Dal volume Laicità tra diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca a cura di Pierangelo Catalano e Paolo Siniscalco (Roma, L'Erma di Bretschneider, 2009, pagine 236), che raccoglie gli atti del xiv seminario "Da Roma alla Terza Roma" pubblichiamo quasi integralmente il contributo del cardinale archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
di Raffaele Farina Eusebio esprime le sue idee sulla Chiesa in quasi tutte le opere, in modo particolare e più ampio nel Commento a Isaia e nel Commento ai Salmi. Egli non tratta del laicato, come tale, dei "laici" ma dà largo spazio a quello che egli chiama il popolo, "i popoli della Chiesa" (òi tès ekklesìas laòi), il "gregge", il "coro", e così via.
La Chiesa, secondo Eusebio, è distinta in gerarchia e popolo. Il popolo, i fedeli, a loro volta, si distinguono in "illuminati in Cristo" e in quelli che sono "ammessi all'iniziazione". La gerarchia sale dai diaconi - e qui sta il primo grado di distinzione tra gerarchia e popolo - ai presbiteri, ai vescovi.
La Chiesa, "fecondata dal fiume che è il Lògos, genera la moltitudine del popolo di Cristo".
Eusebio distingue il popolo dalla Chiesa. Sembra che questa sia più che una distinzione verbale. Eusebio esprime questa distinzione, descrivendo il rapporto Chiesa-popolo come rapporto tra contenente e contenuto, isole e suoi abitatori; oppure come rapporto tra madre e figli o come rapporto tra comunità (koinonìa) e singoli che la compongono. Eusebio, come vedremo più avanti, distingue la Chiesa come istituzione, cioè la Chiesa come "città di Dio", dalla Chiesa come popolo.
Da chi è formato il popolo della Chiesa?
Il popolo della Chiesa è costituito dal "resto d'Israele", apostoli e discepoli di Cristo costituenti il nucleo giudaico della Chiesa primitiva, e inoltre dal popolo dei gentili. Quest'ultimo v'entra in prevalenza: la Chiesa viene detta perciò "Chiesa dalle genti", "Chiesa delle genti".
Il popolo della Chiesa così come si distingue assolutamente dal popolo della sinagoga si distingue pure dal popolo delle genti come tali, dai gentili o elleni, dai quali pure esso proviene. Questa distinzione è detta con l'espressione "Chiesa nelle genti".
Dalle genti sono venuti nella Chiesa quelli che ne difendono la dottrina (i vescovi) e gl'imperatori che respingono coloro che le preparano insidie. Un flusso continuo di genti nella Chiesa vi porta il fior fiore degli scienziati e sapienti, che ne saranno il decoro e la gloria; vi porta le persone che prima la bestemmiavano.
Anche se la Chiesa è perfetta, senza macchia, il popolo della Chiesa è fatto di buoni e cattivi. I giusti (dìkaioi) si rassomigliano contemporaneamente alla palma, che ha una espansione verticale verso il cielo, verso Dio, e al cedro, che ha un moltiplicazione orizzontale d'influsso e di salvezza sul prossimo. I non-perfetti (òi atelèsteroi) sono coloro che non attuano in sé completamente la doppia immagine della palma e del cedro, pur trovando anche essi posto nella Chiesa.
Il popolo della Chiesa dunque è il popolo nuovo piantato nella Chiesa terrena, in cui vi sono buoni e cattivi, per fiorire poi nella Chiesa celeste, perfetta e senza macchia.
La Chiesa terrena non è dunque definitiva, perché serve a uno scopo, raggiunto il quale, essa non ha più ragioni di esistere.
In conclusione: il popolo della Chiesa si distingue dalla Chiesa stessa come istituzione terrena e questa, a sua volta, si distingue dalla Chiesa celeste.
La "città di Dio" o "Gerusalemme celeste" è il tempio in cui Dio abita. I suoi cittadini sono i santi, i quali posseggono finalmente il Lògos. Essi sono detti "re", in quanto hanno conseguito nella "città di Dio" il Regno dei cieli e in quanto in essa regnano con Cristo; sono detti "sacerdoti", in quanto, sotto la guida di Cristo, principe dei sacerdoti, offrono doni a Dio in quel tempio celeste.
La "città di Dio celeste" è il Regno di Cristo in atto in cielo, il Regno dei cieli, il Regno del Padre.
La Chiesa invece, città di Dio terrena, è detta "Regno" in quanto è preparazione al "Regno dei cieli".
