al microsopio, procedendo “per millimetri e frazioni di millimetro”, come hanno detto su Science. Questo solo procedimento ha richiesto molti anni.

I pezzi del cranio infranto furono poi rilevati e riprodotti con la tomografia computerizzata e rimessi insieme digitalmente da Gen Suwa, paleoantropologo dell’Università di Tokio.

Infine, la squadra di ricerca ha recuperato oltre 125 pezzi dello scheletro, inclusa buona parte dei piedi e quasi per intero le mani – una vera rarità tra i fossili di ominidi di qualunque periodo, tanto più se così antichi.

“Trovare questo scheletro è stato più che fortuna”, ha detto White. “Era contro ogni probabilità”.

Il mondo di Ardi

La squadra trovò anche i fossili di circa 6.000 animali e altri esemplari che ci offrono un ritratto del mondo in cui Ardi viveva: una foresta umida assai diversa dal territorio siccitoso di oggi. Oltre a specie di antilopi e scimmie tipiche delle foreste, i depositi contenevano uccelli della foresta e semi di fichi e palme.

I segni di usura e gli isotopi trovati nei denti degli ominidi suggeriscono una dieta che comprendeva frutta fresca e secca e altri cibi tipici delle foreste.

Se White e la sua squadra hanno ragione nel pensare che Ardi camminasse eretta e si arrampicasse sugli alberi, la prova ambientale parrebbe stroncare l’“ipotesi savana” – un’annosa teoria secondo cui i nostri antenati cominciarono a camminare eretti perché vivevano nella prateria.

Sesso in cambio di cibo

Alcuni ricercatori, tuttavia, non sono convinti che l’Ardipithecus fosse tanto versatile.
“Questo è uno scheletro affascinante ma, a giudicare da quanto ci presentano, le prove che fosse bipede sono perlomeno limitate”, ha detto William Jurgens, anatomo alla Stony Brook University nello Stato di New York.

“I grandi alluci divergenti sono associati all’atto di afferrare e questo ha uno degli alluci più divergenti che si possa immaginare”, ha detto Jurgens. “Perché un animale totalmente adattato a spostare il proprio peso sugli alberi con gli arti anteriori dovrebbe scegliere di camminare a due gambe sul terreno?”

Una risposta provocatoria a questa domanda – proposta inizialmente da Lovejoy nei primi anni ’80 e ora precisata alla luce delle scoperte sull’Ardipithecus – attribuisce l’origine dell’andatura bipede a un altro segno distintivo dell’essere umano: il sesso monogamico.

Quasi tutte le scimmie, antropomorfe e non, soprattutto i maschi, hanno lunghi canini superiori – armi formidabili nelle lotte per l’accoppiamento.

L’Ardipithecus invece sembra aver già imboccato il sentiero evolutivo specificamente umano, secondo i ricercatori, con canini di taglia ridotta e sensibilmente “femminilizzati” in forma di corto e spesso diamante. Maschi e femmine sono anche simili nelle dimensioni corporee.

Lovejoy vede queste variazioni come parte di una svolta unica nel comportamento sociale: invece di combattere per avere le femmine, un Ardipithecus maschio avrebbe procurato il cibo ad una “femmina-obiettivo” – e alla sua prole – in cambio della sua lealtà sessuale.

Per fare la sua parte, un maschio aveva bisogno di avere le mani libere per portare a casa il cibo. Diventare bipede può essere stato per l’Ardipithecus un modo poco efficiente di andare in giro ma fare la sua parte nel contratto “sesso in cambio di cibo” sarebbe stato un modo eccellente per avere più discendenti. E nell’evoluzione, naturalmente, avere più discendenti è lo scopo del gioco (anche: I primi uomini cominciarono a camminare per il sesso?)

Duemila anni dopo l’Ardipithecus, comparve nella regione un’altra specie, chiamata Australopithecus anamensis. Secondo i più, quella specie presto evolse nell’Australopithecus afarensis, con una scatola cranica leggermente più grande e una totale dedizione alla vita da bipede. In seguito arrivò il primo Homo, con una scatola cranica ancora più grande e l’abitudine di costruire strumenti.

Forse i primitivi Ardipithecus subirono un mutamento accelerato nei 200.000 anni che intercorrono tra loro e gli Australopithecus – e sono gli antenati di tutti gli ominidi successivi? Oppure l’Ardipithecus era una specie relitta, che ha portato con sé il suo bizzarro mosaico di caratteristiche primitive ed evolute finché non si è estinta?

Il codirettore della ricerca White non vede nulla nello scheletro “che lo escluderebbe da una linea evolutiva ancestrale”. Ma ha detto che occorrerebbero più fossili per risolvere definitivamente la questione.

Jurgens di Stony Brook ha aggiunto: “Queste scoperte sono incredibilmente importanti e, dato lo stato di conservazione delle ossa, quello che essi hanno fatto lo definirei eroico. Ma è solo l’inizio della storia”.

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Qualcuno in Italia ha inizialmente annunciato la scoperta, venerdì, dicendo che era stato trovato l’anello mancante. Forse aveva letto male l’agenzia.

Ma ancor più mi sconcerta che c’è chi continua a pensare e scrivere “non è ancora l’anello mancante” (e già l’uso di questa forma implica “ma prima o poi lo troveremo”, anche se poi non aggiungesse che “ci porta molto più vicino ad esso“). Forse gli sfugge che “disproves” vuol dire altro? E il contenuto? Se Ardi ci dovesse portare più vicini all’anello mancante, perché NG dovrebbe scrivere il contrario? Che siano creazionisti? E perché secondo il dott. Lovejoy “Questo cambia tutto”? Creazionista pure lui?

Misteri della stampa.

L'uomo non è homini lupus. L'essere umano, a differenza delle scimmie non è istintivamente egoista e aggressivo, ma piuttosto altruista e solidale


We May Be Born With an Urge to Help


L'essere umano, a differenza delle scimmie non è istintivamente egoista e aggressivo, ma piuttosto altruista e solidale. E' quanto emerge da recenti studi di biologi, raccoti nel libro "Why we cohoperate" di Michael Tomasello, basati su studi fatti sui bambini. E' un dato importante, perché mostra una differenza qualitativa e non quantitativa dagli animali; e perché smentisce le ipotesi evoluzionistiche che si basano sulla sopravvivenza del più forte, invece che del più solidale.