DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

India, tanta fede ma... Gli indù non conoscono l’ateismo, ammirano il Vangelo, elogiano Madre Teresa e i cattolici però i convertiti sono pochissimi.

di Piero Gheddo
Nei miei studi e letture e nei miei viaggi mi ha sempre appassionato l’India e an­che l’induismo, per un preciso motivo: penso che il popolo india­no, la cultura e la religione dell’In­dia abbiano conservato un profondo spirito religioso, un ri­chiamo a Dio costante nella vita, che noi in Occidente abbiamo per­so. La nostra cultura moderna è bacata dall’ateismo (illuminismo, idealismo, liberalismo, marxismo, socialismo, comunismo, nazismo). Nella cultura indiana l’ateismo non esiste. Di più, il rinnovamento dell’induismo nei tempi moderni (dalla seconda metà del 1800) ha avvicinato molto la religione e la cultura indiana a Cristo. Leggendo testi di Ramakrishna, Vivekananda e Gandhi mi sono chiesto: perché gli indù non si convertono a Cri­sto, quando ammirano il Vangelo e le Beatitudini e ammettono che sono una risposta molto precisa e vera ai problemi dell’uomo? Non parlo di masse di popolo, ma di in­tellettuali, filosofi, uomini religiosi che riflettono e vedono, non solo nei testi cristiani, ma nella Chiesa e nelle comunità cristiane, la testi­monianza molto concreta del fatto che dalla fede in Cristo viene un autentico umanesimo?
Parlo con un giovane confratello del Pime, padre Lokhande Rupak Yashwant, ora a Roma per studi di specializ­zazione in un’università ecclesia­stica: gli indù ammirano i cristiani; ma perché non si convertono a Cristo? «Il popolo cristiano – ri­sponde il sacerdote – dà in India una bella testimonianza di amore, di pace, di impegno per lo svilup­po. Molti indiani ci ammirano, Madre Teresa è l’icona del cristia­nesimo, ammirata, amata e vene­rata da tutti.
Gli ostacoli per la conversione a Cristo sono tre: an­zitutto l’induismo è panteismo e dunque è molto facile venerare Gesù come un profeta, una delle tante manifestazioni di Dio che ha anche la storia dell’India. L’indui­smo ingloba tutto e inserisce Cri­sto e i suoi valori nel proprio pantheon. La Chiesa cattolica e le Chiese cristiane sono ammirate per il contributo che hanno dato e danno all’istruzione, alla sanità, al­l’assistenza sociale dei poveri, ma il popolo indù non capisce perché ci sono degli enti religiosi staccati dalla tradizione indiana. Tutte le religioni sono vie diverse che por­tano allo stesso Dio; perché divi­derci e combatterci se abbiamo la stessa meta?».
Ma ci sono anche altri motivi, secondo il confratello: «I partiti indù estremisti, che stru­mentalizzano a scopo politico lo spirito religioso del popolo, hanno creato lo stereotipo che il vero in­diano è solo chi è indù. Gli altri so­no stranieri, non rappresentano l’identità profonda dell’India. Chi si converte al cristianesimo non è visto bene, è un traditore della pa­tria; questo pensa anche il popolo più semplice».
Ma il terzo motivo è forse il più difficile da spiegare e da capire, per chi non è indiano: «Quando si parla di fede e di ragio­ne, come spesso fa Benedetto XVI, l’India pensa che la ragione può arrivare fino a un certo punto, ma la religione supera tutto, perché Dio Creatore e Giudice è infinita­mente più grande dell’uomo. La cultura indiana, l’induismo hanno grandi filosofi, tutti con profonda fede religiosa, ma non mettono as­sieme o in contraddizione fede e ragione. Sono due livelli diversi».