Eusebio applica questa dottrina della Chiesa come immagine del Regno dei cieli in tre modi: 1) Cristo è capo e Re della Chiesa, il novello Ciro che ha edificato la nuova Gerusalemme. 2) I cristiani, suoi sudditi, sono, oltre che in cielo, anche nella Chiesa. Essi sono singolarmente immagine di Lui e collettivamente immagine del suo Regno in cielo. Essi sono il popolo regale, la corona e il diadema che il Padre ha posto sul capo del Figlio. Essi sono i soldati di Cristo Re vittorioso ai quali Egli ha dato come bottino il genere umano. 3) La Chiesa conserva i simboli del regno di Dio la croce cioè, strumento della conquista del Regno e le norme di vita secondo il Vangelo e l'eusebèia degli antichi cristiani, dei patriarchi.
Nella descrizione delle due città, quella celeste e quella terrena, gli abitanti di essa, i cristiani, i fedeli, hanno caratteristiche regali e sacerdotali, che derivano loro dalla comune partecipazione al sacerdozio regale del Lògos-Cristo (come si esprime Eusebio). Mentre degli abitanti celesti, per dir così, si sottolinea il carattere "sacerdotale", di quelli terreni se ne mette in rilievo piuttosto quello "regale".
La concezione della Chiesa e conseguentemente del popolo e della gerarchia di essa, così come emerge dal Commento ai Salmi e dal Commento ad Isaia di Eusebio - pur riferita a confronto con le altre opere del cesariense - non è del tutto in linea con il resto del pensiero eusebiano, soprattutto quello delle opere panegiristiche in onore dell'imperatore Costantino. Di ciò non si ha una spiegazione soddisfacente, a parte la considerazione sulla natura, l'indole e i destinatari, nonché i modelli cui fanno riferimento le due categorie di opere totalmente diverse.
È necessario dunque dire una brevissima parola sulla posizione che Eusebio ha teorizzato per il più eminente dei fedeli - usare la parola laico è qui fuor di luogo - prima simpatizzante, poi "ammesso all 'iniziazione" e quindi "illuminato", per usare le espressioni sopra citate. Voglio dire di Costantino.
È nota la controversa affermazione, riferita da Eusebio, rivolta dall'imperatore a dei vescovi, in occasione di un convito, quando dice loro: "Voi siete vescovi di quelli (o per gli affari) che sono dentro la Chiesa, io invece sono vescovo di coloro (o per gli affari) che sono fuori della Chiesa".
Prescindiamo qui dalla storicità del pronunciamento e dal pensiero dell'imperatore in esso contenuto.
Il compito di Costantino come epìskopos tòn ektòs si riferisce al campo statale-politico, dentro il quale il "vescovo" imperiale riesce a imporre comandamenti e concezioni di fede cristiana. Ai vescovi infatti e alla Chiesa mancano i mezzi legali e potenziali per trasformare questo ambiente statale-politico. L'imperatore quindi è "vescovo" non solo di quei sudditi dell'impero che stanno al di fuori della Chiesa, ma anche di quegli altri che come membri della Chiesa nello stesso tempo sono anche membri dello Stato romano e sudditi dell'imperatore, e perciò anche come cristiani sottomessi agli ordini e leggi statali.
Epìskopos tòn ektòs non è una formula sanzionante la libertà della Chiesa. L'imperatore è sì "vescovo" costituito da Dio per ciò che è al di fuori della Chiesa; ma non nel senso, secondo concezioni moderne, di una progettata divisione di poteri tra Stato e Chiesa, nella quale divisione lo Stato sarebbe una potestà ordinatrice puramente secolare, separata dalla Chiesa. La pretesa è quella di una posizione di padrone non profana, fuori della Chiesa - parallela a quella dei vescovi dentro la Chiesa - un "ufficio di vescovo cristiano" per l'ambito che è fuori della Chiesa. L'imperatore, cristiano ante litteram, non-battezzato e non-ordinato è chiamato da Dio, secondo Eusebio, a coprire nel campo statale compiti cristiani e compiti vescovili: penetrare lo Stato dello spirito cristiano, dare una mano al cristianesimo per la vittoria sui culti pagani e far valere i comandamenti della fede cristiana su tutti i sudditi dell'impero. Poiché a far questo non sono capaci gli epìskopoi tòn èiso e la Chiesa ha bisogno dell'epìskopos tòn ektòs.
(©L'Osservatore Romano - 22 aprile 2010)
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