Ma a livello pratico che conse­guenze ha questa visione? «La so­cietà indiana è divisa in varie caste. Si nasce in una casta superiore o inferiore (o tra i fuori casta, i pa­ria) perché nella vita precedente si è avuto un karma positivo o nega­tivo, si è compiuto il bene oppure il male. In questa vita si deve fare il bene e anche soffrire per meritarsi un karma migliore e poter rinasce­re in una casta superiore o almeno non più tra i fuori casta». Inter­rompo: ma la Costituzione indiana non ha abolito le caste? «Sì, ma a livello popolare l’indiano comune non la pensa così. Mi spiego. L’in­duismo ha avuto nell’ultimo seco­lo un rinnovamento molto forte, sotto l’influsso delle missioni cri­stiane e della colonizzazione ingle­se, ed ha affermato la dignità e l’e­guaglianza di tutti gli uomini, su­perando praticamente le caste. Ma questo progresso dalle élites non è arrivato a livello popolare. Il paria ancora non può entrare nel tem­pio, non può attingere acqua dal pozzo del villaggio, ma soprattutto è bene per lui essere servo, povero, umiliato perché questo è il suo karma: soffre per arrivare al livello degli altri». Insomma, la grande spiritualità indiana è in un certo senso responsabile dei suoi pro­blemi sociali... «L’induismo non conosce l’idea di incarnazione, dunque di un Dio che è uomo nel­lo stesso tempo, un Dio vicino al­l’uomo perché è Padre... Non un ente misterioso e lontanissimo, in­conoscibile e incomprensibile, ma amore. In Occidente la fede è mi­nacciata dalla ragione; l’India non ha questo problema, crede profondamente in Dio: però non lo conosce. O meglio: il Dio degli indiani è talmente lontano e abis­salmente diverso dalla ragione u­mana, che essa non può arrivare a conoscere nulla di lui». Questo spiega anche la difficoltà del dialo­go fra cristiani e non cristiani... «In Occidente non si capisce questa radicale e inconciliabile diversità fra cristianesimo e induismo, ma noi cattolici indiani ringraziamo o­gni giorno di avere la fede in Cri­sto. Per questo sono contrario ad un certo tipo di 'inculturazione' che legge nella Messa i testi sacri dell’induismo o ripete nella litur­gia gesti e riti troppo strettamente congiunti con le celebrazioni indù: i cristiani indiani vogliono piutto­sto staccarsi dall’induismo. Il Pa­pa, insistendo sul rapporto tra fe­de e ragione, porta Dio vicino al­l’uomo in Cristo; quando si capirà bene il valore di questo discorso, con tutte le conseguenze, sarà molto più facile il dialogo con in­duismo, islam e buddhismo, e an­che l’avvicinamento del mondo indù a Cristo». Tuttavia, nella vita di tutti i giorni, non è possibile che gli indù non vedano come i cristia­ni – oltre a creare molte opere di carità e di educazione per tutti – hanno saputo elevare i paria, i tri­bali, le basse caste, cioè decine e decine di milioni di indiani, e non capiscano che nel mondo moder­no il Vangelo è una formula per portare la società indiana a svilup­parsi in modo armonico, senza più le divisioni delle caste. Tanto più che la loro Costituzione, come le leggi varate dal Parlamento, hanno recepito tra i compiti di uno Stato moderno rendere la società meno ingiusta, elevare i poveri, equili­brare le classi sociali con meno in­giustizie e con la promozione degli ultimi... Come fanno gli indiani a sanare questa contraddizione? Il mio confratello spiega paziente­mente: «Secondo l’indiano del po­polo non c’è contraddizione. Lo Stato fa il suo dovere e promuove il welfare secondo la Costituzione e le leggi, ma – siccome la ragione non c’entra con la fede – non c’è problema se l’induismo dice un’al­tra cosa. D’altra parte la religione è una credenza tradizionale identi­taria, un sentimento che rende le­gati alla patria e fieri di un Paese dalla civiltà millenaria, dunque non si deve abbandonare anzi va fortificato... Ripeto: quando l’India discuterà e capirà a fondo il di­scorso di Papa Benedetto sulla ra­gionevolezza della fede cristiana, a vantaggio dell’uomo e della so­cietà, allora l’India si avvicinerà ancor più a Cristo».

«Avvenire» del 13 maggio 2010